domenica 8 gennaio 2012

Il Decadentismo in Italia. In sintesi vita e opere di Gabriele D'Annunzio e Giovanni Pascoli. A cura di Claudio Di Scalzo



DECADENTISMO IN ITALIA

 In Italia, dove la trasformazione economica in senso capitalistico avvenne in ritardo e in modo repentino, il Decadentismo non assunse il carattere radicale e dirompente che ebbe nella vicina Francia. Diversa è soprattutto la concezione della figura del poeta, il quale mantiene una funzione di guida culturale della società, al contrario di quanto avviene in Francia, dove si riconosce nell’isolamento la condizione del poeta, costretto ai margini di una società che non gli permette di vivere. Esemplare è la figura di D’Annunzio, poeta e letterato, ma anche uomo pubblico e straordinario precursore della moderna società dello spettacolo, che si atteggia a vate e condottiero degli spiriti più nobili e arditi della nazione.D’Annunzio crea il mito di se stesso, l’intellettuale più celebre e chiacchierato dell’epoca in Italia. Tenne conto con grande tempismo delle esperienze letterarie straniere contemporanee. La sua poesia divenne in breve il modello di riferimento (sia in positivo che in negativo) della generazione di poeti contemporanea e di quella successiva. La sua sensibilità straordinaria investe il mondo dei sentimenti, quello della natura e quello dell’arte, e la sua affascinante scrittura, ricca e suggestiva, ne costituisce la più appropriata traduzione in termini letterari.
I maggiori scrittori decadenti furono, oltre a D’Annunzio, Pascoli e Fogazzaro. In particolare Pascoli possiede una sensibilità che gli permette di entrare in contatto con il mondo che egli canta senza mediazioni razionali o intellettuali, e la sua poesia rende conto di questa magica sintonia. Lo fa con termini molto precisi, anche di uso comune, con versi spezzati e interrotti, con una ricerca sul suono che vuole ridare la suggestione degli oggetti di tutti i giorni e degli ambienti modesti che sono la base della sua ispirazione.
Quindi la rottura col Positivismo è già sancita dallo sviluppo delle poetiche decadenti e dall’opera sopra citata di Pascoli e D’Annunzio, ma c’è da dire che è proprio all’inizio del secolo che l’offensiva contro la cultura che aveva dominato la scena fino alla seconda metà dell’Ottocento si fa esplicita e imponente. La nuova mappa dell’uomo contemporaneo, non più padrone di se stesso e del mondo ma condizionato da quell’insieme di elementi che Freud, negli stessi anni, veniva definendo come inconscio, è stata consegnata alla nostra letteratura dall’opera geniale di Svevo e Pirandello.


GIOVANNI PASCOLI (1855-1912)

Biografia
La poesia di Pascoli è caratterizzata da una metrica formale con endecasillabi sonetti e terzine coordinati con grande semplicità. Nonostante la classicità della forma esterna, Pascoli ha saputo rinnovare la poesia nei suoi contenuti, toccando temi fino ad allora trascurati dai grandi poeti, capace di far capire nella sua prosa il piacere delle cose più semplici viste con la sensibilità infantile che ogni uomo porta dentro di sé.
Pascoli è sempre stato nella vita un personaggio malinconico, rassegnato alle sofferenze della vita e alle ingiustizie della società, convinto che la società che predominava in quel periodo fosse troppo forte per essere vinta. Nonostante ciò seppe conservare un senso profondo di umanità e di fratellanza.
Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna (provincia di Forlì), quarto di dieci fratelli.
Il padre Ruggero era amministratore della tenuta La Torre dei principi di Torlonia. L'ambiente famigliare, di tipo patriarcale e tradizionalmente legato ai valori della cultura agreste, gli garantì fino all'età di dodici anni serenità e sicurezza: poté così frequentare il liceo Raffaello di Urbino, assai rinomato negli stati pontifici e nella vicina Romagna, regione di antiche tradizioni umanistiche.

Myricae
Il libro Myricae, è una delle raccolte di poesie più amate del Pascoli. Ed è anche la prima raccolta vera e propria del Pascoli. Il titolo riprende una citazione di Virgilio all'inizio della IV Bucolica in cui il poeta latino proclama di innalzare il tono poetico poiché «non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici». Pascoli invece propone “quadretti” di vita campestre in cui vengono evidenziati particolari, colori, luci, suoni i quali hanno natura ignota e misteriosa. Il libro crebbe per il numero delle poesie in esso raccolte. Nel1891, data della sua prima edizione, il libro raccoglieva soltanto 22 poesie dedicate alle nozze di amici. Nel 1903, la raccolta definitiva comprendeva 156 liriche del poeta. I componimenti sono dedicati al ciclo delle stagioni, al lavoro dei campi e alla vita contadina. Le myricae, le umili tamerici, diventano un simbolo delle tematiche del Pascoli ed evocano riflessioni profonde. La descrizione realistica cela un significato più ampio così che, dal mondo contadino si arriva poi ad un significato universale. La rappresentazione della vita nei campi e della condizione contadina è solo all'apparenza il messaggio che il poeta vuole trasmettere con le sue opere. In realtà questa frettolosa interpretazione della poetica pascoliana fa da scenario a stati d'animo come inquietudini ed emozioni. Il significato delle Myricae va quindi oltre l'apparenza. Nell'edizione del 1897 compare la poesia “Novembre”, mentre nelle successive compariranno anche altri componimenti come “L'Assiuolo”. Pascoli ha dedicato questa raccolta alla memoria di suo padre «A Ruggero Pascoli, mio padre».

I primi componimenti occasionali
Al periodo degli studi liceali risalgono alcuni componimenti d'occasione, in versi, che vanno visti alla luce delle esercitazioni retoriche in uso a quel tempo negli istituti religiosi. Ma sicuramente la fantasia di Pascoli cominciava già a elaborare, a livelli profondi, tutte quelle impressioni sentimentali e ambientali che le tragedie famigliari avevano scaricato su di lui..

Il punto di rottura
Il punto di rottura avvenne con la detenzione nel carcere di Bologna, in seguito a una retata della polizia tra i socialisti che avevano organizzato una manifestazione contro il governo per la condanna dell'anarchico Filippo Passanante. L'isolamento forzato - dopo la goliardica esperienza dell'università e dell'impegno politico nei movimenti della sinistra - lo costrinse forse a riflettere su di sé. È da qui che cominciò quella che la critica storica ha registrato come la regressione infantile di Pascoli.

La morte del padre
Il 10 agosto del 1867 il padre Ruggero venne assassinato con una fucilata mentre tornava a casa da Cesena. Le ragioni e gli autori del delitto rimasero per sempre oscuri, almeno ufficialmente. Ma il trauma lasciò segni profondi nella vita di Giovanni. La famiglia cominciò dapprima a perdere il proprio status economico e poi a subire una serie impressionante di altri lutti, disgregandosi: costretti a lasciare la tenuta, l'anno successivo morirono la madre e la sorella Margherita, nel '71 il fratello Luigi e nel '76 il fratello maggiore Giacomo, che aveva tentato di ricostituire il nucleo famigliare. Pascoli dovette lasciare il liceo di Urbino, ma poté continuare gli studi a Firenze grazie all'interessamento di un suo professore.

La formazione letteraria
La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873 - 1882). Allievo di Carducci, Pascoli visse nella cerchia ristretta dell'ambiente creatosi attorno al grande poeta gli anni più movimentati della sua vita.
Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, Pascoli non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi e i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana.
Nel '75 perse la borsa di studio e con essa l'unico mezzo di sostentamento su cui poteva contare. La frustrazione e i disagi materiali lo spinsero verso il movimento socialista in quella che fu l'unica breve parentesi politica della sua vita. Nel 1879 venne arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere; l'ulteriore senso di ingiustizia e la delusione lo riportarono nell'alveo d'ordine del maestro Carducci e al compimento degli studi con una tesi sul poeta Poesia greca Alceo.

L’atteggiamento positivista
Era un atteggiamento positivista “romanticheggiante” che tendeva a vedere nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano.
Coerentemente con questi interessi, vi fu anche quello per la cosiddetta “filosofia dell'inconscio” del tedesco Eduard von Hartmann, l'opera che aprì quella linea di interpretazione della psicologia in senso anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana.

L’interesse per il mondo dell’infanzia
È evidente in queste letture - come in quella successiva dell'opera dell'inglese James Sully sulla “psicologia dei bambini” - un'attrazione di Pascoli verso il “mondo piccolo” dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua.
Per tutto l'Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell'infanzia, dapprima in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico.
I Romantici avevano paragonato, sulla scia di Vico e di Rousseau, l'infanzia allo stato primordiale “di natura” dell'umanità, inteso come una sorta di età dell'oro.
Verso gli anni '80 si cominciò invece ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell'infanzia, portando l'attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento.
La letteratura per l'infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell'Ottocento.

La poetica del fanciullino
Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del “Fanciullino”, ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso e un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia mancava dall'epoca di Leopardi.

La poesia come “mondo” che protegge dal mondo
Dopo la laurea conseguita a Bologna nel 1882 ebbe inizio la sua carriera di professore di latino e greco nei licei di Matera e di Massa. Qui volle vicino a sé le due sorelle minori Ida e Maria, con le quali tentò di ricostituire il primitivo nucleo famigliare. Dal '87 al '95 insegnò a Livorno.
Intanto iniziava la collaborazione con la rivista «Vita nuova», su cui uscirono le prime poesie di Myricae (la raccolta continuò a rinnovarsi in cinque edizioni fino al 1900).
Vinse inoltre per ben tredici volte di seguito la medaglia d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam, col poemetto Veianus e coi successivi Carmina. Nel '94 fu chiamato a Roma per collaborare col Ministero della pubblica istruzione; nella capitale pubblicò la prima versione dei Poemi conviviali (Gog e Magog).

Il poeta e il fanciullino
Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da egli stesso così bene esplicitata appunto nello scritto omonimo apparso sulla rivista Il Marzocco nel 1897.
In tale scritto, Pascoli dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista - della poesia, vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. Poesia quindi non come ragione o, peggio, come semplice logos, ma come possibilità di attribuire significati alle cose che ci circondano, viste da un punto di vista assolutamente soggettivo.
Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale “Biblioteca dei popoli”.


GABRIELE D’ANNUNZIO (1863-1938)

La vita
Nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia medio-borghese. Studia al collegio “Cicognini” di Prato, una dei più prestigiosi d’Italia, quindi si stabilisce a Roma, dove si iscrive alla facoltà di Lettere, senza però completare gli studi. Appena sedicenne pubblica un libro di poesie intitolato Primo vere, ispirato decisamente al Carducci. A Roma inizia, per il poeta, una più brillante avventura, letteraria e, insieme, umana. Il periodo romano è caratterizzato dalla frequentazione dei salotti, diviene cronista mondano dell’aristocrazia della capitale e si immerge in una vita d’esteta, protesa, fra amori e avventure, alla ricerca di piaceri raffinati. Vaste ma non profonde sono, in questo periodo, le sue esperienze di cultura. Legge soprattutto i poeti del Decadentismo europeo, di cui assorbe i motivi di sensibilità più raffinata. Nel 1882 viene pubblicato il secondo libro di poesie, Canto Novo, che arricchiva il linguaggio carducciano, già utilizzato per la raccolta d’esordio, di una solare e corporea vitalità. Qualche anno dopo pubblica un romanzo che ha un notevolissimo successo: Il piacere.
D’Annunzio cerca di trasferire il suo gusto estetizzante anche nella vita, coltivando l’eleganza e indulgendo al gesto clamoroso. Adora circondarsi di raffinate opere d’arte e conduce una vita dispendiosa che lo porta a indebitarsi. Proprio per sfuggire ai debiti si trasferisce nel 1891 a Napoli, dove rimane fino al ’94. Le raccolte poetiche maggiori sono del 1903: con i primi tre libri, Maia, Elettra, Alcyone si sarebbero misurati i poeti italiani delle successive generazioni. Ad Alcyone appartengono le famose liriche “La sera fiesolana” e “La pioggia nel pineto”, dove viene ripreso il tema, già preannunciato nel Canto Novo, dell’immedesimazione del poeta con la natura. Fino dalla fine dell’Ottocento comincia a registrare appunti e ricordi, costituendo così la base per le prose raccolte nelle Faville del maglio. Tornato in Italia, dopo un viaggio all’estero, nel 1915, tiene violenti discorsi a favore dell’intervento in guerra e si impegna personalmente in ardite azioni belliche. Dal 1921 fino alla morte vive sul lago di Garda, a villa Cargnacco.

La poetica
La poetica e la poesia del D’Annunzio sono l’espressione più appariscente del Decadentismo italiano. Dei poeti decadenti europei egli accoglie modi e forme, senza però approfondirne l’intima problematica, ma usandoli come elementi decorativi della sua arte fastosa e composita. Aderisce soprattutto alla tendenza irrazionalistica e al misticismo estetico del Decadentismo, collegandoli alla propria ispirazione narrativa, naturalistica e sensuale. Egli rigetta la ragione come strumento di conoscenza per abbandonarsi alle suggestioni del senso e dell’istinto; spesso vede nell’erotismo e nella sensualità il mezzo per attingere la vita profonda e segreta dell’io. Egli cerca una fusione dei sensi e dell’animo con le forze della vita, accogliendo in sé e rivivendo l’esistenza molteplice della natura, con piena adesione fisica, prima ancora che spirituale. È questo il “panismo dannunziano”, quel sentimento di unione con il tutto, che ritroviamo in tutte le poesie più belle di D’Annunzio, in cui riesce ad aderire con tutti i sensi e con tutta la sua vitalità alla natura, s’immerge in essa e si confonde con questa stessa. La poesia diviene quindi scoperta intuitiva; la parola del poeta, modulata in un verso privo di ogni significato logico, ridotta a pura musica evocativa, coglie quest’armonia e la esprime continuando e completando l’opera della natura. La sua vocazione poetica si muta poi in esibizionismo e la poesia vuol diventare atto vitale supremo, una sorta di moralità alla rovescia, estremamente individualistica e irrazionale. Abbiamo allora l’esaltazione del falso primitivo, dell’erotismo o quella sfrenata del proprio io, indicata nei due aspetti dell’estetismo e del superomismo. L’estetismo è in definitiva il culto del bello, in pratica vivere la propria vita come se fosse un’opera d’arte, o al contrario vivere l’arte come fosse vita. Quest’atteggiamento, preso dal Decadentismo francese, è molto consono, corrispondente cioè alla personalità del poeta. Quindi l’esteta si limita a realizzare l’arte, ricercando sempre la bellezza; ogni suo gesto deve distinguersi dalla normalità, dalle masse. Di conseguenza vengono meno i principi sociali e morali che legano al contrario gli altri uomini. A differenza di questo il superuomo assomiglia all’esteta, ma si distingue per il suo desiderio di agire. Il superuomo considera che la civiltà è un dono dei pochi ai tanti e per questo motivo si vuole elevare al di sopra della massa; è l’esteta attivo, che cerca di realizzare la sua superiorità a danno delle persone comuni.

giovedì 5 gennaio 2012

"Una donna" di Sibilla Aleramo. materiale per tesine a cura di Claudio Di Scalzo

Il romanzo Una donna (1906), opera autobiografica di Sibilla Aleramo, inizia con il ricordo della fanciullezza libera e spensierata della protagonista e presenta i vari personaggi attraverso un lento e graduale crescendo delle loro singole individualità soffermandosi su alcune figure chiave: il padre, la madre, il marito, il figlio, il profeta, descritti nella storia sono tutte persone che hanno interagito in modo significativo con la vita della scrittrice.
Il nodo di tutto è la disuguaglianza costruita a partire dal sesso e il nemico è il sistema che la civiltà ha edificato attraverso il tempo. All’età di dodici anni la Aleramo si trasferì da Milano in una cittadina del mezzogiorno perché il padre aveva ottenuto la direzione di un’industria chimica. Dopo pochi anni che si trovava nel nuovo paese, la protagonista interruppe gli studi e venne impiegata regolarmente nella fabbrica diretta dal padre. Un’epoca di grandi cambiamenti e di crisi della famiglia borghese fa da scenario agli episodi salienti della vita della scrittrice; il passaggio dal mondo del lavoro, al quale era stata avviata dal padre, a un matrimonio violento e senza amore, a cui fu costretta, la videro interpretare un ruolo che odiava, quello di donna moglie e madre in cui era richiesto l’annientamento del proprio Io. L’esempio più vicino era quello di sua madre vittima lei stessa di un matrimonio sbagliato che l’aveva spinta in depressione e poi al suicidio.
Da queste vicende individuali nasce l’esigenza della scrittrice di cercare attraverso la scrittura una sua identità. Il combattere per trovare qualche trascendenza alla semplice volontà di fuga e l’arrendersi di fronte al richiamo imperativo di fedeltà alla propria legge e alla propria vita, creano un’atmosfera nella storia in cui il tempo, che scorre monotono, fa da cornice a tutta quella serie di avvenimenti che serviranno a rendere la giovane donna finalmente “padrona della scelta”.
Una donna è un complesso sviluppo narrativo in cui la struttura e i personaggi, divengono parte di quel meccanismo reale che rivela tutta la forza di una vita segnata dalla passione per l’avventura intellettuale e artistica e che fa pensare ad una forma di confessione minuziosa, un diario frammentato e rifuso a posteriori. In questa opera prevale la rivendicazione sociale di un ruolo femminile paritario a quello maschile.
In una prosa del 1911 (“Apologia dello spirito femminista”, compresa nel volume Andando e stando), scriveva che il femminismo come movimento sociale era stato una breve avventura, eroica all’inizio, ma grottesca sul finire, un’avventura da adolescenti, inevitabile ed ormai superata. Il suo carattere femminista si era riversato sul lato letterario e spirituale, sulla rivendicazione della “diversità” femminile e della necessità della “libera estrinsecazione dell’energia femminile”. In realtà, il libro divise le femministe e le scrittrici, che riconoscevano la particolarità di quella “coscienza evoluta”, ma ne prendevano le distanze, identificando il bambino come l’unica vera vittima; la rivista femminista Vita internazionale la giudicò come orgogliosa, egoista e priva di forza, incapace al sacrificio estremo.
Nelle liti col marito la giovane cercava di tenere duro, per far crescere il figlio con una mente libera e aperta. Dalle liti però si passò alle percosse e la ragazza stremata decise di partire, ma quando lo comunicò al marito, lui disse che avrebbe acconsentito purché il piccolo fosse rimasto con lui. La donna, divisa tra il desiderio di realizzare se stessa e l’istinto materno, partì e tornò a Milano dove si trovava la sua famiglia, con la speranza che nel giro di pochi giorni avrebbe fatto in modo che suo figlio la raggiungesse. Ma i giorni passarono così come i mesi e gli anni e il suo piccolo a Milano non venne mai. Le lettere che la madre gli scriveva non ebbero mai una risposta, la protagonista allora, soffrendo in silenzio, decise di scrivere un libro per far si che le parole in esso contenute lo raggiungessero, permettendogli di comprendere le scelte che aveva compiuto.
Lo scopo che l’autrice si prefigge è quello di mostrare per la prima volta “l’anima femminile moderna”, capace di tramutare l’essenza di una vita in arte. E proprio attraverso ogni forma d’arte e di libero pensiero l’Aleramo si era attivata nel movimento per l’emancipazione della donna, collaborando a riviste e giornali, e partecipando alle campagne più significative di sensibilizzazione, da quelle per il voto alle donne a quelle per la pace, contro l’alcolismo, la prostituzione e la tratta delle bianche.


SIBILLA ALERAMO (1876-1960) - NOTA BIOGRAFICA

Scrittrice e giornalista. Prima di quattro figli, nacque dal professore di scienze Ambrogio Faccio e da Ernesta, una casalinga. Nel 1888, la sua famiglia si trasferì da Milano in un piccolo paese delle Marche, dove Ambrogio diresse una fabbrica di vetro. Impiegata come bibliotecaria, nella fabbrica, all'età di sedici anni dovette sposare Ulderico Pierangeli, un operaio della fabbrica, che la aveva violentata.
Risentendo sia dell'instabilità mentale della madre, sia della costrizione di un'unione sfortunata, ad un certo punto tentò il suicidio, e per il resto della sua lunga vita ebbe continui sbalzi depressivi. La scrittura divenne l'unica fuga di questa donna sensibile e brillante. Pur avendo ricevuto solo un'istruzione elementare, cominciò a collaborare con riviste femministe, e per tutta la vita scrisse recensioni di libri, critiche letterarie, studi sociologici e commenti sulla vita quotidiana.
Nel 1899, la sua reputazione era così grande, che le fu offerto di dirigere una rivista femminile a Milano, dove si era trasferita, per un breve periodo, con la famiglia di Pierangeli. Milano le aveva offerto una finestra sul mondo, così quando il marito la costrinse a tornare al paese, Rina prese la difficile decisione di abbandonare la sua famiglia ed iniziare una vita che le permettesse di affermarsi come persona. Distrutta dalla separazione dal figlio amatissimo, si trasferì a Roma nel 1902. Ebbe una relazione con il giovane poeta valtellinese, nato a Morbegno, Felice Damiani. Poeta che morirà giovanissimo.
A Roma conobbe Giovanni Cena, direttore della rivista letteraria La Nuova Antologia, con il quale instaurò un sodalizio culturale e spirituale, durato sette anni. Fu durante questo periodo che Rina Faccio, guidata e supportata dal suo mentore (che però impose di non citare né ricordare il suo primo amante Felice Damiani) e dagli altri intellettuali divenuti suoi amici, pubblicò il suo primo libro: Una Donna (1906). Con questo evento, Rina Faccio divenne Sibilla Aleramo, un nuovo nome per una nuova vita.
Alla fine della sua storia con Giovanni Cena, nel 1910, Sibilla iniziò un viaggio durato venti anni. In questo periodo, continuando a scrivere ed a collaborare con diverse riviste, la scrittrice attraversò tutta l'Italia e parte dell'Europa, alla ricerca dell'amore perfetto, che avrebbe dato un senso assoluto alla sua vita.
Nel 1928, però, orami ridotta sul lastrico tornò a Roma, dove finì i suoi giorni, dopo aver militato contro il Fascismo ed essersi innamorata per l'ultima volta del giovane Franco Matacotta, uno studente quarant'anni più giovane di lei. Leggenda del femminismo, Sibilla Aleramo si spense nel 1960, all'età di ottantatré anni, senza mai aver smesso di scrivere.


DONNE E LETTERATURA. DOPO SIBILLA ALERAMO
Nel XX secolo nasce e si intensifica sempre più la produzione letteraria e poetica ad opera delle donne. Tale fenomeno viene generalmente inserito all’interno del quadro di modernizzazione della civiltà italiana ed europea contemporanea, ma soprattutto viene associato al processo dell’emancipazione femminile e al cambiamento dei rapporti fra uomo e donna.
Nonostante non esista ancora una storia della letteratura italiana femminile, molte rappresentanti di essa, da Sibilla Aleramo ad Elsa Morante, da Grazia Deledda ad Anna Maria Ortese e Natalia Ginzburg, fanno parte delle più alte e significative sfere della nostra produzione letteraria.
Il filone letterario “al femminile” si apre, nel nuovo secolo, con l’opera di una scrittrice che nel panorama generale spicca per la sua scrittura innovativa, per la sua vita intensa e per le sue molte storie sentimentali. Sibilla Aleramo, al secolo Rina Faccio: bella, intelligente, modello di donna nuova libera da schemi e pregiudizi, autrice di un’opera stimata da tanti come la “bibbia del femminismo”, Sibilla Aleramo viene così giustamente considerata una delle figure più originali ed anticonformiste della letteratura del Novecento.
Il suo primo romanzo, l’autobiografia Una donna, pubblicato nel 1906, è considerato una testimonianza della condizione femminile dell’epoca ed è il primo libro femminista apparso in Italia. Una donna è la prima opera firmata con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo ed è anche quella che le ha donato da subito la notorietà, delineando la sua immagine pubblica e privata. Il romanzo infatti riscosse successo e la sua pubblicazione suscitò l’interesse della società dell’epoca: il testo, commovente e provocatorio allo stesso tempo, animò per più di un anno il dibattito culturale italiano.
L’opera, che racconta la vicenda umana della scrittrice, non è una semplice autobiografia né un diario, ma è considerata una riflessione spietata e acuta sul proprio passato, una sorta di “autoanalisi” letteraria. In ventidue brevi capitoli la protagonista, partendo dagli anni spensierati della sua infanzia, arriva al tempo della prima stesura del romanzo, quando cioè avrà già lasciato suo marito e suo figlio.
Rina infatti, dopo aver subito uno stupro da parte di uno dei dipendenti che lavorano nella fabbrica del padre, viene costretta a sposare quest’uomo con un matrimonio “riparatore”, un matrimonio senza amore da cui nascerà il suo unico figlio che per molto tempo rappresenterà la sua unica salvezza.
La solitudine, il disprezzo per il marito, l’atmosfera chiusa e gretta della provincia la spingeranno, dopo un tentato suicidio, a ritrovare conforto nella scrittura. L’autobiografia si trasforma così in un percorso di formazione che, nell’arco di dieci anni, porterà la scrittrice ad una maturazione: deciderà infatti di lasciare definitivamente la famiglia e il suo adorato figlio.
Nel 1902 Rina lascia il marito e il figlio e si trasferisce a Roma per inseguire la sua vocazione letteraria ma soprattutto la sua libertà e indipendenza. Per l’abbandono del tetto coniugale Sibilla, secondo la legge, perde ogni diritto sul bambino e per questo il distacco diventa ancora più doloroso e drammatico, un allontanamento che per lei risulta essere però necessario. In realtà questo romanzo viene scritto dalla Aleramo proprio per il suo amato figlio, perché un giorno possa leggere la storia di sua madre e capire fino in fondo le sue tormentate scelte. Tema centrale del libro rimane perciò la maternità che nel romanzo viene ampiamente trattato.
Scrivendo la sua storia Sibilla definisce di nuovo anche la sua immagine, riportando in superficie il valore profondo del suo percorso. Una donna è, come la stessa autrice spesso lo ha definito, il libro del suo passato che rappresenta dunque allo stesso tempo la nascita ad una nuova vita, è l’annuncio del futuro: la donna Rina lascia il posto alla scrittrice Sibilla. Lo stesso pseudonimo che Rina sceglierà e con cui firmerà questa e tutte le sue successive opere, cancellerà d’ora in avanti e per sempre il suo nome e il cognome del padre e del marito.
La perdita del nome rappresenta una cesura netta con il suo passato e coincide con la nascita della sua “seconda vita”, come lei stessa amava definirla, una nascita di certo violenta e non naturale costellata da abbandoni dolorosi. Il libro va dunque letto per la vicenda che narra ma soprattutto per il modello di donna nuova che cerca di proporre.
La scrittura è la via che l’autrice ha scelto per affermare se stessa e la sua identità di donna e il romanzo, esito finale di un’esperienza di vita, diviene un modello universale di riscatto. L’itinerario intellettuale e privato di una sola donna assume in questo modo, come già rivela il carattere generale del titolo stesso, Una donna, il ruolo di testimonianza e di documento di denuncia.
Nel romanzo infatti, specchio della società italiana a cavallo dei due secoli, la Aleramo, con occhio critico, analizza buona parte dei problemi delle donne della sua epoca. E il valore di “romanzo femminista”, intuito già alla sua pubblicazione, favorì probabilmente il grande successo di pubblico e di critica.