sabato 24 maggio 2014

Giovanni Verga: Vita e percorso letterario. A cura di Claudio Di Scalzo






GIOVANNI VERGA: Vita e percorso letterario. Opere. Capuana e De Roberto

IL MODELLO DEI ROMANTICI. Giovanni Verga nacque nel 1840 a Catania in una famiglia di proprietari terrieri. Studiò con insegnanti privati tra i quali un sacerdote liberale e patriota, Antonino Abate, grande ammiratore della lettera­tura romantica. Infatti Verga aveva solo diciassette anni quando scrisse il suo primo romanzo, del quale i modelli erano evidentemente le opere di Eugène Sue, Alexandre Dumas padre, Francesco Guerrazzi ( ricordiamo Amore e patria del 1857.
ABBANDONA GLI STUDI. Un secondo romanzo dello stesso tipo (I carbonari della montagna, 1859) lo pubblicò con i soldi destinati a pagare gli studi universitari (si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza ma la lasciò presto). Il suo terzo romanzo (Sulle lagune, pubblicato a puntate sulla rivista fiorentina "La nuova Europa" nel 1863) racconta dell'amore di una ragazza italiana per un ufficiale austriaco, e questa volta la vicenda sentimentale ha la preminenza rispetto allo sfondo storico-patriottico.
L'IMPEGNO PATRIOTTICO. Quando Garibaldi sbarcò in Sicilia, nel 1861, Verga si schierò dalla parte della rivoluzione arruolandosi nella Guardia Nazionale, la quale però finì per essere utilizzata per tutelare gli interessi della ricca borghesia terriera, nella repressione delle rivendicazioni sociali dei contadini. Tra il 1860 e il 1864 si dedicò al giornalismo patriottico-politico, fondando e dirigendo diversi giornali dalla vita breve.
FIRENZE. Nel 1865 andò per la prima volta a Firenze (dove ritornò più volte, fino ad abitarvi quasi stabilmente tra il 1869 e il 1871), come era d'obbligo per chi avesse ambizioni letterarie: Firenze viveva una intensa vita letteraria e artistica grazie agli innumerevoli uomini di lettere che vi vivevano e per la quantità di circoli e salotti in cui si riunivano. A Firenze conobbe Capuana, Dall'Ongaro, Prati, Aleardi, Imbriani. In questo periodo scrisse i primi due romanzi "scapigliati": Una peccatrice (1866) e Storia d'una capinera (1871).
MILANO. In quegli anni non meno importante di Firenze era Milano, sede privilegiata dell'industria editoriale, delle case letterarie e musicali, dei teatri, del giornalismo. Verga vi si trasferì nel 1872. Frequentò gli scrittori della scapigliatura, Federico De Roberto, Giuseppe Giacosa, il celebre salotto lettera­rio della contessa Maffei, partecipò ai dibattiti letterari, teatrali, musicali del tempo. Scriveva ancora opere di gusto scapigliato e tardo-romantico (Eva, 1873; Tigre reale, 1873; Eros, 1875), ma iniziava a interessarsi alla narrativa francese e in particolare a Flaubert e a Zola, in accordo con le idee sostenute da Capuana che andava elaborando la poetica del verismo italiano.
IL CICLO DEI VINTI. Nel 1880 pubblicò la raccolta di novelle Vita dei campi e l'anno seguente I Malavoglia, il primo romanzo di un ciclo che aveva progettato sin dal 1878. Il romanzo, come lui stesso scrisse a Capuana, fu un «fiasco pieno e completo» (le precedenti opere di Verga avevano avuto molto successo di pubblico). Nel 1888 pubblicò a puntate sulla "Nuova Antologia" il secondo romanzo del ciclo dei "Vinti", Mastro-don Gesualdo, l'anno dopo rielaborato e ripubblicato in volume. Non terminò mai il terzo romanzo del ciclo (che prevedeva in tutto cinque romanzi): La duchessa de Leyra, iniziato intorno al 1907.
IL TEATRO. A partire dal 1893 Verga si recò sempre più raramente a Milano, rimanendo per lo più a Catania e a Roma. Dopo aver pubblicato le raccolte di novelle / ricordi del Capitano d'Arce ( 1891 ) e Don Candeloro & C. ( 1894) si dedicò prevalentemente al teatro (La lupa, 1896; In portineria, 1896; Dal tuo al mio, 1905). Intanto aveva conquistato una piena agiatezza economica in seguito al riconoscimento, in seguito a una lite giudiziaria, dei diritti d'autore per l'adat­tamento operistico della sua novella, compresa in Vita dei campi, Cavalleria rusticana (l'opera, musicata da Mascagni su libretto di Targioni Tozzetti e Menasci, aveva avuto nel 1890 uno straordinario successo).
GLI ULTIMI ANNI. Negli ultimi anni visse appartato e solitario, sempre più ottusamente conservatore in politica: arrivò ad applaudire la durissima repressione del generale Bava Beccaris dei moti milanesi del 1898, aderì al naziona­lismo e all'interventismo. Fu polemicamente indifferente ai riconoscimenti ufficiali (nel 1920 i suoi 80 anni vennero festeggiati in una cerimonia pubblica alla presenza del ministro della Pubblica Istruzione, Benedetto Croce, con un discorso di Pirandello; nello stesso anno venne nominato senatore). Morì a Catania nel 1922.

IL PENSIERO E LA POETICA
due prefazioni. Nella prefazione in forma di lettera all'amico Salvatore Farina che scrisse nel 1880 per L'amante di Gramigna (una delle novelle di Vita dei campi), e nella prefazione scritta nel 1881 per I Malavoglia, Verga espose le sue idee sulla letteratura.
il romanzo perfetto vive di vita propria. Nella lettera a Farina definiva come «la più completa e la più umana» delle opere d'arte. Scriveva, esponendo una delle principali tesi del verismo, che un romanzo raggiunge la perfezione quando il rapporto tra tutte le sue parti è così equilibrato da non lasciare avvertire la presenza dell'autore, da consentire che l'opera viva di vita propria: «l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l'impronta dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, (…) come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore».
l'analisi di una tendenza dell'umanità. Nella prefazione a I Malavoglia Verga definiva il progettato ciclo di romanzi (in un primo tempo chiamato Marea, poi Vinti) come l'analisi accurata (uno «studio sincero e spassionato») di un segmento fondamentale dell'attività umana: la «ricerca del meglio».
ambizioni sempre più complesse. Il ciclo parte dall'analisi applicata alle classi sociali più umili, in cui la «ricerca del meglio» è ancora soltanto la lotta per i bisogni materiali (I Malavoglia); poi passa alla lotta per arricchirsi, esaminata in un tipo borghese (Mastro-don Gesualdo) per proseguire con la nobiltà e le ambizioni più complesse (nei romanzi che non vennero realizzati: Duchessa di Leyra; L'onorevole Scipioni; L'uomo di lusso).
le passioni degli umili sono più semplici. L'analisi viene applicata prima ai più umili perché in loro «il meccanismo delle passioni [...] è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggiore precisione. [...]. A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi». Verga aveva del mondo contadino una visione evidentemente idealizzata, come di un mondo "primitivo", alternativo al mondo borghese della moderna civiltà industriale, complesso e artificiale.
I vinti rimangono ai margini. L'incessante movimento in avanti dell'umanità, «dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni», lascia ai suoi margini i deboli, i «vinti che [...] piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani. I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la duchessa de Leyra, L'onorevole Scipioni, L’uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati».
positivismo pessimista. L'idea di progresso, positiva nell’ideologia del positivismo, viene dunque da Verga impietosamente privata di ogni ingenuo ottimismo: è vero che il cammino dell'umanità in avanti è incessante, ma è altrettanto vero che ha un prezzo. A vincere nella lotta per l'esistenza non è il più giusto, ma il più forte e spietato.
Lo scrittore È solo un osservatore. Lo scrittore non è che un osservatore con il compito di riprodurre la realtà con assoluta precisione e sincerità: «Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere».

LE OPERE
I primi romanzi. Dopo i primi tre romanzi storici Amore e patria, I carbonari della montagna, Sulle lagune, molto legati ai modelli romantici (Dumas padre, Sue, Guerrazzi), Verga scrisse alcuni romanzi ambientati nella società contemporanea, di gusto tardo romantico.
una peccatrice (1866)
Scritto sulla scia di La signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio, possiede alcune caratteristiche tipiche della narrativa tardo-romantica e di presa sicura sul pubblico, come l'amore-passione che contrasta con le convenzioni sociali e che conduce alla morte; e la generosità femminile contrapposta all'aridità maschile.
la trama. Inizia con il funerale della contessa Narcisa Valderi, per poi raccontarne la storia: lei ha abbandonato marito e ricchezze per seguire il giovane scrittore Pietro Brusio, che dopo avere ottenuto il suo amore la ha trascurata, spingendola alla disperazione e al suicidio. E morta avvelenata dall'oppio, lasciando Pietro oppresso dai rimorsi e abbrutito in una esistenza squallida.
storia di una capinera (pubblicato nel 1870 su un giornale femminile, "La ricamatrice", e nel 1871 in volume).
Opera di notevole successo, per la quale Dall'Ongaro scrisse una prefazione sollecitandone la lettura come "romanzo sociale" contro la monacazione forzata. Si tratta in realtà di un romanzo intimo, scritto in forma di diario epistolare della protagonista, a tratti eccessivamente patetico ma realisticamente documentato nella ricostruzione della disciplina dura e dei rituali macabri dei conventi.
la trama. Maria, costretta dalla matrigna a entrare in convento, ritorna in famiglia in occasione di una epidemia di colera e così conosce la libertà e si innamora di Nino. Costretta a ritornare in convento per la definitiva assunzione dei voti, viene a sapere che Nino si è sposato con la sorella Giuditta e finisce i suoi giorni sconvolta dalla follia.
Eva (1873). Romanzo vicino al gusto della moderna narrativa francese. Racconta la storia di Enrico Lanti, giovane pittore catanese immigrato a Firenze in cerca di fortuna. Si innamora di una ballerina che per lui abbandona tutto e si adatta a vivere fra gli stenti, ma poi riprende la sua vita e la relazione con un antico amante. Enrico, che è diventato famoso, la vuole riconquistare e in duello uccide il rivale, ma inutilmente. Ritornerà al suo paese e vi morirà di tubercolosi.
EROS (1875) Romanzo che racconta una vicenda tragica basata sull'irrequietezza del prota­gonista, Alberto Alberti, uno dei tanti giovani borghesi della letteratura tra Ottocento e Novecento che sprecano nella mancanza di scopi la loro vita.
la trama. Alberto esce di collegio: ha vent'anni, è bello, ricco, pieno di voglia di vivere. Intreccia una relazione con la cugina Adele, ma poi passa a una sua amica, Velleda, meno ingenua, più mondana e raffinata. Velleda però sposa un ricco e brutto principe. Alberto, coperto di debiti e stanco delle avventure erotiche, si decide a sposare Adele ma finisce per riallacciare la relazione con Velleda. La riconciliazione tra Adele e Alberto avviene solo quando Adele è in fin di vita. Dopo la sua morte, Alberto chiude la sua vita fallimentare con un colpo di pistola.
TIGRE REALE. (1875). Romanzo che mette in scena il conflitto tra l'ideale domestico della purezza dei sentimenti e la sregolatezza dell'attrazione sensuale. Il giovane possidente siciliano Giorgio La Ferlita si innamora a Firenze di Nata, personaggio che possiede tutte le caratteristiche della donna perduta della letteratura: è affasci­nante, aristocratica, russa e malata di tubercolosi. Partita Nata, Giorgio torna ad Acireale e sposa Erminia. L'improvviso ritorno di Nata sconvolge la tranquilla vita familiare. Giorgio viene di nuovo irretito dall'amante, ma Erminia lo aspetta paziente, respingendo le profferte d'amore del cugino Carlo. Gli affetti semplici e puri hanno la meglio: nel finale del romanzo Giorgio ed Erminia vedono il carro funebre che riporta in Russia il cadavere di Nata.

IL TEMA DELLA CAMPAGNA SICILIANA
La novella Nedda (1874) adopera un elemento che sarà poi caratteristico dell'arte verista: il mondo dei contadini siciliani.
la trama. Nedda è una raccoglitrice di olive che lavora a giornata. Dopo la morte della madre si innamora di Janu, ammalato di malaria. Janu cade da un albero e muore. Nedda, incinta, non trova più lavoro. Viene abbandonata da tutti e il suo bambino muore di fame.
gusto tardo romantico. Gli schemi narrativi di Nedda sono quelli tradizionali della narrativa "sociale" (con la presenza di un narratore che "guarda dall'alto" ciò che avviene, e commenta con tono patetico le sofferenze della protagonista). Tutto sommato la distanza della desolata campagna siciliana dal mondo dei lettori settentrionali rendeva la novella non troppo distante dalle suggestioni esotiche dei romanzi di gusto tardo romantico. Infatti la successiva raccolta Primavera e altri racconti (1876) ritorna ai temi dell'amore e dell 'avventura in ambienti mondani.

VITA DEI CAMPI (1980)
Raccolta di otto novelle (Fantasticheria, Cavalleria rusticana, Jeli il pastore, La pentolaccia, La lupa, L'amante di Gramigna) che in gran parte realizzano, anticipando temi e metodi narrativi dei Malavoglia, alcune esigenze del verismo.
la narrazione impersonale. La poetica del verismo non prevedeva semplicemente l'ambientazione nel mondo contadino. La sua caratteristica principale consisteva nella narrazione impersonale, senza l'intervento di un narratore «che sa tutto» (come in I promessi sposi): a parlare è direttamente il mondo che viene rappresentato, con tutti i suoi pregiudizi, la sua cultura rigida, l'impietosa cura dei propri interessi.

L’Esempio di Rosso Malpelo. A parlare è il “paese”, e non l’autore, nella presentazione del personaggio di Rosso Malpelo: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzaccio malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone».
I “diversi”. In ogni novella emerge, rispetto alla compattezza di un gruppo che esprime i valori tradizionali e implacabili del mondo contadino, un personaggio che è “diverso”: asociale, emarginato, amorale o “puro” (come Jeli il pastore), in un modo o nell' altro vittima della chiusura e dell' ipocrisia dell' ambiente a cui tuttavia appartiene (anche il senso della famiglia, dell'onore, dell'onestà dei Malavoglia sarà contrapposto alla brutale logica dell'interesse economico, che è l'unica vincente ad Aci Trezza: «Volete che ve lo dica? saltò su la Vespa; la vera disgrazia è toccata allo zio Crocifisso che ha dato i lupini a credenza»).

“Fantasticheria” non è una novella ma una specie di lunga lettera in cui l'autore si rivolge a una signora con la quale ha trascorso alcuni giorni ad Aci Trezza, riflettendo sulla vita e sui valori di questo villaggio di pescatori, paragonati a quelli del mondo borghese e cittadino. Cavallerìa rusticana (da cui venne tratto un testo teatrale di successo e una ancora più fortunata opera lirica) racconta la storia dell'amore di Lola per Turiddo che viene infine ucciso da Alfio, il marito di Lola. La Lupa (pure adattata in seguito per il teatro) è la storia di una donna che finisce uccisa dal genero, oggetto dei suoi desideri. Jeli il pastore è la storia di un pastore che scopre gradualmente le differenze di classe e infine uccide il padrone, nell’infanzia suo compagno di giochi, che ora gli ruba la moglia. Rosso Malpelo, uno dei capolavori di Verga, è la storia di un emarginato che finisce travolto in una cava di sabbia, come già era accaduto a suo padre

MALAVOGLIA (1881)

Romanzo ambientato in Sicilia tra il 1864 e il 1877. Primo del ciclo dei Vinti, racconta la storia di una famiglia di pescatori rovinati dal tentativo di migliorare la propria condizione con l’investimento in un carico di lupini, e infine riscattati dal loro costante riferimento ai valori della famiglia, dell’onestà, del lavoro (sottolineati anche dalla mancata adesione ad essi di ‘Ntoni, il giovane che si ribella al suo destino non capovolgendolo attivamente attivamente come fa suo fratello Alessi, ma rimanendone vittima).

LA TRAMA. Ad Aci Trezza, vicino Catania, vivono nella «casa del nespolo» i Toscano (detti dai compaesani Malavoglia), pescatori e proprietari di una barca a vela, la Provvidenza. Il nonno, padron 'Ntoni, compra a credito dallo zio Crocifisso un carico di lupini per rivenderli; ma la Provvidenza viene sorpresa dalla tempesta e affonda con il carico. Nel naufragio perde la vita Bastianazzo, il figlio di padron ' Ntoni, che lascia la moglie Maruzza e cinque figl i: ' Ntoni, Luca, Mena, Alessi, Lia.
la perdita di status. I Malavoglia, gravati ora di un pesante debito con lo zio Crocifisso, sono anche declassati socialmente a causa della perdita della barca, e iniziano a diventare oggetto di maldicenze e pettegolezzi. Padron 'Ntoni e il giovane 'Ntoni lavorano a giornata nella barca di padron Fortunato Cipolla. Ma con la partenza di Luca per il servizio militare viene a mancare un valido aiuto.
ASCESA E DISCESA. Gradualmente le cose sembrano aggiustarsi: la Provvidenza viene rimessa in mare, padron 'Ntoni riesce a combinare un buon matrimonio per Mena (che è amata silenziosa­mente dal carrettiere Alfio Mosca) e a pagare una parte del debito a zio Crocifisso. Ma la Provvidenza affonda di nuovo, Luca muore nella battaglia di Lissa, lo zio Crocifisso espropria la casa del nespolo, il matrimonio di Mena va a monte, Maruzza muore nell 'epidemia di colera.
la degradazione di 'ntoni. 'Ntoni va via dal paese per cercare fortuna ma ritorna dopo poco, sconfitto e «senza scampo»; inizia a frequentare poco di buono e contrabbandieri. Padron 'Ntoni, Alessi e Mena lavorano senza tregua con l'obiettivo di riscattare la casa del nespolo. Lia non disdegna le attenzioni di Michele, brigadiere della guardia di finanza.
la perdita di lia. Durante un'operazione di contrabbando, 'Ntoni accoltella Michele. Al processo l'avvocato difensore sostiene, sfruttando i pettegolezzi del paese, che lo abbia fatto per proteggere l'onore di Lia, sedotta da Michele. Padron 'Ntoni a sentire questo in tribunale ha un ictus. Lia esce di casa e non vi fa più ritorno.
il riscatto. Con 'Ntoni in carcere e il nonno ormai inabile, Alessi continua a lavorare incessantemente; Mena accudisce il nonno che infine va in un ospizio e muore lontano dai suoi cari e dalla casa del nespolo. Alla fine Alessi riesce a riscattare la casa e ritorna ad abitarvi con moglie e con Mena, che continua a negarsi all'amore di Alfio e non perché non gli voglia bene.
la consapevolezza di 'ntoni. Quando, dopo cinque anni di carcere, 'Ntoni ritorna nella casa che grazie al lavoro e alla fedeltà agli antichi valori è ritornata il luogo degli affetti e delle memorie! capisce che non può restarvi e riparte: da quel mondo dal quale si è escluso da solo.

LA STORIA DI UN DECLASSAMENTO SOCIALE: Tra i malavoglia e la gente del paese c’è una contrapposizione non solo morale (l’onore, l’onestà, la lealtà contrapposti all’ipocrisia e all’avidità) ma anche sociale. I Malavoglia sono „padroni“ perché possiedono una barca e una casa: sfidano la rigidità die ranghi sociali tentando di migliorare la propria condizione ( e di superare la crisi: dopo l'Unità i piccoli pescatori siciliani si trovarono ad affrontare la concorrenza dei grandi pescherec­ci del Nord) con il tentativo di una speculazione commerciale e perdono la barca e la casa. Subiscono così un declassamento sociale in seguito al quale vengono isolati.
E impossibile mutare STATO DI CLASSE. L’impossibilità di cambiare stato sociale («bisogna vivere come siamo nati» è ricorrente nella narrativa del Verga (è anche uno dei temi principali di Mastro-don Gesualdo), così come la teoria che l'unica spinta all'azione umana sia l'egoismo individuale («Tu bada ai fatti tuoi, che tutti costoro gridano ognuno pel suo interesse, e l'affare più grosso per noi è quello del debito» dice il nonno a 'Ntoni che vorrebbe andare in piazza in occasione della rivolta per la tassa sulla pece). Questi presupposti negano evidentemente la speranza in un assetto sociale meno ingiusto.
la tecnica narrativa. Nei Malavoglia Verga tenta di raggiungere l'obiettivo
dell'"assenza dell 'autore" (descritto nella Prefazione al romanzo con una tecnica complicata:
1 ) c'è un "narratore" che però non è il "narratore che sa tutto" dei Promessi sposi, ma appartiene allo stesso livello sociale e culturale - subalterno e provinciale – dei personaggi che agiscono nella vicenda (questo è stato definito artifìcio della regressione).
II "narratore", ipocrita e ignorante (come il paese a cui da la voce), capovolge il senso delle cose che racconta (questo è stato chiamato l'artificio dello straniamento). Per esempio, quando Alessi e Mena, per affetto, non vogliono che il nonno finisca ali 'ospedale: «tutto il vicinato sparlava di loro, che volevano fare i superbi senza aver pane da mangiare. Si vergognavano di mandare il nonno all'ospedale». L'autore non interviene direttamente a difendere i suoi perso­ naggi: il suo dissenso viene espresso non con commenti ma con una specie di sarcasmo ironico consentito proprio dal rovesciamento della logica normale. Prevale, rispetto al racconto del narratore, il discorso diretto (i dialoghi tra i
personaggi).
Viene molto usato anche lo stile indiretto libero (una tecnica frequente nella narrativa realistica dell'Ottocento), in cui il narratore "cede la parola" diretta­mente all'uno o all'altro personaggio, cambiando così il punto di vista della
narrazione. Il discorso diretto libero usato da Verga si differenzia però da quello tradizionale perché non riporta parole certamente pronunciate o pensate, ma parole che potrebbero essere state pronunciate o pensate: è sempre il narratore a raccontare, ma riproducendo il modo in cui il personaggio pensa e si esprime.

NOVELLE RUSTICANE (1883)
Raccolta di 12 novelle. Come già tra le novelle di Vita dei campi e il romanzo I Malavoglia, anche tra le Novelle rusticane e il romanzo Mastro-don Gesualdo vi sono legami sia tematici che stilistici: alcune (Malaria, Vagabondaggio, La roba, Il reverendo) sono il primo abbozzo di episodi o di interi capitoli del
Mastro-don Gesualdo. Il tema principale è infatti quello della «roba», del successo economico a cui viene subordinato ogni altro valore o comportamento.
Pane nero è la storia di una ragazza che diventa l'amante del padrone spinta dal benessere che ne ricava per sé e per la sua famiglia. // reverendo racconta la storia di un prete che ha sfruttato il suo ministero per ammassare ricchezze. Gli orfani descrive le difficoltà e gli stenti di una famiglia di braccianti. Storia dell'asino di S. Giuseppe racconta di un povero asino che passa da un padrone all'altro (emarginato per il colore del suo pelo come Rosso Malpelo). Malaria descrive la campagna della piana di Catania e la misera gente che vi lavora. La roba è la storia di Mazzarò, un povero bracciante che a prezzo di sacrifici e umiliazioni è riuscito ad arricchirsi e che di fronte alla morte è angosciato per la separazione dalla sua «roba». Libertà è la storia della rivolta dei contadini di Brente per la spartizione delle terre al tempo dell'impresa di Garibaldi, del fallimento delle loro speranze e della repressione.

ALTRE RACCOLTE DI NOVELLE
Le novelle di Per le vie (1883) sono ambientate a Milano, di cui rappresentano una plebe misera, priva di ideali che non siano i miti borghesi del denaro e del benessere a qualsiasi prezzo: furto, prostituzione, servilismo. Drammi intimi (1884) raccoglie 6 novelle, alcune di ambiente popolare, altre di ambiente borghese. Anche Vagabondaggio (1887) raccoglie novelle che riprendono temi già trattati e he in parte confluiranno nel Mastro-don Gesualdo. Le ultime raccolte pubblicate furono I ricordi del capitano d'Arce (1891 ) e Don Candelora e C.i. (1893). Nella prima raccolta le novelle sono ambientate nel mondo alto borghese e aristocratico e si propongono di rappresentare, come scrisse lo stesso Verga, «quella specie di maschera e di sordina che la educazione impone alla manifestazione degli stessi sentiménti». In Don Candeloro e C.i. le novelle descrivono la vita avventurosa e vagabonda di un gruppo di attori miserabili capeggiati dal puparo don Candelore, che recitano le storie dei paladini per i «contadinacci ignoranti e avari». Il tema è ancora quello della "maschera", della finzione della vita (poi ripreso da Pirandello), lo stile è amaro e grottesco.

MASTRO-DON GESUALDO (pubblicato a puntate sulla "Nuova Antologia" nel 1888 e in volume, rielaborato, nel 1889).
Romanzo ambientato in Sicilia tra 1820 e il 1848 circa, che racconta il tentativo di Gesualdo Motta, un muratore ("mastro") che si è arricchito diventando proprietario terriero ("don"), di superare le barriere di classe.
la trama. Gesualdo Motta, allo scopo di consolidare la sua ascesa sociale e di inserirsi tra la nobiltà paesana, accetta di sposare la giovane aristocratica Bianca Trao, ultima discendente di una casata caduta in miseria. Bianca, sottomessa e fredda, da alla luce Isabella, frutto di una precedente relazione, che crescerà chiusa e ostile a Gesualdo. 1 veri figli di Gesualdo, nati da Diodata, la contadina abbandonata per sposare Bianca, portano il nome di Nanni l'Orbo che Gesualdo le ha fatto sposare. Gesualdo deve sopportare l'ostilità dei notabili del paese, i ricatti di Nanni l'Orbo, l'avidità dei parenti, il matrimonio di Isabella con un duca spiantato che, dopo averla compromessa, ottiene una ricca dote e dilapida le ricchezze che lui ha accumulato con tanta fatica («Chi avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimè, povera roba! Chi sapeva quel che era costata?»). Dopo la morte di Bianca, anche Gesualdo si ammala. Morirà solo, relegato in un mezzanino del palazzo di Palermo dove vivono la figlia e il genero, lontano dalla sua campagna, circondato dalla indifferente derisione dei servitori.
il profitto si paga con la solitudine. Il romanzo segue l'ascesa e la decadenza del protagonista (uno schema tipico del romanzo ottocentesco che avvicina Gesualdo ai personaggi di Balzac). Descrive il conflitto tra due mondi, uno ormai in declino, retto dall'etica feudale della raffinatezza e del lusso, uno in piena ascesa, retto dall'etica borghese del lavoro. Ma la logica utilitaristica del profitto si paga con la solitudine, come Gesualdo comprende solo di fronte alla morte: il suo tentativo di affermazione sociale ha come prezzo il fall imento degli affetti privati.
anche gesualdo È un "puro". Gesualdo si è adattato alla implacabile legge dell'utile economico, che lo fa apparire gretto e spieiato; ma possiede ancora, sia pure sotto forma di nostalgia, l'aspirazione ai valori puri dell'affetto e dei vincoli familiari. Ama Diodata, vive un difficile rapporto con il padre, si tormenta per la fragilità e la lontananza della moglie e della figlia, pensa con rimorso ai figli di Diodata che non ha riconosciuto. La sua solitudine è quella comune a tutti gli uomini, allontanati per bisogno e per avidità dall'autenticità dei sentimenti.
le rivolte sono inutili. Il romanzo, la cui vicenda attraversa i moti del 1820-1821 e quelli del 1848, non contraddice l'ideologia già espressa da Verga nelle novelle e nei Malavoglia: il cambiamento non è possibile, tantomeno attraverso
la violenza dell ' agitazione popolare; il "popolo" non è portatore di valori positivi che si contrappongano all'egoismo e alla corruzione, ma è una massa famelica e invidiosa senza ideali e senza altre aspirazioni che appropriarsi della roba dei
ricchi.
tecnica narrativa. La tecnica narrativa di questo romanzo è diversa da quella dei Malavoglia. Il punto di vista dominante è quello di un "narratore" che coincide con l'"autore"; a questa voce si alterna di tanto in tanto quella del "narratore popolare", la voce del paese, come nei Malavoglia. Alla "oggettività" viene spesso sostituita la descrizione deformante, che rende grotteschi i perso­naggi e le cose rivelando la loro meschinità (è una tecnica "espressionistica").

I TESTI TEATRALI
Verga scrisse diversi testi teatrali. Il primo ad andare in scena, interpretato da Eleonora Duse, fu nel 1884 Cavalleria rusticana, tratto dall'omonima novella di Vita dei campi. Molto meno successo ottenne nel 1885 In portineria, commedia in due atti tratta da una novella di Per le vie. Dall'omonima novella di Vita dei campi era trattaLa lupa ( 1896). Dal tuo al mio andò in scena a Milano nel 1903 senza ottenere successo e nel 1906 Verga ne trasse un omonimo romanzo poco riuscito.
In Dal tuo al mio la zolfara del barone Navarra cade nelle mani di Nunzio Rametta. Nina, figlia del barone, accetta di sposare il figlio di Rametta per salvare il padre. Sua sorella Lisa sposa un sindacalista, Luciano, che una volta passato dall'altra parte della barricata non esita a difendere il suocero dagli attacchi dei suoi ex compagni di lavoro.

ALTRI VERISTI

IL NATURALISMO. La diffusione in Europa, intorno alla metà dell’ottocento, di letetratura e arte di tipo realistico suscitò dibattiti e discussioni sulla rappresenta­zione della realtà. Emile Zola usò il termine naturalismo (derivato dalle scienze naturali e dalla storia dell'arte) nella prefazione alla seconda edizione del suo romanzo Thérèse Raquin (1867) e nel 1880 pubblicò il saggio // romanzo sperimentale, in cui definiva un metodo narrativo "naturalistico", ispirato ai metodi della scienza positivistica: la narrazione si sviluppa a partire da condizioni storiche, sociali, psicologiche che determinano il destino di persone e gruppi sociali. Zola e gli altri naturalisti francesi, a differenza dei veristi italiani e in particolare di Verga, era progressista: per lui la conoscenza della realtà sociale era uno strumento per migliorarla.
la ricerca in italia. In Italia già negli anni sessanta s’iniziò a usare il termine verismo e nel corso poi anche degli anni Settanta si susseguirono i tentativi di definire le caratteristiche di una letteratura che aveva i suoi precedenti in quella "sociale", "campagnola", nelle opere di Nievo e di Dall'Ongaro, ma anche di Carducci e degli scapigliati.
I macchiagli. La ricerca aveva un parallelo nelle arti figurative, e i risultati più notevoli furono raggiunti in Toscana dai macchiaioli, gruppo di pittori dalla vita simile a quella degli scapigliati, che esposero per la prima volta a Firenze nel 1861
tele che rappresentavano paesaggi resi con forti chiaroscuri e con i colori dati "a macchia", in polemica con l'accademismo della pittura storica romantica.
la particolarità del verismo. Il metodo verista venne elaborato con la maggiore coerenza e i migliori risultati da alcuni scrittori siciliani: Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto. Il verismo italiano riprendeva i principi naturalistici dell''impersonalità e della ricerca "scientifica" del documento naturale e sociale, ma aveva una caratteristica specifica: l'interesse per la vita delle popolazioni contadine nelle diverse realtà regionali.

IMPERSONALITA' E CONCRETEZZA. Le premesse della poetica del verismo le pose Luigi Capuana recensendo sul "Corriere della sera" nel 1877 L’assomoir (L'ammazzatoio) di Zola. Le sue caratteristiche principali (l'opera d'arte non deve portare traccia dell'autore, deve sembrare essersi «fatta da sé» e la più assoluta concretezza; Il “Verga”, scriveva Capuana in Per l'arte (1885), “quando gli vien l'idea di foggiare in forma artistica i suoi contadini, non si limita soltanto a raccogliere delle generalità, ma circoscrive il suo terreno. Non gli basta che quei personaggi siano italiani -il contadino italiano è un' astrattezza- egli va più in là, vuole che siano siciliani: molto di più e di più concreto. [...] Ha bisogno che siano proprio d'una provincia, d'una città, d'un pezzettino di terra largo quanto la palma della sua mano. Allora soltanto si ferma”.

LUIGI CAPUANA( 1839-1915)
Nato in provincia di Catania, visse tra i 25 ai 29 anni a Firenze, dove diventò critico teatrale della "Nazione" e iniziò la sua lunga amicizia con Verga e la sua attività di narratore. Visse poi tra Roma, Milano e il suo paese natale, Mineo. Nel 1890 ottenne la cattedra di Letteratura italiana presso il Magistero di Roma (più tardi vi avrebbe insegnato Pirandello, che proprio da Capuana sarebbe stato spinto a dedicarsi alla narrativa) e nel 1902 la cattedra di Lessicografia e stilistica all'Università di Catania.
le idee sulla letteratura. Le sue idee sulla letteratura (che si possono leggere in Studi sulla letteratura contemporanea, 1880 e 1882, in Per l'arte, 1885, in Gli "ismi" contemporanei, 1898) erano basate sul principio che esistesse uno stretto rapporto tra arte e scienza e che l'attività dello scrittore fosse affine a quello dello scienziato. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta si impegnò nel dibattito sulla poetica del verismo.
la sua attività. Lavorò come critico e giornalista; preparò studi sul folclore siciliano; si occupò di poesia popolare, fotografia, pittura, scienze naturali, scienze occulte; scrisse circa 300 novelle pubblicate in numerose raccolte, molti testi teatrali anche dialettali, un libro di fiabe (C'era una volta, \ 882), 3 romanzi: Giacinta ( 1879), Profumo ( 1890), // marchese diRoccaverdina ( 1901 ), il suo capolavoro, al quale lavorò per 20 anni, che mostra gli influssi del romanzo russo contemporaneo (Dostoevskij).
giacinta. Giacinta, la sua prima opera impegnativa, è la storia di una donna che trascina per tutta la vita il trauma di una violenza sessuale subita da bambina (l'indagine naturalista è dunque dedicata all'analisi di una psicologia particolare). Sposata a un vecchio conte, ha una relazione con un uomo da cui ha una figlia che muore; quando lui, stanco della relazione, vuole lasciarla, lei si uccide.
il marchESE di roccaverdina. // marchese di Roccaverdina è la storia del rimorso inconsolabile di un proprietario terriero che vive solo nel suo palazzotto tenendo con sé con Agrippina Solmo, una contadina che gli ha dedicato tutta la sua giovinezza e che lui dopo dieci anni fa sposare a un suo fattore, ma col patto che non consumino il matrimonio. Poi però uccide l'uomo per gelosia, e del delitto viene incolpato un innocente.

FEDERICO DE ROBERTO (1861-1927)
Napoletano di nascita ma trasferito giovanissimo a Catania dove visse quasi tutta la vita, iniziò a vent'anni l'attività giornalistica grazie alla quale conobbe Verga e Capuana. Come narratore esordì nel 1887 con la prima delle sue raccolte di novelle, La sorte. Con L'illusione (1891 ) iniziò il ciclodi tre romanzi dedicati alla famiglia Uzeda(il secondo,/ Viceré, 1891, è il suo capolavoro; l'ultimo è L'impero, 1929).
l'illusione. In L'illusione vengono seguite le vicende di amore e delusione di Teresa Uzeda di Francalanza, che giunge infine a una desolata visione del mondo, dominato dalla finzione. Delle vicende della famiglia Uzeda tra il 1855 e il 1862, durante il passaggio dalla dominazione borbonica allo stato unitario, racconta / Viceré. Questo romanzo riunisce due tipi di esperienze sperimentate nella narrativa di De Roberto: quella del racconto psicologico e quella del racconto naturalistico-veristico.
la trama. I vari componenti del casato degli Uzeda (antichi viceré di Sicilia sotto la dominazione spagnola), personaggi cinici, avidi, corrotti, sono in contrasto per ragioni di interesse. Alle lotte tra loro si intrecciano gli sforzi che fanno per superare le trasformazioni politiche conservando gli antichi privilegi. Don Blasco approfitta della soppressione dei conventi per comprare le terre degli ordini religiosi; don Gaspare, fingendo di essere liberale, riesce a farsi eleggere deputato; Consalvo, l'ultimo degli Uzeda, viene eletto a sua volta grazie agli intrighi dei faccendieri con cui si è mescolato: «Quando e'erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento [...] Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo [...] Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole». Il romanzo è una delle testimonianze della delusione degli ideali del Risorgimento.

domenica 9 febbraio 2014

Gabriele D'Annunzio: Consolazione. Dal "Poema Paradisiaco"





Gabriele d’Annunzio
Consolazione. Dal “Poema Paradisiaco”.

Il Poema Paradisiaco (i “Poema dei giardini”, dal greco antico) fu pubblicato da D’Annunzio nel 1893. La raccolta si suddivide in tre sezioni: L’Hortus conclusus, (Il giardino chiuso), L’Hortus larvarum (Il giardino delle larve) e L’Hortus animae (Il giardino dell’anima). I temi ispiratori sono tutti riconducibili a quegli aspetti tenui ed estenuati del decadentismo europeo che ebbe in Verlaine e Maeterlink i maestri più roconosciuti.
La poesia “Consolazione” fu composta l’8 gennaio 1891, in occasione di un ritorno di D’Annunzio nella casa natale.
Struttura metrica: quartine di endecasillabi rimati ABBA.


CONSOLAZIONE

Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancóra per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.

Ancóra qualche rosa è ne' rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l'abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.

Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l'oblìo afflisse.
Che proveresti tu se ti fiorisse
la terra sotto i piedi, all'improvviso?

Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
sol di settembre, e ancor non vedo argento
su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.

Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po' di sole,
un po' di sole su quel viso bianco.

Bisogna che tu sia forte; bisogna
che tu non pensi a le cattive cose...
Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l'anima tua sogna.

Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.

Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
Io parlo. Di': l'anima tua m'intende?
Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende
quasi il fantasma d'un april defunto.

Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)
ha ne l'odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l'odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.

Sogniamo, poi ch'è tempo di sognare.
Sorridiamo. E la nostra primavera,
questa. A casa, più tardi, verso sera,
vo' riaprire il cembalo e sonare.

Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancóra manca. E l'ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l'ava.

Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po' passate,

sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suon sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell'altra stanza.

Poi per te sola io vo' comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.

Tutto sarà come al tempo lontano.
L'anima sarà semplice com'era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l'acqua al cavo de la mano.


Questa lirica, tratta dal Poema paradisiaco, esprime un momento particolare della sensibilità dannunziana: il momento della stanchezza, della sazietà, seguito al momento sensuale ed estetizzante del primo periodo dell’attività letteraria del poeta, culminato nel Piacere. Egli desidera ora ritornare al fianco della madre, per rivivere l’innocenza perduta dell’infanzia.
Il titolo “Consolazione” indica l’intenzione del poeta di consolare la madre, che è vissuta in solitudine, preoccupata della vita dissipata del figlio lontano.

La lirica comincia con l’esortazione alla madre di non piangere più e di uscire a pas­seggiare nel giardino abbandonato, per rievocare insieme le cose passate.
Sebbene sia settembre, la terra è ancora coperta di fiori e l’aria è mite.
La madre esita ad accettare l’invito, ma il poeta insiste: prenda un po’ di sole e non pensi alle cose cattive che le hanno detto del figlio. Ella tornerà a sognare accanto a lui, ed egli vicino a lei si sentirà purificato, come se prendesse dalle sue mani la lieve ostia dell’Euca­restia, che monda, libera dalle colpe chi la riceve.
Intanto nell’aria si diffonde un profumo che sembra il fantasma d’un april defunto, e per tale motivo la stessa aria di settembre sembra avere quasi l’odore ed il pallore di una pri­mavera dissepolta (il profumo della primavera è simbolo della fanciullezza innocente che è rifiorita nella mente del poeta).
Verso sera egli prenderà il cembalo e, mentre nella stanza vagherà qualche odore deli­cato, come di viole un po’ passate, suonerà una vecchia e triste ariadi danza; poi, per la madre sola, comporrà un canto che la raccolga in sé come in una culla.
Allora si compirà un miracolo: tutto sarà come prima; al poeta l’anima ritornerà ad essere semplice, come nella fanciullezza, e andrà leggera nella sua ritrovata innocenza dalla madre, con la stessa naturalezza con cui l’acqua viene al cavo de la mano.

La lirica esprime, dunque, la volontà del poeta di mutar vita, di abbandonare le esperienze raffinate e gaudenti della vita mondana e di ritornare alla semplicità e all’innocenza della fanciullezza. Ma il temperamento sensuale del D’Annunzio rende velleitario, troppo ostentato e artificioso il mutamento. Così esso si mantiene nell’ambito delle sensazioni e non si risolve in un effettivo rinnovamento morale.
In altri termini, D’Annunzio vuole ora “provare” ad essere buono e santo, per poi passare ad altre sensazioni. E così egli programmerà altri atteggiamenti, quello del superuomo, dell’eroe, del poeta Vate, come prima aveva assunto le vesti del­l’esteta, per realizzare il mito del “vivere inimitabile“.
La struttura di questa lirica, a volte fin troppo studiata nel suo psicologismo, è fitta di ripetizioni, di pause, di cadenze sparse che tendono ad esprimere il senso di stanchezza, di estenuazione e di languore, accresciuto da certe espressioni dolciastre, dopo l’esperienza dio­nisiaca del periodo sensuale ed estetizzante.
La condizione psicologica della sazietà, del languore e della stanchezza, e il bisogno di rivivere la purezza e l’innocenza della fanciullezza, non è originale del D’Annunzio: egli la derivò, come tanti altri motivi, da un filone del Decadentismo francese. E a questa condizione psicologica del Poema paradisiaco s’ispireranno in seguito, i poeti crepuscolari.


Tesina. Gabriele D’Annunzio. Vita con commento dei romanzi




TESINA
Gabriele D’Annunzio
Vita con commento dei romanzi

Gabriele D'Annunzio divenne un personaggio di primo piano nella nostra storia nazionale per la sua azione favorevole all’intervento italiano nella prima guerra mondiale: Il celebre discorso La sagra dei mille, pronunciato sullo scoglio di Quarto il 5 maggio 1915, fu come una scintilla che percorse tutta l’Italia ed infiammò i giovani alla lotta. Quando l’Italia entrò in guerra, D’Annunzio aveva 52 anni, ma partecipò alla lotta prima fra i Lancieri di Novara, poi in marina e quindi in aviazione. Compì molte imprese eccezionali, dalla beffa di Buccari al volo su Vienna. Alla fine della guerra non fu soddisfatto della cessione di Fiume alla Jugoslavia e perciò occupò la città dalmata costituendovi un governo.
D’Annunzio, il geniale D’Annunzio, D’Annunzio che tutto faceva invece di sognarlo, fu idolatrato dalla borghesia che sognava di imitarlo ma o non era capace o non poteva (gli affari, gli interessi, la famiglia, la mamma, il perbenismo). Fautore di un progetto aristocratico sia per la vita che per l’arte, D’Annunzio disprezzò le masse e coprì di parole di spregio e di derisione la borghesia bottegaia. Nondimeno era adorato.
Nell’Italia umbertina e giolittiana del buon senso il dannunzianesimo eccitava morbosamente la fantasia di quanti non avevano la forza morale (o dovrei dire immorale?), l’intelligenza e la vitalità per diventare essi stessi Gabrielid’annunzio.

LA VITA

Nasce a Pescara il 12 marzo 1863. Nel 1874 viene iscritto al collegio Cicognini di Prato, dove resta sino al completamento degli studi liceali nel 1881; nel 1879 pubblica una raccolta di versi, Primo vere, che esce in seconda edizione l'anno seguente.

1881-1891: periodo romano

Trasferitosi a Roma nel 1881, alla conclusione degli studi liceali, pubblicò dei racconti di cornice verista, Le novelle della Pescara , ambientate in un Abruzzo primitivo e prorompente di umori sensuali, che danno inizio a un periodo detto appunto il periodo romano, denso di interessi mondani e culturali. Tutto proteso alla conquista della notorietà e della gloria, frequentò i salotti più raffinati ed ebbe amori tanto travolgenti quanto effimeri; tentò l’avventura politica, ottenendo l’elezione al Parlamento e scrisse moltissimo sia in prosa che in poesia.
Pubblica le raccolte poetiche Canto novo (1882) e Intermezzo (1883). Lo “scandalo” della sua relazione con la duchessina Maria Hardouin di Gallese si conclude con il matrimonio. Nel 1889 pubblica Il piacere, la testimonianza più cospicua dell’estetismo italiano.

1891–94: periodo napoletano

La relazione con Barbara Leoni, iniziata all'incirca nel 1886, sta già per finire agli inizi degli anni Novanta: non se ne avvantaggia comunque il rapporto coniugale da cui sono nati tre figli. Si trasferisce a Napoli: collabora al "Corriere di Napoli" diretto da E. Scarfoglio e M. Serao; inizia una relazione con Maria Anguissola, principessa Gravina, da cui ha due figli, che finisce nel 1897 quando inizia la frequentazione con Eleonora Duse.
Pubblica:
il romanzo L'innocente (1892)
la raccolta di liriche Elegie romane (1892)
le liriche del Poema paradisiaco (1893, il titolo della raccolta fu “imposto” a D'Annunzio dall'editore; il poeta, in quel momento in urto con il pubblico voleva titolarla: Margaritae ante porcos, Perle ai porci, dove è chiaro chi fossero i “porci” e cosa le “perle”)
il romanzo Trionfo della morte (1894).
Nell'estate del 1895 compie un viaggio in Grecia e nel 1897 partecipa alle elezioni riuscendo eletto deputato, con un programma "al di là della destra e della sinistra", che sostanzialmente è di chiara impostazione nazionalistica.

1898–1910: periodo de “La Capponcina”

Negli ultimi anni del secolo D’Annunzio si stabilì a Settignano in Toscana, nella villa della Capponcina, dove condusse una vita talmente dispendiosa che, caricatosi di debiti nonostante i cospicui guadagni ottenuti con le sue opere, nel 1909 fu costretto a fuggire in Francia, in “volontario esilio”, come egli disse con sconfinata impudenza. “La Capponcina”, che ha lussuosamente arredato, è poco lontana dalla villa della Duse, la quale nel 1899 è interpreta l'opera teatrale La Gioconda che ottiene notevole successo.
Nel 1900 il suo romanzo Il fuoco fa scandalo per le rivelazioni sugli amori con la Duse.
Produce varie opere teatrali: La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio, La nave e coltiva anche altre relazioni amorose..

1910–15: periodo francese

Vive, lussuosamente, a Parigi, circondato da ammiratori e da amanti. Dalla Francia seguiva attentamente le vicende italiane. Allo scoppio della guerra di Libia scrisse le Canzoni delle gesta d’oltremare che inneggiavano alle mire espansionistiche italiane.
Scrisse, in francese: Le martyre de Saint Sébastien, e la Pisanelle.

1915-1920: gli anni della guerra

Nel 1915 ritorna in Italia e partecipa attivamente alla propaganda interventista col discorso a Quarto per la Sagra dei Mille. Durante la guerra, alla quale partecipò come volontario, ottenne varie medaglie d’oro e d’argento per le sue imprese spericolate. In seguito a un incidente occorsogli durante un atterraggio di fortuna, perse un occhio. Costretto all’immobilità per un certo periodo, scrisse il NOTTURNO, una serie di prose ritenute tra le cose di D’Annunzio più sincere e più intense.
Nel settembre, a capo di volontari e di forze regolari, occupa militarmente Fiume in opposizione al governo italiano: la abbandonerà di fronte all'intervento dell'esercito italiano nel dicembre del 1920.

1921–38: gli ultimi anni

Si stabilisce sul Lago di Garda, a Gardone Riviera, in una magnifica villa prospiciente il lago di Garda. Di qui salutò con grande favore l’avvento del fascismo ma Mussolini, mentre da una parte lo ricolmò di favori e di onori, dall’altra lo tenne alla larga dalla politica. D’Annunzio trascorse gli ultimi anni in un isolamento tanto splendido quanto intimamente vuoto. Nel 1937 viene nominato presidente dell'Accademia d'Italia; muore il 1° marzo 1938 per emorragia celebrale.
A quest’ultimo periodo risale il Libro segreto, che insieme al Notturno oggi gode di molta attenzione da parte dei critici.

Da Notturno o “Ccommentario delle tenebre”

Usciamo. Mastichiamo la nebbia.
La città è piena di fantasmi.
Gli uomini camminano senza rumore, fasciati di caligene.
I canali fumigano.
De i ponti non si vede se non l'orlo di pietra bianca per ciascun gradino.
Qualche canto d'ubriaco, qualche vocio, qualche schiamazzo.
I fanali azzurri nella fumea.
Il grido delle vedette aeree arrochhito dalla nebbia.
Una città di sogno, una città d'oltre mondo, una città bagnata dal Lete
o dall'Averno.
I fantasmi passano, sfiorano, si dileguano.
Non so se io abbia più sete d'acqua o più sete di musica o più sete di libertà.
Sento il sole dietro le imposte. Sento che c'è un'afa di marzo chiara e languida
sul canale. Sento che è bassa marea.
La primavera entra in me come un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, in una
sonnnolenza rotta di sussulti e di tremori.
Ascolto.
Lo sciacquio alla riva del battello che passa.
I colpi sordi dell'onda contro pietre grommose.
Le grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le loro risa stridenti,
le loro pause galleggianti.
Il battito di un motore marino.
Il chiocciolìo sciocco del merlo.
Il ronzio lugubre d'una mosca che si leva e si posa.
Il ticchettio del pendolo che lega tutti gli intervalli.
La gocciola che cade nella vasca da bagno.
Il gemito del remo nello scalmo.
Le voci umane nel traghetto.
Il rastrello su la ghiaia del giardino.
Il pianto d'un bimbo non racconsolato.
La voce di donna che parla e non s'intende.
Un'altra voce che dice: "A che ora? a che ora?"

Notturno è una raccolta di meditazioni e ricordi, in forma di prosa lirica, redatta nel 1916 durante il periodo di immobilità e di cecità. L’opera è caratterizzata da un momento di intimità e di ripiegamento su se stesso (dell'“Orbo veggente” come si definì)
Nella prima parte del libro predomina il ricordo dell’amico e compagno di armi Giuseppe Miraglia, morto ancora giovane nel dicembre del 1915, cui farà seguito il sentimento denso di commozione affettuosa per la madre inferma e stanca, che morì di lì a poco, nel gennaio del 1917.
Tra pagine di esaltazione eroica, in cui il poeta lamenta l’inganno che la morte gli ha teso, lasciandolo in vita al posto dei suoi più giovani compagni, tra quelle di dolente rimpianto per gli amici scomparsi, troviamo appuntate le sensazioni del poeta, le sue osservazioni sulla vita e sull’arte e preziosissime riflessioni.


OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE E “IL PIACERE”

Canto novo, raccolta di liriche pubblicata nel 1882. La natura è rappresentata nel suo tripudio di luci, colori, odori e con essa il giovane poeta stabilisce un “rapporto di tipo solare” proteso al godimento e alla fusione con essa.
Il piacere, il più noto dei romanzi di D'annunzio.
Ne è protagonista Andrea Sperelli. Raffinato e gelido; cultore solo di un bello aristocratico; spregiatore del grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare sommerge miseramente, Andrea Sperelli è l'ultimo rampollo di un'antica famiglia nobile e ne continua anche la tradizione: è un raffinato, predilige gli studi insoliti, è un esteta. Tutta la sua vita è improntata su questi criteri come pure la vita amorosa.
Il romanzo si apre nel giorno di S.Silvestro. Andrea Sperelli, il protagonista, attende, nel suo appartamento la visita di Elena Muti, la donna che è stata sua amante, ma che non vede da quasi un anno. L’arrivo di Elena è preceduto da una rievocazione dell’ultimo incontro fra i due e, come in un gioco di scatole cinesi, dal ricordo della loro storia d’amore che in quel giorno lontano Andrea aveva rievocato. L’incontro porta però ad una nuova separazione ed Elena, che ora è sposata, se ne va piangente, lasciando l’amante nella prostrazione più profonda.
I capitoli che seguono ripropongono in modo più dettagliato ed impersonale il primo incontro tra i due e la loro storia d’amore, terminata quando la donna (già vedova del duca di Scerni) aveva preferito sposare il ricchissimo Lord Heathfield, e la tumultuosa serie di avventure erotico-sentimentali alle quali Sperelli si era abbandonato dopo il loro addio. Il primo libro termina con la descrizione di un duello in cui Andrea è coinvolto a causa di un'altra donna e che termina con il suo ferimento.
Durante la convalescenza, in una sorta di purificazione e di rinascita spirituale, Andrea Sperelli scopre la profonda perfezione dell’arte e medita di "trovare una forma di Poema moderno", "una lirica veramente moderna nel contenuto ma vestita di tutte le antiche eleganze". E’ in questo momento di elevazione intellettuale e di distacco dalle passioni tumultuose che egli incontra Maria Ferres, moglie di un ministro guatemalteco, ed inizia fra i due un amore platonico, poi rievocato, attimo per attimo, nel diario di Maria che occupa un’ampia sezione del secondo libro e che termina con l’esplicito riconoscimento, da parte della donna, del suo amore per Andrea.
A questo punto si chiude la lunga parentesi retrospettiva e la narrazione riprende dal quel giorno di San Silvestro in cui Elena ed Andrea si rincontrano. Tutta la parte finale è costituita da una sorte di tormentato contrappunto tra l’amore sensuale per la Muti, che illude e tradisce Andrea tenendolo però avvinto a sé, e l’amore più puro e spirituale del protagonista per Maria. Sarà però la passione dei sensi a prevalere e, proprio quando Andrea sembra aver conquistato definitivamente il cuore della Ferres che gli si concede, egli pronuncerà, fra le braccia della sua nuova amante il nome di Elena.
Poema paradisiaco, raccolta di liriche composte dal 1891 e pubblicate nel 1893. Il titolo, derivato dal latino, equivale letteralmente a “poema dei giardini”. Si rileva qui la tematica decadente, ma segnata di rievocazione nostalgica, con aspirazioni epidermiche a una sorta di purezza e di spiritualizzazione delle passioni, che si traducono in un linguaggio e in una versificazione sapientissimi, accordati su toni dimessi, come di colloquio e di confessione.
L'Innocente, romanzo pubblicato nel 1892, che non tiene nascosti gli influssi della lettura del russo Dostoevskij. È una narrazione in prima persona ed è incentrato sulle vicende del "multanime" Tullio Hermil e della moglie Giuliana. A lei, malata, Tullio si dedica in modo particolare con una sorta di volontaristica pratica di "bontà", malgrado sia attratto e legato all'amante Teresa Raffo. Ma proprio quando si libera da questo legame, crede di scoprire gli indizi di una relazione della moglie con lo scrittore Filippo Arborio poi confermati dalla notizia che Giuliana è incinta. Nei due coniugi spunta un progetto delittuoso: sopprimere il nascituro, testimonianza di una fugace colpa, ostacolo alla realizzazione del loro "sublime" amore. È Tullio che, esponendo al freddo invernale il bambino, l'"innocente", compie il delitto.
Trionfo della morte, romanzo del 1894, terzo del "Ciclo della rosa". L'opera, articolata in sei "libri", ha una struttura narrativa debole. È incentrata sul rapporto contraddittorio e ambiguo di Giorgio Aurispa con l'amante Ippolita Sanzio e su questo tema di fondo si innestano o si sovrappongono altri motivi e argomenti. Giorgio, in una confusa contaminazione tra superomismo e velleità mistiche, aspira a realizzare una vita nuova, una perfezione di vita spirituale che si fondi sull'autodominio e sull'autosufficienza, e vive il rapporto con l'amante come limitazione, come ostacolo.


IL CICLO DEI ROMANZI

Sull'esempio dei romanzi ciclici dell'ottocento di Honorè de Balzac (La commedia umana), di Zola (i Rougon-Macquart), di Verga (I vinti), D'Annunzio si propose di scrivere un ciclo di romanzi, suddiviso in tre trilogie, ciascuna denominata da un fiore (la rosa, il giglio, il melograno), simbolo delle tappe evolutive del suo spirito dalla schiavitù delle passioni alla vittoria su di esse, giacchè i protagonisti dei romanzi non sono che la proiezione sul piano narrativo dello stesso D'Annunzio.
I romanzi della rosa, fiore simbolo della voluttà, della passione invincibile:
Il Piacere (1889) L'innocente (1892) Il trionfo della morte (1894)
I romanzi del giglio, fiore simbolo del superuomo, della passione che si purifica. La seconda trilogia doveva ispirarsi al superuomo di Nietzsche. Il superuomo non è più schiavo delle passioni ma si serve di esse per realizzare pienamente la propria volontà di potenza. In verità Nietzsche non auspicava l'avvento di un uomo superiore agli altri, al quale, in grazia delle qualità eccezionali, fosse tutto permesso, ma l'avvento di un'umanità rinnovata la quale, per poter sviluppare tutte le sue potenzialità, doveva liberarsi da ogni soggezione alla trascendenza e alla morale tradizionale, fatta di ipocrisie e finzioni. D'Annunzio ignorò o finse di ignorare il significato profondo del niccianesino e lo adottò al suo temperamento sensuale, facendo del superuomo l'individuo d'eccezione, destinato a dominare sugli altri. Nel superuomo nicciano, così come lo immaginò D'Annunzio, s'intravede piuttosto il profilo dei grandi dittatori sanguinari e deliranti del nostro secolo, col loro macabro seguito di tragedie e di guerre.
Della seconda trilogia, D'Annunzio scrisse solo il primo, Le vergini delle rocce (1896). Claudio Cantelmo, aristocratico e imperialista, seguace delle dottrine del superuomo, concepisce il disegno di unirsi in matrimonio con una delle principesse (Massimilla, Anatolia, Violante) di un'antica famiglia borbonica del regno delle due Sicilie, i Capece-Montaga, ridottasi a vivere nell'ultimo dei suoi feudi, Trigento, "paese di rocce". Scopo del matrimonio è procreare il futuro sovrano, al quale un giorno il popolo, disgustato della demagogia e dalla corruzione della vita politica, offrirà la corona regale.
I romanzi del melograno, pomo dai molti granelli, simbolo dei frutti che possono derivare dal dominio delle passioni. Dei tre romanzi previsti, D'Annunzio scrisse solo il primo, Il fuoco (1900).
Il fuoco (così intitolato perché inteso come simbolo della creatività dell'artefice), narra, sullo sfondo di Venezia, la storia dell'amore di Stelio Éffrena per la Foscarina. E' un romanzo scopertamente autobiografico, perché vi è adombrata la storia dell'amore del poeta per l'attrice Eleonora Duse.
Stelio è un poeta che sogna una nuova forma di arte drammatica, che risulti dall'intima fusione della parola, del colore, del suono, dell'azione. E' la stessa poetica di Wagner, che del romanzo è un personaggio. La Foscarina dovrebbe essere l'interprete di questo nuovo dramma; ma Stelio s'innamora della giovinetta Donatella Arvale. La Foscarina se ne accorge e ne è gelosa, ma dopo, rassegnata, cede il posto alla rivale e si accomiata da Stelio.

Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi
L'opera poetica più notevole e famosa. Doveva essere di cinque libri, quante sono le Pleiadi, invece è solo di quattro.
Il primo libro, “Maia”, è composto nel 1903 e il sottotitolo (Laus vitae) ne chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia vitale, un naturalismo pagano impreziosito o sopraffatto dai riferimenti classici e mitologici.
Il secondo libro, “Elettra”, composto tra il 1899 e il 1902 celebra gli eroi della patria e dell'arte; nella terza parte sono cantate 25 “città del silenzio” e nella quarta parte è il famoso Canto augurale per la Nazione eletta che infiammò di entusiasmo i nazionalisti italiani.
Il terzo libro, “Alcyone”, pubblicato con il primo, contiene il meglio di D'Annunzio come poeta.
Il quarto libro, “Merope”, raccoglie canti celebrativi della conquista della Libia.


IL MITO DI D'ANNUNZIO

D'Annunzio rappresentò nella vita italiana, con i suoi atteggiamenti, innanzitutto un fatto di costume, incarnò i desideri di evasione dalla monotonia quotidiana di ceti intellettuali e borghesi insoddisfatti della realtà della vita nazionale nei decenni post-risorgimentali. Per questo gran parte della sua vastissima opera, creata per esaltare e sostenere il mito che di sé aveva costruito, appare oggi superata e priva di attualità.
Ebbe tuttavia almeno due meriti: sul piano culturale, si avvicinò di volta in volta ad autori ed atteggiamenti del decadentismo europeo contribuendo a diffonderne la conoscenza in Italia ed a sprovincializzare la nostra cultura. Sul piano più intimamente poetico, accanto all'esteriorità di molti atteggiamenti esibizionistici seppe almeno cogliere ed esprimere la comunione dei sensi e dell'anima con la molteplicità della vita naturale, creando quella dimensione "panica", di immedesimazione quasi fisica e sensuale basata sulle immediate sensazioni, che in particolare nella raccolta Alcyone segna il nascere di un atteggiamento nuovo per la nostra poesia.
Per esprimere questo atteggiamento raffinato e sensuale D'Annunzio si servì di un linguaggio ostentatamente insolito ed artistico, basato sul recupero di preziose voci arcaiche e sull'invenzione di neologismi capaci di stupire e meravigliare; creò così un "culto della parola" ricercata soprattutto per clamorose risonanze musicali (anch'egli si affidò molto alle onomatopee) che spesso è solo espediente retorico, ma che sa anche diventare talora esperienza linguistica originale e contribuisce, anche se in misura minore del Pascoli, ad avviare il nuovo linguaggio poetico del '900 verso le svolte successive.

L'ANNO MORIVA ASSAI DOLCEMENTE (libro 1, cap. 1)

È l'inizio del romanzo: l'ultimo giorno dell'anno che muore dolcemente con un sole che spande “non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile” sulla Roma elegante e aristocratica di fine 800. Dopo la rapida carrellata l'attenzione si delimita alle stanze di Palazzi Zuccari dove Andrea Sperelli attende una visita di Elena, ma l'incontro è subito differito da una analessi che sposta l'azione a due anni prima, al momento della partenza di Elena.
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan né vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare immagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e al piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate di storiette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto l figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richuiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo il ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillavano rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora scorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora d'intimità.
Ella aveva molt'arte nell'accumular gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d'un pallor d'ombra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arboreicome nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l'opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe' vetri lottavano qualche tempo. L'odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l'abitudine, un po' crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch'eran ne' vasi, alla fine d'ogni convegno d'amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendosi i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell'atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l'altro perché l'amante chino legasse i nastri della scarpa ancora disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le immagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz'ora, certo, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del grande commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio momentaneo gli si apriva d'innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili di lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme.

CHI È ANDREA SPERELLI (libro I, cap. 2)

Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte.
A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L'urbanità, l'atticismo, l'amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. [ ... ]
Il conte Andrea Sperelli–Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l'ideal tipo del giovine signore italiano nel XIX secolo, il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l'ultimo discendente d'una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a' venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e costrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d'arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizii, l'avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s'era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l'Europa.
L'educazione d'Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realtà umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall'alta cultura ma anche dall'esperimento: e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond'egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l'espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un'altra forza, della forza morale, che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d'intorno inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: “Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita d'un uomo d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui”. Anche, il padre ammoniva: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell'ebbrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, eccola: – Habere, non haberi”. Anche, diceva: “Il rimpianto è il vano pascolo d'uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni”. Ma queste massime volontarie, che per l'ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell'animo di Andrea: il seme del sofisma. "Il sofisma " diceva quell'incauto educatore " è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell'oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l'uomo d'intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell'antichità. I sofisti fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.
Un tal seme trovò nell'ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conoscenza ch'egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio. Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d'una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de' suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi, non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l'Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l'attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese, una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda: " Che vorreste voi essere? >, egli aveva scritto " Principe romano ".
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de' Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l'ombra dell'obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d'invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de' morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d'oro come una città dell'Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne' mari australi.
Quel languore dell'aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realtà e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima, delle abitudini, degli usi. L'anima converte in fenomeni psichici le impressioni dell'organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.
Certo egli ora entrava in un novello stadio. – Avrebbe alfin trovato la donna e l'opera capaci d'impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? – Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza né il presentimento della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancòra prodotto nessuna opera notevole. Avido d'amore e di piacere, non aveva ancóra interamente amato né aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancóra ben distinta in cima de' pensieri l'imagine. Aborrendo dal dolore per natura e per educazione, era vulnerabile in ogni parte, accessibile al dolore in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne' limiti d'un certo equilibrio. Gli uomini d'intelletto, educati al culto della Bellezza conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezion della Bellezza è, dirò così, l'asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.
In questa presentazione di Andrea Sperelli si possono cogliere gli aspetti piú tipici dell'"eroe decadente". Per molti aspetti simile al Dorian Gray dì Oscar Wilde o al Des Esseintes di Huysmans, il protagonista del romanzo rivela un distacco aristocratico e snobistico dalle masse, una raffinata curiosità estetica, una predilezione per le cose insolite. La sua regola di vita è tutta basata su una forma di esasperato estetismo: "il senso estetico aveva sostituito il senso morale" e l'asse intorno al quale "gravitano" tutte le sue passioni è soltanto "la concezione della Bellezza". Il paragone fra due epoche storiche, o meglio fra due periodi artistici del passato (la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi) chiarisce il gusto tutto decadente di Andrea Sperelli e la prospettiva dalla quale vengono presentati gli ambienti in cui si svolge l'azione del romanzo. La città di Roma non è mai colta nel suo vivere quotidiano e nella complessità del suo tessuto sociale, ma come raccolta di opere d'arte. Anche quando l'azione si sposterà da Roma alla villa al mare di Schifanoja gli ambienti delimiteranno ancora una zona privilegiata, "quella aristocratica di Andrea Sperelli e delle persone che lo circondano, unica zona che può essere attentamente osservata, anzi contemplata, e descritta, e che sola sembra avere diritto all'esistenza. Tutto il resto non esiste o si intravede come contrappunto negativo, come una realtà degradata che di tanto in tanto colpisce spiacevolmente per i suoi sfacciati suoni o per la sua brutalità" (Fazio Alberti, 1978)

I MORTI DI DOGALI E LA TERZA AMANTE IDEALE (Libro III, cap. 3)

Il concerto incominciò con un Quartetto del Mendelssohn. La sala era già quasi interamente occupata. L'uditorio componevasi, in massima parte, di dame straniere; ed era un uditorio biondo, pieno di modestia negli abiti, pieno di raccoglimento nelle attitudini, silenzioso e religioso come in un luogo pio. L'onda della musica passava su teste immobili, coperte di cappelli scuri, dilatandosi in una luce aurea, in una luce che fluiva dall'alto, temperata dalle tendine gialle, schiarita dalle pareti bianche e nude. E la vecchia sala dei Filarmonici, disadorna, dove appena rimaneva su l'egual candore qualche traccia d'un fregio e dove le misere portiere azzurre stavan per cadere, offriva imagine d'un luogo che fosse rimasto chiuso per un secolo e fosse stato riaperto proprio in quel giorno. Ma quel color di vecchiezza, quell'aria di povertà, quella nudità delle pareti aggiungevano non so che strano sapore allo squisito diletto dell'udizione; e il diletto pareva più segreto, più alto, più puro là dentro, per ragion d'un contrasto. Era il 2 di febbraio, un mercoledì: in Montecitorio, il Parlamento dispu tava per il fatto di Dogali; le vie e le piazze prossime rigurgitavano di popolo e di soldati.
I ricordi musicali di Schifanoja sorsero nello spirito de' due amanti; un riflesso di quell'autunno illuminò i loro pensieri. Al suono del Minuetto mendelssohniano si svolgeva la visione della villa maritima, della sala profumata dai giardini sottoposti, dove negli intercolunnii del vestibolo si levavano le cime dei cipressi, si scorgevano le vele di fiamma su un lembo di mare sereno.
Di tratto in tratto Andrea, chinandosi un poco verso la senese, le chiedeva piano: – Che pensate?
Ella rispondeva con un sorriso così tenue ch'egli appena giungeva a coglierlo.
– Vi ricordate del 23 settembre? – ella disse.
Andrea non aveva ben distinto nella memoria quel ricordo, ma assentì col capo. L'Andante calmo e solenne, dominato da un'alta melodia patetica, dopo estesi sviluppi aveva uno scoppio di dolore. Il Finale insisteva in una certa monotonia ritmica, piena di stanchezza.
Ella disse:
– Ora viene il vostro Bach.
E ambedue, quando la musica ricominciò, provarono un bisogno istintivo di riavvicinarsi. I loro gomiti si sfioravano. Alla fine d'ogni tempo, Andrea si chinava verso di lei per legger nel programma ch'ella teneva spiegato fra le mani; e, nell'atto, le premeva il braccio, sentiva l'odore delle viole, le comunicava un brivido di delizia. L'Adagio aveva una elevazion di canto così possente, saliva con tal volo alle sommità dell'estasi, con tal piena sicurezza allargavasi nell'Infinito, che parve la voce d'una creatura sopraumana la quale effondesse nel ritmo il giubilo d'una sua conquista immortale. Tutti gli spiriti erano trascinati dall'onda irresistibile. Quando la musica cessò, lo stesso fremito degli strumenti durò qualche minuto nell'uditorio. Un susurro corse da un capo all'altro della sala. L'applauso irruppe, dopo l'indugio, più vivo.
I due si guardarono, con gli occhi alterati, come se si distaccassero dopo un amplesso d'insostenibile piacere. La musica continuava; la luce della sala diveniva più discreta; un tepor dilettoso addolciva l'aria; intiepidite, le violette di Donna Maria esalavano un profumo più forte. Andrea aveva quasi l'illusione d'essere solo con lei, poiché non vedeva d'innanzi a sé persone ch'egli conoscesse.
Ma s'ingannava. In un intervallo, volgendosi, vide Elena Muti diritta in fondo alla sala, accompagnata dalla principessa di Ferentino. Sùbito, il suo sguardo incontrò quel di lei. Da lontano, egli salutò. Gli parve di scorgere su le labbra di Elena un sorriso singolare.
– Chi salutate? – chiese Donna Maria, anche volgendosi. – Chi sono quelle signore?
– Lady Heathfield e la principessa di Ferentino.
Ella credé sentire nella voce di lui un turbamento.
– Qual è la Ferentino?
– La bionda.
– L'altra è molto bella.
Andrea tacque.
– Ma è una inglese? – ella soggiunse.
– No; è una romana; è la vedova del duca di Scerni, passata a Lord Heathfield in seconde nozze.
– E' molto bella.
Andrea domandò, con premura:
– Ora, che soneranno?
– Il Quartetto del Brahms, in do minore.
– Lo conoscete?
– No.
– Il secondo tempo è meraviglioso.
Per celare la sua inquietudine, egli parlava.
– Quando vi vedrò, ancóra?
– Non so.
– Domani?
Ella titubò. Pareva che le fosse discesa pel volto una lieve ombra. Rispose:
– Domani, se ci sarà sole, verrò con Delfina su la piazza di Spagna, verso mezzogiorno.
– E se il sole mancasse?
– Sabato sera, andrò dalla contessa Starnina...
La musica ricominciava. Il primo tempo esprimeva un lottar cupo e virile, pieno di vigore. La Romanza esprimeva un ricordarsi desioso ma assai triste, e quindi un sollevarsi lento, incerto, debole, verso un'alba assai lontana. Una chiara frase melodica si svolgeva con profonde modulazioni. Era un sentimento assai diverso da quel che animava l'Adagio del Bach; era più umano, più terreno, più elegiaco. Passava in quella musica un soffio di Ludovico Beethoven.
Andrea fu invaso da una così terribile ansia che temé di tradirsi. Tutta la dolcezza di prima gli si convertì in amarezza. Egli non aveva la conscienza esatta di questo suo nuovo sofferire; non sapeva raccogliersi né dominarsi; ondeggiava perduto fra la duplice attrazion feminile e il fascino della musica, da nessuna delle tre forze penetrato; provava, dentro, un'impressione indefinibile, come d'un vuoto in cui risonassero di continuo grandi urti con un'eco dolorosa; e il suo pensiero si spezzava in mille frammenti, si sconnetteva, si disfaceva; e le due imagini feminili si sovrapponevano, si confondevano, si distruggevano a vicenda, senza ch'egli potesse giungere a separarle, senza ch'egli potesse giungere a definire il suo sentimento verso l'una, il suo sentimento verso l'altra. E a fior di questa torbida sofferenza interiore si muoveva l'inquietudine prodotta dalla immediata realità, dalle preoccupazioni, dirò così, pratiche. Non gli sfuggiva un leggero cambiamento nell'attitudine di Donna Maria verso di lui; e credeva sentire lo sguardo di Elena assiduo e fisso; e non giungeva a trovare un modo di contenersi, non sapeva se dovesse accompagnar Donna Maria nell'uscir dalla sala o se dovesse avvicinarsi a Elena, né sapeva se quel caso gli avrebbe giovato o nociuto presso l'una e l'altra.
– Io vado – disse Donna Maria levandosi, dopo la Romanza. – Non aspettate la fine?
– No; debbo essere a casa per le cinque. –Ricordatevi, domattina...
Ella gli tese la mano. Forse pel calore dell'aria chiusa, una lieve fiamma le avvivava la pallidezza. Un mantello di velluto, d'un color cupo di piombo, orlato d'una larga zona di chinchilla, le copriva tutta la persona; e tra la pelliccia cinerea le violette morivano squisitamente. Nell'uscire, ella camminava con sovrana eleganza, mentre qualcuna delle signore sedute volgevasi a guardarla. E per la prima volta Andrea vide in lei, nella donna spirituale, nella pura madonna senese, la dama di mondo.
Il Quartetto entrava nel terzo tempo. Poiché la luce diurna diminuiva, furono alzate le tendine gialle, come in una chiesa. Altre signore abbandonarono la sala. Sorgeva qua e là qualche bisbiglio. Cominciavano nell'uditorio la stanchezza e la disattenzione, che son proprie della fine d'ogni concerto. Per uno di quei singolari fenomeni d'elasticità e di volubilità repentini, Andrea provò un senso di sollievo, quasi gaio. Egli perse ogni preoccupazion sentimentale e passionale, d'un tratto; e l'avventura di piacere apparve sola alla sua vanità, alla sua viziosità, lucidamente. Egli pensò che Donna Maria, concedendogli quei convegni innocui, già aveva messo il piede su la dolce china in fondo a cui è il peccato inevitabile anche per le anime più vigili: pensò che forse un po' di gelosia avrebbe potuto spingere Elena a ricadergli nelle braccia, e che quindi forse l'una avventura avrebbe aiutata l'altra; pensò che forse appunto un vago timore, un presentimento geloso avevano affrettato l'assenso di Donna Maria al prossimo convegno. Egli era dunque su la via di una duplice conquista; e sorrise notando che in ambedue le imprese la difficoltà si presentava sotto un medesimo aspetto. Egli doveva convertire in amanti due sorelle, cioè due che volevano presso di lui far profession di sorelle. Altre simiglianze fra i due casi egli notò, sorridendo. – Quella voce! Com'erano strani nella voce di Donna Maria gli accenti d'Elena! – Gli balenò un pensiero folle. – Quella voce poteva esser per lui l'elemento d'un'opera d'imaginazione: in virtù d'una tale affinità egli poteva fondere le due bellezze per possederne una terza imaginaria, più complessa, più perfetta, più vera perché ideale...
Il terzo tempo, eseguito con impeccabile stile, finiva tra gli applausi. Andrea si levò; si avvicinò a Elena.
- Oh, Ugenta, dove siete stato fino ad ora? – gli disse la principessa di Ferentino.
– Au pays du Tendre?
– E quell'incognita? – gli disse Elena, con un'aria leggera, odorando un mazzo di viole tirato fuori dal manicotto di martora.
– E' una grande amica di mia cugina: Donna Maria Ferres y Capdevila, moglie del nuovo ministro di Guatemala – rispose Andrea, senza turbarsi. – Una bella creatura, assai fine. Era da Francesca, a Schifanoja, in settembre.
– E Francesca? – interruppe Elena. – Non sapete quando tornerà?
– Ho notizie sue, da San Remo, recenti. Ferdinando migliora. Ma temo ch'ella dovrà trattenersi là qualche altro mese, forse più. Che peccato!
Il Quartetto entrava nell'ultimo tempo, molto breve. Elena e la Ferentino avevano occupato due sedie, in fondo, lungo la parete, sotto il pallido specchio dove si rifletteva la sala malinconica. Elena ascoltava, con la testa china, facendo scorrere tra le sue mani le estremità d'un lucido boa di martora.
– Accompagnateci – ella disse, quando il concerto fu finito, allo Sperelli.
Montando in carrozza, dopo la Ferentino, ella disse:
– Montate anche voi. Lasciamo Eva al palazzo Fiano. Vi poso poi dove volete.
– Grazie.
Lo Sperelli accettò. Uscendo nel Corso, la carrozza fu costretta a procedere con lentezza perché tutta la via era ingombra di gente in tumulto. Dalla piazza di Montecitorio, dalla piazza Colonna venivano clamori e si propagavano come uno strepito di flutti, aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli squilli delle trombe militari. La sedizione ingrossava, nella sera cinerea e fredda; l'orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa, agitando gran fasci di fogli, fendevano la calca; emergeva distinto su i clamori il nome d'Africa.
Per quattrocento bruti, morti brutalmente! – mormorò Andrea, ritirandosi dopo aver osservato allo sportello.
– Ma che dite? – esclamò la Ferentino.
Su l'angolo del palazzo Chigi il tumulto sembrava una zuffa. La carrozza fu costretta a fermarsi. Elena si chinò per guardare; il suo volto fuor dell'ombra illuminandosi al riflesso del fanale e alla luce del crepuscolo apparve d'una bianchezza quasi funeraria, d'una bianchezza gelida e un po' livida, che risvegliò in Andrea il ricordo vago d'una testa veduta – non sapeva più quando, non sapeva più dove – in una galleria, in una cappella.
– Eccoci – disse la principessa, poiché la carrozza era giunta finalmente al palazzo Fiano. – Addio dunque. Ci ritroveremo stasera dall'Angelieri. Addio, Ugenta. Venite domani a colazione da me? Troverete anche Elena, e la Viti e mio cugino.
– L'ora?
– Mezz'ora dopo mezzogiorno.
– Va bene. Grazie.
La principessa discese. Il servo aspettava un ordine.
– Dove volete ch'io vi porti? – domandò Elena allo Sperelli che le si era già seduto accanto, nel posto dell'amica.
– Far, far away...
– Su via, dite: a casa vostra?
E senza aspettare altra risposta, ella ordinò:
– Trinità de' Monti, palazzo Zuccari.
Il servo richiuse lo sportello. La carrozza si mosse al trotto, voltò per la via Frattina, lasciando dietro di sé la folla, le grida, i romori.
– Oh, Elena, dopo tanto... – proruppe Andrea, chinandosi a guardare la desiderata che s'era raccolta nell'ombra, in fondo, come schiva d'un contatto.
Il chiaror d'una vetrina, al passaggio, traversò l'ombra; ed egli vide che Elena sorrideva, bianca, d'un sorriso attirante.
Sempre così sorridendo, ella si tolse dal collo con un gesto agile il lungo boa di martora e lo gittò intorno al collo di lui, in guisa d'un laccio. Pareva facesse per gioco. Ma con quel morbido laccio, profumato del profumo medesimo che Andrea aveva sentito nella volpe azzurra, ella attirò il giovine; gli offerse le labbra, senza parlare.
Ambedue le bocche si ricordarono delle antiche mescolanze, di quelle congiunzioni terribili e soavi che duravano fino all'ambascia e davano al cuore la sensazione illusoria come d'un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro. La carrozza dalla via dei Due Macelli salì per la via del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò al palazzo Zuccari.
Rapidamente, Elena respinse il giovine. Gli disse, con la voce un po' velata:
– Discendi. Addio.
– Quando verrai?
– Chi sa!
Il servo aprì lo sportello. Andrea discese. La carrozza voltò di nuovo, per riprendere la via Sistina. Andrea, tutto ancor vibrante, con gli occhi ancor fluttuanti in una nebbia torpida, guardava se apparisse dietro il vetro il volto di Elena; ma non vide nulla. La carrozza si allontanò.
Risalendo le scale, egli pensava: – Alfine, ella si converte! – Gli rimaneva nel capo quasi un vapore d'ebrezza, gli rimaneva nella bocca il gusto del bacio, gli rimaneva nella pupilla il balen del sorriso con cui Elena gli aveva gittato al collo quella specie di serpe rilucente e aulente. – E Donna Maria? – Egli, certo, doveva alla senese l'inaspettata voluttà. Senz'alcun dubbio, in fondo all'atto strano e fantastico di Elena era un principio di gelosia. Temendo forse ch'egli le sfuggisse, ella aveva voluto legarlo, adescarlo, accendergli di nuovo la sete. – Mi ama? Non mi ama? – E che importava a lui saperlo? Che gli giovava? Ormai l'incanto era rotto. Nessun prodigio mai avrebbe potuto risuscitare sol una minima parte della felicità morta. Conveniva a lui occuparsi della carne che era ancóra divina.
Si compiacque a lungo nel considerar l'avventura. Si compiacque, in ispecie, della maniera elegante e singolare con cui Elena aveva dato sapore al capriccio. E l'imagine del boa suscitò l'imagine della treccia di Donna Maria, suscitò in confuso tutti gli amorosi sogni da lui sognati intorno a quella vasta capellatura vergine che un tempo faceva languir d'amore le educande nel monastero fiorentino. Di nuovo, egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la duplicità del godimento; travide la terza Amante ideale.
Entrava in una disposizione di spirito riflessiva. Vestendosi per il pranzo, ripensava: – Ieri, una grande scena di passione, quasi con lacrime; oggi una piccola scena muta di sensualità. E a me pareva ieri d'essere sincero nel sentimento, come io era dianzi sincero nella sensazione. Inoltre, oggi stesso, un'ora prima del bacio d'Elena, io avevo avuto un alto momento lirico accanto a Donna Maria. Di tutto questo non riman traccia. Domani certo, ricomincerò. Io sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC. Sia fatta la volontà della legge.
Rise di sé medesimo. E da quell'ora ebbe principio la nuova fase della sua miseria morale.

Il brano è caratterizzato dal netto contrasto tra quello che succede all'esterno (manifestazioni davanti al Parlamento in seguito ai fatti di Dogali dove pochi giorni prima sono stati uccisi più di cinquecento soldati italiani) e il mondo di Andrea Sperelli. Il contrasto tra l'esterno della folla manifestante e l'interno della sala dei Filarmonici dove Andrea Sperelli è ad un concerto insieme a Maria Ferres, rende " più segreto, più alto, più puro " il godimento dell'esteta e quando in strada la folla costringe la carrozza a rallentare Andrea Sperelli è solo infastidito dalla " plebe " che fa tanto clamore " per quattrocento bruti, morti brutalmente ". La distanza tra i due mondi è ulteriormente accentuata dalle pagine seguenti dove Andrea continua, chiusa la fastidiosa parentesi, a meditare su Elena e su Maria e intravede la possibilità della " terza amante Ideale " che unisca in sé la sensualità raffinata di Elena e la pura spiritualità di Maria.