giovedì 19 marzo 2015

Il processo di Norimberga. Itinerario d'esame Storia e Diritto - Manuale Tellus cura di Claudio Di Scalzo






PROCESSO DI NORIMBERGA

ITINERARIO D'ESAME STORIA/DIRITTO

cura CDS

Il processo di Norimberga. Si tratta in realtà di tredici processi, intentati dopo la fine della seconda guerra mondiale dalle potenze vincitrici ai principali responsabili del nazismo, ma il più famoso fu il primo, che riguardò ventuno alti gerarchi nazisti superstiti. I governi in esilio di nove paesi occupati dai tedeschi avevano pensato, già dal 13 gennaio 1942,  di mettere sotto accusa i crimini di guerra commessi dai tedeschi durante la seconda mondiale, incriminandoli della violazione della convenzione dell'Aia relativa alla protezione della popolazione civile in tempo di guerra. Nell'agosto del 1945, dopo il precedente annuncio di voler punire i responsabili di eccessi criminosi, sulla base di un accordo tra le quattro grandi potenze alleate (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica), fu costituita una corte internazionale per giudicare quei criminali di guerra.

capi d’imputazione comprendevano: a) i crimini contro la pace (la pianificazione, la preparazione e la condotta di una guerra offensiva); b) icrimini di guerra (la violazione delle leggi e norme di guerra, le violenze alla popolazioni civile, le deportazioni, le uccisioni di ostaggi, il saccheggio di oggetti di proprietà privata e pubblica); c) i crimini contro l'umanità (in particolare le persecuzioni per ragioni politiche, razziali e religiose).





La prima riunione del tribunale internazionale si tenne il 18 ottobre 1945 a Berlino nel palazzo della ex corte popolare nazista, in seguito la corte si trasferì a Norimberga, città simbolo dove erano state emanate le leggi di discriminazione contro gli ebrei. Il dibattito processuale e l'acquisizione delle prove, che documentavano in maniera schiacciante gli atroci delitti commessi dai nazisti nei territori occupati, richiesero molti mesi. La sentenza fu pronunciata il 30 settembre 1946 e condannò a morte per impiccagione dodici dei ventiquattro principali imputati:
H. Göring (suicida in carcere prima dell'esecuzione), Maresciallo del Reich, comandante in capo dell'aviazione militare, successore ufficiale di Hitler, il personaggio più importante del nazismo al processo; J. von Ribbentrop, ministro degli esteri del Reich (1938 al 1945), protagonista del Patto tra Germania e Urss (1939); W. Keitel, generale dell'esercito, capo del comando supremo della Wehrmacht (OKW) (1938-45); E. Kaltenbrunner, capo dei servizi di sicurezza del Reich; A. Rosenberg, responsabile esteri per il partito nazista (1933-45), ministro del Reich per i territori occupati (1941-45) e ideologo del nazismo; H. Frank, ministro della Giustizia del Reich e governatore della Polonia controllata dai nazisti dal 1939; W. Frick, ministro degli Interni (1933-43), protettore di Boemia e Moravia (1943-45); J. Streicher, giornalista e propagandista della persecuzione degli ebrei; F. Sauckel, dirigente nazista, plenipotenziario generale per la mobilitazione del lavoro (1942-45), procuratore generale di Hitler; A. Jodl, generale dell'esercito, vice di Keitel nel comando supremo della Wehrmacht (OKW) (1939-45); A. Seyss-Inquart, generale SS, Ministro degli Interni e poi Cancelliere austriaco (1938), vice del Governatore Generale Franck in Polonia (1939-40) e Commissario del Reich per l'Olanda (1940-45); e in contumaciaM.  Bormann, dirigente del partito nazista, segretario di Hitler e capo della Cancelleria privata del Führer dal 1944.





Altri sette imputati vennero condannati a pene detentive, scontate nell'ex prigione militare di Berlino-Spandau. All'ergastolo: R. Hess, considerato il volto oscuro e misterioso del nazionalsocialismo, vice-führer fino al 1939;  W. Funk, ministro dell’economia del Reich e dal 1939 presidente della Deutsche Reichsbank (banca centrale del Reich); e E. Reader,  ex comandante supremo della marina militare. A 20 anni: B. von Schirach, ex capo della gioventù hitleriana e governatore del distretto di Vienna;e A. Speer, ministro del Reich per l’armamento e le munizioni. A 15 anni: K. von Neurath, primo ministro degli esteri di Hitler e poi protettore del Reich per la Boemia e la Moravia. A10 anni: K. Dönitz, grande ammiraglio, comandante della Kriegsmarine (la flotta da guerra), successore di Hitler. 
Inoltre tre degli imputati vennero assoltiH. Schacht, presidente della Reichsbank e ministro dell’economia, poi sostituito da Funk;  F. von Papen, politico e diplomatico, cancelliere (1932), vicecancelliere di Hitler (1933-34), ambasciatore in Austria (1934-38) e in Turchia (1939-44);  H. Fritzsche, giornalista, dal maggio del 1933 direttore delle informazioni presso il servizio stampa del ministero della propaganda. In seguito vennero assolti anche leSA (squadre d’assalto), il Gabinetto del Führer e lo Stato Maggiore dell’OKW.




Si sottrassero al giudizio della corte i principali protagonisti del nazismo:Hitler e Göbbels (morti suicidi dopo il crollo del regime), Himmler (suicida poco dopo l'arresto), capo delle SS (1929-45) e ministro degli interni (1943-45). Invece R. Ley, capo del Fronte tedesco del lavoro, si uccise prima del processo (ottobre 1945), mentre l'industriale A. Krupp von Bohlen (morto nel 1950) per ragioni di salute non poté comparire in tribunale. A. Eichmann, responsabile della sezione "Questioni ebraiche ed evacuazione" del RSHA, cioè dell'organizzazione della deportazione degli Ebrei nei campi di sterminio, fu arrestato in Argentina dai servizi segreti israeliani, processato e giustiziato in Israele nel 1962.

Vennero infine dichiarate organizzazioni criminali: la direzione del Partito nazista, la Gestapo (Polizia segreta di Stato), l'SD (Servizio di sicurezza) leSS (Squadre di protezione, formazioni armate del Partito nazista). (19 Giugno 2009)


giovedì 5 marzo 2015

Claudio Di Scalzo: Una data una foto. Manuale Tellus Scolastico


Università cattolica occupata


UNA DATA UNA FOTO

a cura di Claudio Di Scalzo


Fondato su un'interpretazione del Concilio Vaticano II che ne portava all'estreme conseguenze il senso di svolta epocale, e precorso dalla contestazione studentesca all’Universila cattolica, che poneva non solo problemi legati alla condizione degli studenti ma metteva in questione i rapporti interni allaChiesa, il dissenso cattolico organizzato si manifestò in primo luogo sul piano politico. Il 25-26 novembre 1967 il convegno “La fine dell'unità politica dei cattolici, la socialdemocrazia al potere e le prospettive della sinistra italiana” vide tra i relatori, accanto a Luigi Anderlini e Achille Occhetto, Vladimiro Dorigo, per molti anni dirigente della DC e direttore di Questitalia, che si impegnò in un'opera di coordinamento dei gruppi spontanei della sinistra cattolica.

L'esaurimento dell'unità politica dei cattolici nella DC parve divenire, specie nel 1969, una realtà concreta: Livio Labor, presidente delle ACLI, proclamò la fine del collateralismo; Carlo Donat Cattin, all'epoca il più vivace esponente della sinistra DC, mostrò disponibilità all'ipotesi di un secondo partito cattolico, un partito dei lavoratori schierato a sinistra. Nel 1968 il dissenso cattolico ebbe però una prospettiva più vasta di quella politica: veniva rifiutata la validità dei tradizionali vincoli di obbedienza all'interno della Chiesa e al tempo stesso si esprimeva l'esigenza di una sua univoca collocazione dalla parte dei diseredati.

Don Mazzi, il parroco dell'Isolotto, nel pieno del contrasto con l'arcivescovo di Firenze, il cardinale Ermenegildo Florit, affermava che «ubbidire alla gerarchia cattolica significa quasi sempre disubbidire alle esigenze più profonde, vere ed evangeliche del popolo», e vedeva uno scisma già in atto: «Da una parte, la Chiesa legata al potere politico, economico, culturale; dall'altra, la Chiesa dei disoccupati, dei sottoccupati, degli analfabeti, dei rifiutati, dei lavoratori»



Alfred Sisley: Neve a Louveciennes. Museo d'Orsay - A cura di Claudio Di Scalzo






Alfred Sisley

NEVE A LOUVECIENNES

Guida per raggiungere il dipinto al Museo D'Orsay

a cura di Claudio Di Scalzo 


Molte opere di Sisley  hanno l'aria di essere modelli esemplari dell'Impressionismo, come questo paesaggio innevato. Elaborando le tonalità madreperlacee della neve l'artista raggiunge un livello di grande maestria che si manifesta nel suo alludere a ciò che non ha peso né durata, imponderabile e fuggevole. Ciò è tanto più sorprendente se si considera che il silenzioso paesaggio con la neve è costruito con ampie pennellate che sembrano accrescere anziché diminuire l'effetto di suggestione.
L'aria è piena del bianco pulviscolo della neve, i fiocchi si sono depositati su tutto, la strada, gl alberi, i muri, i tetti e le palizzate. La coltre di neve è ancora intatta.


La magia del tocco che riusciva a creare atmosfere e particolari giocando su luci e ombre costituiva un interessante stimolo per Sisley, Pissarro, Monet. Per gli impressionisti l'ombra non era priva di colore e neanche semplicemente scura. Ancora nel 1910 Renoir diceva a proposito: "Un'ombra non è nera né bianca. Essa ha sempre un colore. La natura conosce soltanto i colori". Quale colore ha l'ombra nella neve? Al posto del bianco nelle superfici in ombra appaiono i colori che vengono riflessi o atmosfericamente creati dalle cose che gettano ombra. L'ambiente circostante, esposto alla luce, influenza anche tutto ciò che rimane silenziosamente in ombra. Sono soprattutto i toni dell'azzurro che traspaiono dal manto di neve che copre la strada. Il quadro di Sisley fa parte della rappresentazioni poetiche del mondo fragile e instabile della neve.


La Maschera e Friedrich Nietzsche - Letture a lato del Manuale Tellus Scolastico








LA MASCHERA E FRIEDRICH NIETZSCHE

(Letture a lato del Manuale Tellus Scolastico)

a cura di CDS

«Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio. (...) Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà».

La maschera è dunque un mezzo ambiguo, dietro il quale da un lato la verità ama nascondersi per salvaguardare la propria profondità; ma che dall'altro noi utilizziamo per non vedere la realtà, per sfuggire da essa.
Secondo Schopenhauer ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la soggettività della specie che impiega gli individui per il suo interesse che è poi quello della propria conservazione e riproduzione, e la soggettività dell'individuo che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti che altro non sono se non illusioni per vivere e non vedere che a cadenzare il ritmo della vita è l'immodificabile esigenza della specie.
Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi dalle parole “Io” e “inconscio”. Nell'inconscio è custodita la verità dell'esistenza, nell'Io e nella sua progettualità l'illusione concessa all'individuo per vivere. La psicoanalisi, quindi, strutturando il suo edificio sulla dialettica tra le due soggettività, è un evento del pensiero romantico.
La lezione fu accolta da Nietzsche che considera Schopenhauer suo “educatore” e da Freud che lo considera suo “precursore”.

L'assunto di Schopenhauer è che la “vita” e la “verità” non possono coesistere, perché se la verità della vita dell'individuo è nel suo essere strumento della conservazione della specie, l'individuo per vivere deve illudersi, indossando quella maschera che chiama “Io”, e quindi fuoriuscire dalla verità della sua vita.
In questa condizione Nietzsche scorge l'essenza del “tragico”.
Freud non conosce la “tragedia” perché, da clinico, guarda alla “salute”, alla salute dell'umanità media che la maschera della religione e di certa filosofia aveva già salvato prima di lui, sottraendola alla visione del tragico, in cui è custodita la "verità" dell'esistenza che rende la “vita” impossibile.
Dopo avere elencato le due grandi mortificazioni che l'umanità ha conosciuto nella sua storia: la prima «quando ha scoperto che la sua terra non è il centro dell'universo», la seconda «quando la ricerca biologica gli dimostrò la sua provenienza dal regno animale togliendogli la pretesa posizione di privilegio nell'universo», Freud enuncia la terza: «La più scottante mortificazione l'umanità è destinata a subirla da parte dell'odierna indagine psicologica, la quale ha l'intenzione di dimostrare all'Io che egli non è padrone in casa propria. Questo richiamo non siamo stati noi psicoanalisti né i primi né i soli a proporlo, ma sembra che tocchi a noi sostenerlo nel modo più energico e corroborarlo con materiale clinico».

Il riconoscimento di Freud tende ad abolire una distanza che rimane abissale, ricopre la verità con un'altra maschera, la maschera della guarigione e della salute per quanti non hanno il coraggio del tragico.
Nietzsche è più coerente con Schopenhauer, suo “educatore” di quanto non lo sia Freud che pure lo considera suo “precursore”, perché, gettando la maschera dell'illusione, che sola consente la vita, Nietzsche getta anche la verità:
«Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!»
Non c'è più storia e non c'è più sapere se non come liberazione di tutte le maschere, senza nessuna serietà, perché il tragico è stato visto nella sua essenza ineliminabile e non addolcito nella metafora della malattia da cui si può anche guarire. Con Schopenhauer il disincanto ormai è accaduto e con le maschere si può solo giocare. Freud, buon lettore di Schopenhauer, è stato cattivo lettore di Nietzsche:
«Nello sforzo di capire un filosofo - scrive Freud - ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi».
Simili sì, ma divaricanti. Infatti una volta assunta l'ipotesi schopenhaueriana restano due vie praticabili: o la “rinuncia” ad assecondare il gioco della natura, come vuole l'ascesi di Schopenhauer che, scoperto l'inganno, non vuole restare irretito nella sua trama, o l'“accettazione” del gioco della natura con conseguente liberazione di tutte le illusioni, di tutti gli inganni: in termini nietzscheani, come liberazione del dionisiaco, perché «tutto ciò che è profondo ama la maschera», e quindi: «Dammi ti prego una maschera ancora, una seconda maschera». Di fronte a queste due vie, Freud tenta l'ipotesi più ardita: la «scoperta delle regole del gioco», mentre per Nietzsche la via da seguire è l'accettazione delle regole della natura.
Ecco dunque che per Nietzsche la massima è: «Diventa ciò che sei». La libertà dell'oltreuomo è una ricchezza di possibilità diverse, da qui appunto la rinuncia ad ogni certezza assoluta e da qui anche la profondità tipica dell'oltreuomo, l’impossibilità di definire e giudicare la vita interiore, dalla quale non si attinge altro che la maschera.

Maschera e decadenza
Il concetto di maschera è uno dei fili conduttori del pensiero di Nietzsche, in quanto da questo concetto si sviluppano i temi essenziali della sua filosofia.
Il problema della maschera è il problema del rapporto tra essere e apparenza, tematica che il filosofo trova già elaborata nel pensiero diSchopenhauer: l'idea antihegeliana dell'impossibilità di una coincidenza tra essere e apparire è tema dominante nella concezione del mondo come volontà e rappresentazione.
Frutto dell'inevitabile divergenza tra essere e apparire è la maschera.
Confrontando diversi modelli di vita presente e passata Nietzsche vede la vita presente caratterizzata dalla decadenza, intesa non come mancanza di bellezza, ma come assenza di unità stilistica, assenza di coerenza tra forma e contenuto. Per questo ad un osservatore la forma non può apparire che come travestimento.
Il travestimento è qualcosa che non appartiene all'uomo naturalmente, ma che si assume deliberatamente in vista di qualche scopo: nell'uomo moderno questo travestimento viene assunto per combattere uno stato di paura e di debolezza. Tale paura ha radici specifiche nell'eccesso di cultura storica e nell'affermarsi del sapere scientifico: la finzione, nella sua accezione più generale, copre il dissimularsi e l'escogitare finzioni utili quali i concetti scientifici, ed è in ogni caso legata alla paura, alla insicurezza, alla lotta per l'esistenza.

Socrate e la maschera
Ma la questione più interessante è cercare di capire come la decadenza si sia potuta produrre. Questo equivale a chiedersi come la libera plasticità della maschera dionisiaca si sia potuta irrigidire in forme contrapposte apollinee vero-falso, nella bugia e nel travestimento.
La storia della fine della tragedia greca, che Nietzsche ricostruisce facendo centro sulla figura di Socrate, rende conto dell'origine del significato dell'evento (la minuziosa riproduzione della realtà sulla scena del teatro greco, ha presupposto l'idea che essa sia un tutto ordinato razionalmente). Socrate è colui che rivendica per primo la possibilità di distinguere tra verità ed errore e in questo si incarna in qualche modo il processo della fissazione di vero e falso.

Storicamente il socratismo appare a Nietzsche legato al costruirsi di un sistema politico: Socrate infatti è strettamente legato allo sviluppo della supremazia ateniese; in assenza di questa sarebbe rimasto un anonimo sofista. L'ottimismo di Socrate si fondava sull'idea che il singolo fosse inserito entro un sistema razionale. Predicando che c'è un ordine razionale dell'essere e che il giusto non ha nulla da temere, Socrate fa coincidere la razionalità con la felicità. Ecco che quindi il razionalismo socratico si sviluppa sia come teoria sia come forza pratica di integrazione sociale.
La storia del razionalismo, cioè della nostra civiltà, appare a Nietzsche ricostruibile in termini di violenza: violenza dell'integrazione sociale, della fissazione dei ruoli, di regole logiche per stabilire cosa è vero e cosa è falso su basi assolutamente arbitrarie. L'uomo socratico paga il raggiungimento di una certa sicurezza esistenziale con l'inserimento dentro un ordine rigido che sfugge al suo controllo.
A questo punto le apparenze, nel loro contrapporsi alle pretese di un'unica verità, diventano il modo in cui esprimere liberamente la creatività dionisiaca.

L'arte e la maschera
L'arte ha assunto significato nella storia della nostra civiltà solo nella misura in cui si è fatta portatrice di contenuti religiosi
Non senza dolore si ammette che gli artisti di tutti i tempi hanno portato a celeste trasfigurazione proprio quelle idee che noi oggi riconosciamo come false: essi sono gli esaltatori degli errori religiosi e filosofici dell'umanità, e non sarebbero potuti esserlo senza la fede nell'assoluta verità di questi errori.(Colli Montinari, F. Nietzsche, Umano troppo umano, vol. I, pag. 220)
Attraverso il suo riferimento a prospettive metafisiche come quella del carattere apparente del mondo, e dell'esistenza di qualcosa di permanete nell'essere, l'arte opera in senso rassicurativo in modo analogo alla metafisica.
Ma c'è un genere di rassicurazione che è peculiare dell'arte: la sua capacità di rovesciamento del mondo di tensione che caratterizza la nostra vita. Rappresentando l'assurdo ci libera momentaneamente dalla costrizione del necessario.
Nel carattere effimero di questa consolazione risiede la contraddittorietà dell'arte nel mondo presente e la radice del suo tramonto, al pari della metafisica, della morale, della religione.
L'arte ne risulta però più avvantaggiata: nell'arte, più che nelle altre forme, si fa sentire la relativa autonomia del simbolico nella società della ratiosocratica.

Il tempo della maschera
Cento anni fa, proprio il 25 agosto 1900, sei settimane prima del suo cinquantaseiesimo compleanno, moriva Friedrich Nietzsche. Durante i precedenti due anni non aveva saputo nulla, sentito nulla, pensato nulla. Per quel che possiamo dire, non sapeva che la madre era morta né che egli si trovava a Weimar. Non sapeva di essere famoso, né che la sua fama poggiava sulla conferma di quasi tutto quello che aveva pensato. Quando morì, non sapeva di vivere da quasi otto mesi nel XX secolo, della cui prossima storia aveva previsto tanto e con tanta chiarezza: il secolo del “sorgere del nichilismo” e del crollo del vecchio ordinamento mondiale; la “classica età della guerra” e della “politica su larga scala” che avrebbe tratto le ultime conclusioni della “morte di Dio” e della scomparsa di ogni sanzione per la morale; l'età in cui la democratizzazione dell'Europa centrale avrebbe offerto un “involontario campo di cultura alla tirannia” e in cui gli insegnamenti di Hegel (“la marcia della storia”) e di Darwin (“la sopravvivenza dei più forti”) sarebbero diventati realtà pratiche e avrebbero ridotto gli individui ad “animali o automi”.
Il secolo in cui la volontà di potenza, non sublimata e non frenata dalle costrizioni che ancora si imponevano al XIX secolo, si sarebbe impadronita dovunque delle leve del potere, in cui “questo maledetto antisemitismo” avrebbe offerto l'occasione e il movente all'ultimo dei delitti nichilistici, e in cui la sua teoria che “un popolo dalla forte volontà di potenza, privato della soddisfazione esteriore, vorrà la propria distruzione piuttosto che non volere affatto” sarebbe stata dimostrata con terribile compiutezza dalla disperata e tremenda esperienza del Reich.
L'amico e “discepolo” Peter Gast, che l'anno precedente, insieme a Elisabeth, sorella di Nietzsche aveva dato inizio alla terza edizione Omnia delle opere del filosofo, tenne l'orazione funebre nel cimitero parrocchiale di Röchen dove Nietzsche veniva sepolto accanto al padre, e, visibilmente commosso, ma anche rivelando quanto poco avesse capito del suo “Maestro”, chiuse il suo indirizzo con queste parole: «Pace alle tue ceneri! Santo sia il tuo nome a tutte le generazioni future!». In Ecce Homo Nietzsche aveva scritto: «Ho una terribile paura: che un giorno mi chiameranno Santo». Aveva previsto anche questo.
Oggi, a un secolo dalla morte, di tutte le sue profezie vogliamo mettere a fuoco quella per cui Nietzsche è noto a tutti: l'annuncio della morte di Dio, del Dio cristiano naturalmente, per cui la morte di Dio significa la fine del Cristianesimo come religione dell'Occidente. Ci accompagna in questa lettura un brevissimo e bellissimo testo di Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di Nietzsche (Il Melangolo, pagg. 80, lire 15.000) dove si discute il convincimento di Nietzsche secondo il quale il Cristianesimo è nato ed è morto anche se la sua agonia è durata duemila anni, quando i discepoli di Gesù non hanno perdonato i suoi nemici.
L'argomentazione di questa tesi (che troviamo nell'Anticristo, opera scritta lo stesso anno, 1889, in cui Nietzsche cadde nella buia notte della follia), prende le mosse dalla convinzione che per il Cristianesimo: «É in sé completamente indifferente il fatto che una cosa sia vera o no, ma è estremamente importante, invece, fino a che punto sia creduta. Così ad esempio, se è insita una felicità nei credenti redenti dal peccato, come premessa di ciò, non è necessario che l'uomo sia peccatore, ma che si senta peccatore» (Anticristo, pag. 191 dell'edizione Adelphi). In questo modo il Cristianesimo ha sostituito la verità con la fede che qualcosa sia vero.
Anzi alla ricerca della verità ha posto un “divieto”, e ha sostituito questa, che è la più autentica delle virtù, con le virtù teologali: fede, speranza e carità, che sono tre “accorgimenti” a cui il Cristianesimo è ricorso per distogliere l' uomo dalla ricerca della verità, e poterlo così “signoreggiare, addomesticare, dominare”.
Fu così che il Cristianesimo sostituì alla “lotta contro il dolore”, che ritroviamo in ogni religione della natura, la “lotta contro il peccato”, concepibile solo di fronte a una legge. Ma dov'è l'origine della legge se non nella casta sacerdotale che la promulga e riesce a imporla?
All'inizio non c'era legge nella religione ebraica i cui tratti essenziali erano quelli tipici di ogni religione, dove sono codificati i precetti che regolano il rapporto originario dell'uomo con la natura: «Il culto divino era, nell'antichità ebraica, natura, era il vertice della vita, e chiarirne l'altezza e la profondità costituiva il suo significato autentico» (pagina 193).
Poi, a seguito della cattività in Babilonia, questa religione andò incontro a un processo di “denaturalizzazione (denaturierung)” e il concetto di dio passò “nelle mani di agitatori sacerdotali” che ne fecero uno strumento di potere sui loro fedeli. Nel Deuteronomio, infatti, emerge la legge, e alle nozioni naturali di causa ed effetto subentrarono le nozioni antinaturali di premio e castigo che facevano riferimento non più «alle condizioni di vita e di sviluppo di un popolo, ma a quell'unica condizione che si oppone alla vita che è la nozione di peccato» (pagina 197). A questo punto i peccati, "che sono caratteristici appigli per l'esercizio del potere, diventano indispensabili. Il prete vive di peccati, per lui è necessario che si pecchi. Principio supremo: dio perdona chi fa penitenza - o più chiaramente chi si sottomette al prete - (pagine 198-199). Contro questa impostazione dell'ordine religioso muove la sua azione Gesù, che per Nietzsche non è il “Cristo della fede”, ma il “Gesù storico”, che i Vangeli presentano come il ribelle che si oppone «a tutto ciò che era ecclesiastico e teologico», una sorta di “santo anarchico”, un “delinquente politico” condannato perciò a subire “per colpa sua” la condanna della croce.
Alla “negazione della dottrina ecclesiastica ebraica” Gesù affianca l'annuncio della buona novella a cui mancano sia la nozione di colpa che quella di castigo; il peccato come segno di distanza tra l'uomo e dio è eliminato, mentre la beatitudine, che scaturisce dall'innocenza infantile, diventa pratica di vita: «La vita di Gesù non è stata nient'altro che questa pratica di vita - anche la sua morte non fu altro. Egli sa che solo con la pratica di vita ci si poteva sentire “divini”, “beati”, “evangelici”, “figli di dio” in qualsiasi momento. Non la penitenza, non la preghiera per il perdono sono le vie che conducono a dio, soltanto la pratica evangelica porta a dio, essa appunto è “dio”. Ciò che fu liquidato con l'Evangelo fu l'ebraismo delle nozioni di “peccato”, “remissione dei peccati”, “fede”, “redenzione mediante la fede”, l'intera dottrina ecclesiastica ebraica era negata nella “buona novella”» (pagina 208).
Ma, prosegue Nietzsche: il Vangelo morì sulla croce. Ciò che da quel momento è chiamato “buona novella” o “vangelo” era già l'antitesi di quel che lui aveva vissuto: una “cattiva novella” un Dysangelium (pagina 214). Come ha potuto accadere questa metamorfosi che trasformò la pratica di vita di Gesù in una nuova chiesa in tutto simile alla chiesa dell'ebraismo? Accadde, a parere di Nietzsche, ad opera dei discepoli di Gesù che «non perdonarono quella morte - il che sarebbe stato evangelico nel più alto senso; e al perdono subentrò il sentimento meno evangelico, la vendetta. Questa si tradusse nell'innalzare Gesù in una maniera aberrante, di distaccarlo da loro, proprio allo stesso modo con cui una volta gli ebrei, per vendicarsi dei loro nemici, avevano separato da sé il loro Dio e lo avevano portato in alto. Il Dio unico e il figlio unico di Dio: entrambi prodotti del risentimento» (pagine 217-218).
L'artefice massimo di questa trasformazione del messaggio originario di Gesù fu Paolo: «Questo genio dell'odio che, nella visione dell'odio e nella spietata logica dell'odio ereditato dall'istinto sacerdotale ebraico, trasformò la “buona novella” nella peggiore fra tutte. Per questo falsificò la storia di Israele affinché apparisse come la preistoria della sua azione: tutti i profeti hanno parlato del suo “redentore”. Poi la chiesa falsificò la storia dell'umanità facendone la preistoria del Cristianesimo» (pagine 219-220). Come ogni sacerdote, Paolo aspirava alla potenza e, per ottenerla, si servì della menzogna: «Quel che lui stesso non credeva, gli idioti, tra cui egli gettò la sua dottrina, lo credettero; così riuscì a realizzare la tirannia dei sacerdoti, per formare delle mandrie: la fede nell'immortalità - vale a dire la dottrina del “giudizio”» (pagina 220).
Oggi, alla luce della morte di Dio, scrive Nietzsche: è indecoroso essere cristiani; un teologo, un prete, il papa, non soltanto errano, ma mentono in ogni frase che proferiscono; anche il prete sa che Dio non esiste, che non c'è nessun peccatore, nessun “redentore”, perciò, recita l'ultima pagina dell'Anticristo: «Sono giunto alla conclusione ed esprimo il mio giudizio. Io condanno il cristianesimo, levo contro la chiesa cristiana la più tremenda di tutte le accuse che siano mai state sulla lingua di un accusatore. Essa è per me la massima di tutte le corruzioni immaginabili; essa ha avuto la volontà dell'estrema corruzione possibile. La chiesa cristiana non lasciò nulla di intatto nel suo pervertimento, essa ha fatto di ogni valore un disvalore, di ogni verità una menzogna, di ogni onestà un'abiezione dell'anima. Computiamo il tempo di quel dies nefastus con cui ebbe inizio questa fatalità - dal primo giorno del cristianesimo! E perché non invece dal suo ultimo giorno? - da oggi? Trasvalutazione di tutti i valori» (pagine 260-261).
Qui il riferimento di Nietzsche non è solo ai valori cristiani, ma anche ai valori metafisici che, inaugurati dal platonismo, per duemila anni hanno dominato la cultura dell'Occidente. Lo scetticismo radicale che erode le fondamenta metafisiche e cristiane della cultura occidentale, a parere di Nietzsche, va portato fino in fondo, affinché l'umanità futura sappia creare un “nuovo Dio” che Nietzsche indica in Dioniso, contrapposto non più ad Apollo, come nell'antica Grecia, ma al Crocefisso. Quindi un Dio della natura e della gioia di vivere, nei limiti che la natura concede, contro il Dio della trascendenza e della glorificazione della sofferenza che abita quel “mondo dietro il mondo” che Platone da un lato e il cristianesimo dall'altro hanno inaugurato.

Ma “la menzogna bimillenaria”, come la chiama Nietzsche, è ormai alla fine. E la sua fine coinciderà con la fine di un tipo d' uomo, quello cresciuto sui valori cristiani, che attende di essere superato da un nuovo tipo d' uomo, capace di liberare tutte le possibili risorse umane finora trattenute sotto il giogo di chi aveva la pretesa di parlare in nome di Dio. Con questo messaggio si è chiusa la vita di Nietzsche e con essa la sua filosofia dell'avvenire con l'indicazione profetica della laicizzazione dell'Occidente che il XX secolo ha registrato come tratto tipico della sua fisionomia.

(2008)

Charles Darwin: Opere in sintesi. Ripasso alla bignami per verifiche ed esami






OPERE IN SINTESI

Ripasso alla Bignami per esami

Charles Robert Darwin (Shrewsbury 1809-Down, Kent, 1882) biologo e naturalista inglese. L'origine della specie attraverso la selezione naturale, ovvero il mantenimento delle razze favorite nella lotta per l’esistenza (Ingl. On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in The Struggle for Life); PE Londra 1859. Opera principale del fondatore dell’evoluzionismo.

La teoria evolutiva è incentrata sui concetti di selezione naturale e di lotta per l’esistenza. La lotta fra gli individui è scatenata dall'eccessivo aumento della popolazione e dalla conseguente scarsità di risorse disponibili. Le possibilità di sopravvivenza di un soggetto dipendono dalli propria capacità di adattamento alle condizioni ambientali. Gli individui che meglio sapranno adattare i propri caratteri all'evoluzione ambientale trasmetteranno questi caratteri ai propri discendenti (selezione naturale). Darwin ricava i fondamenti empirici dell'evoluzione dagli ambiti fino a quel momento scarsamente indagati della paleontologia, della biogeografia, della morfologia e dell'embriologia.
La pubblicazione dell'opera susciterà enormi polemiche da parte degli scienziati tradizionalisti e dei teologi, per i quali la negazione della fissità delle specie comporterebbe sia l'abbandono delle tesi creazionistiche della tradizione biblica sia l'abolizione della fede nella presenza di un disegno divino della natura.



Il Barocco e la musica - Manuale Tellus Scolastico a cura di Claudio Di scalzo







Claudio Di Scalzo

Il Manuale Tellus Scolastico (Transmoderno) riguardo ai grandi periodi della cultura occidentale opera delle sintesi e propone delle cornici divulgative ed insieme rigorose, senza però dimenticare la vocazione alla narrazione che ogni buon manuale ieri su carta e oggi sul web deve avere. 



IL BAROCCO E LA MUSICA

Breve introduzione
Il Barocco è un’esperienza europea che nasce e si afferma evolvendosi contemporaneamente nelle principali culture continentali, imprimendo i suoi connotati, anche se con sfumature e intensità diverse, a tradizioni storicamente e geograficamente molto lontane, dalla Spagna alla Germania, dall’Italia all’Inghilterra, dalle Fiandre all’Est. È un dato di testimonianza che evidenzia l’omogeneità dei motivi di fondo da cui è scaturito questo modo di percepire e rappresentare la realtà.
Il Barocco vive di un’esperienza onnicomprensiva, nel significato che interessa non soltanto la letteratura, ma le arti, la musica, il costume e la mentalità.
Il Barocco ha la caratteristica dell’ufficialità, assurge, cioè, come la forma di cultura più vicina agli interessi del potere costituito, e contemporaneamente rappresenta anche l’esaltazione dell’anticonformismo e della trasgressione (ed è proprio in questa esagerazione che sta il motivo maggiore del suo fascino).
Il limite maggiore del Barocco fu quello di volere a tutti i costi stupire e meravigliare, ricorrendo a un formalismo esasperato e ad immagini inusitate (il cosiddetto concettismo), oppure affrontando gli argomenti più improbabili, singolari e bizzarri con un risultato che molto spesso, riduce l’arte barocca ad uno sfoggio di bravura fine a se stessa e non di rado indisponente per il suo fondo esibizionistico e vacuo. E se le arti figurative e la letteratura uscendo dall’esperienza del Manierismo cinquecentesco avevano già la nuova tendenza intrisa in esse, la musica invece, che non aveva alle spalle alcuna grande tradizione, trovò nell’età barocca il suo vero atto di nascita.

Musica del barocco
Normalmente questa età viene contraddistinta da queste due date: il 1600, con la nascita del melodramma, ed il 1750, data della morte di J.S. Bach. Si nota, in questa epoca, una unità di fondo tra la musica rinascimentale e quella barocca, ma verso la fine del XVI secolo si evidenzia un cambiamento di stile significativo: lo si può vedere confrontando alcune delle ultime opere di Palestrina con quelle più mature di Monteverdi, in cui si nota una forte influenza dell'Umanesimo.
La dottrina umanistica, per i compositori del XVI sec., portava al dominio del testo verbale su quello musicale, mentre fino ad allora la musica aveva avuto il sopravvento. La parola, come elemento che meglio esprimeva l'individualità umana, era di primaria importanza nella visione umanistica, per cui era vietato soffocarla con la musica. Per soddisfare questa necessità i compositori dell'epoca adottarono uno stile consistente in una sola linea melodica, con un accompagnamento armonico, mentre per rafforzare i concetti espressi nel testo venivano usati metodi diversi.
Anche in questi secoli i compositori dipendevano dalle corti o dal clero, come nel passato: bisognerà attendere il periodo del Romanticismo per poter assistere alla cessazione di questa dipendenza. Ai compositori dunque si chiedeva musica adatta alle occasioni, su commissione: per esempio l'Orfeo fu commissionato a Monteverdi per il carnevale di Mantova, mentre Bach componeva le cantate sacre per il servizio domenicale nella cattedrale di San Tommaso. Peraltro la composizione su "ordine" non escluse la nascita di capolavori come la Passione secondo Matteo o il Magnificat, proprio di J.S. Bach.

Forme e tecniche del Barocco
Caratteristico del periodo è l'uso di un accorgimento particolare nella notazione, quello cioé del Basso continuo, di solito riservato agli strumenti a tastiera: si trattava di una linea di basso, con sopra segnate delle cifre per indicare le armonie richieste, e venne usato fin dagli inizi dell'opera per recitativi ed arie.
Il primo teatro d'opera pubblico a pagamento fu aperto a Venezia nel 1637. Da questo primo evento risultò chiaramente che l'aria dominava sul recitativo, in quanto maggiormente melodica e quindi più adatta ad un pubblico normalmente poco preparato in campo musicale: cosa più rimarchevole, nacque allora il culto del solista, tuttora duraturo. I cantanti di allora erano invitati a sfoggiare la loro bravura ed agilità, impegnandosi in arie ricche di virtuosismi e prodezze tecniche: questi principi erano molto rispettati, a partire da Monteverdi per arrivare a Haendel.
Stessa cosa valse per la musica strumentale: questo aspetto della musica si trasportò al di fuori dell'opera, portando modelli come l'"allegro - adagio - allegro" tipico delle ouvertures di opere come quelle di Scarlatti nel concerto grosso: la stessa struttura del ritornello, con i passaggi vocali interrotti da frasi puramente strumentali, fu adottata in opere strumentali.
Un'altra caratteristica, già presente nel XVI secolo, fu quella dello stile concertato in cui strumenti solisti o gruppi contrastavano con l'orchestra: questo stile venne usato per molte musiche, compresa quella sacra.
Un merito dell'epoca barocca fu il maggior studio delle capacità espressive degli strumenti, che così non risultarono più intercambiabili facilmente tra loro e permisero di raggiungere risultati di maggior livello rispetto ai tempi precedenti. Già all'inizio del XVII secolo la monodia (canto ad una sola voce) prevalse; la polifonia si sviluppò ulteriormente, portando agli alti livelli del contrappunto strumentale mostrati dalle fughe di Bach. Nel processo di semplificazione attraversato, inizia la codificazione moderna del concetto di tonalità: gli otto modi precedenti, nel 1700, vennero del tutto sostituiti dai due modi (maggiore e minore) conosciuti nella musica occidentale.
Infine, le forme strumentali più affermate del periodo furono la suite e la sonata. La suite era una selezione di danze, solitamente presentata nelle quattro parti di allemanda, corrente, sarabanda e giga: di solito queste erano in una stessa tonalità, in cui ogni danza presentava due parti, delle quali la prima modulava in una tonalità vicina, la seconda tornava invece alla tonalità iniziale, il tutto poi veniva ripetuto due volte.
La sonata inizialmente era simile alla suite, poi se ne differenziò, consistendo semplicemente in uno, al massimo due movimenti. Più tardi si definirono due tipi di sonata da camera (basata su movimenti di danza) e sonata da chiesa, dal contenuto solenne.

La Musica barocca e la religione
La Musica del periodo barocco è intimamente legata alle evoluzioni ed involuzioni creative che videro protagonisti la Riforma luterana prima e la Controriforma cattolica dopo. Nell’elaborazione della sua proposta, Martin Lutero rivalutava la posizione individuale e indipendente del soggetto nel suo rapporto con Dio, con le istituzioni della Chiesa, con le Sacre Scritture. Di fatto egli escludeva la centralità e il ruolo intermedio del clero, che fino ad allora (ci troviamo nella prima metà del 1500) aveva tenuto, nel rapporto con i credenti, una posizione di evidente vantaggio economico e culturale. Lutero sostiene la necessità di una lettura individuale della Bibbia e favorisce per questa ragione l’incremento dell’alfabetizzazione di massa e a carattere popolare, gratuita e obbligatoria. Lutero auspica lo sviluppo dell’attività filologica e l’incremento della circolazione del libro in quanto strumento indispensabile a quella che egli definiva una ‘autoliberazione’ della coscienza, l’affermazione di un pensiero libero e svincolato da quelle paure che proprio nella Chiesa cattolicasubordinavano lo spirito critico all’obbedienza assoluta.
La Chiesa, che sembrava inizialmente ignorare le teorie luterane, cominciò, dopo l’affissione sul portale della cattedrale di Wittenberg delle “95 tesi”, la sua controffensiva: il Concilio di Trento (1545-1563) servì a deliberare e poi ad applicare in concreto le iniziative che diedero vita alla Controriforma.
Tra le più disparate iniziative che la Controriforma diede origine è la ‘rinascita’ delle arti in genere e la Musica, è una delle forme artistiche che laChiesa adoperò per sostenere la sua causa controriformista, con l’intenzione di suscitare ed esaltare nell’intimo dei credenti cattolici – con lo stupore e la magnificenza delle note che riecheggiavano nelle immense volte delle Cappelle ecclesiastiche – una soggezione spirituale intenta a sostenere le ragioni morali e spirituali del credo cattolico.

Musica sacra a Roma e a Venezia
La musica del XVII secolo fu caratterizzata da uno scambio intenso d’influssi stilistici fra le varie nazioni d’Europa, dove lo stile italiano predominò sempre più nel teatro musicale e nella musica strumentale. Oltre a questo il periodo seicentesco s’identifica anche con l’affermarsi del “sistema tonale” e con l’uso specifico del “basso continuo”. Senza però allargare troppo i nostri confini, vorrei attirare l’attenzione soprattutto sulla prima metà del Seicento musicale sacro in Italia, con esclusivo riferimento ai due centri più importanti della cultura musicale sacra di quel periodo: Roma e Venezia. La scuola romana e quella veneziana continuarono a celebrare la tradizionale musica liturgica che si era stabilita sullo scorcio del Cinquecento, secondo le rispettive “scuole” del Palestrina e dei Gabrieli. Musiche interpretate esclusivamente, secondo la tradizione dell’epoca, da quegli “angeli del canto” che erano i castrati (e/o dal coro di voci bianche dei fanciulli).
A Roma la figura simbolica di Palestrina contribuì, non poco, a far considerare la polifonia a voci sole come a un “patrimonio” locale della più alta gerarchia ecclesiastica (anche se più tardi, non mancò ad arrivare l’influsso della scuola veneziana con lo stile concertato dei Gabrieli, in quei maestri che si sentivano gli eredi autentici dello stile palestriniano come Orazio Benevoli ed Ercole Bernabei, dei quali fecero epoca le loro messe) e dove la Cappella Sistina, con a capo il Papa, era il fulcro della tradizionale musica “antica”.
A Venezia, invece, la figura emblematica di Monteverdi e la sua musica liturgica rispecchiarono lo stile concertato dei Gabrieli, con strumenti tanto nei mottetti quanto nei salmi e nelle messe.

Il Cantore della Chiesa
La Musica del periodo barocco, è anche strettamente legata alle nuove evoluzioni nel campo musicale che diedero origine all’uso specifico del ‘basso continuo’ e alla monodia. Questa nuova espressione di pensare e fare musica si sviluppò sullo scorcio del Cinquecento e per tutto il ‘600, diede vita ad una vera e propria rivoluzione, portando alla ribalta l’aria. Il significato del termine “aria” è indivisibilmente legato al canto monodico che si sviluppò col tramonto della polifonia e la gloria del solista vocale.
La Chiesa, sempre attenta alle forme di espressione più vicine a Dio, non tardò molto a capire il valore della musica monodica nel divulgare i valori evangelici e la nuova figura del ‘cantore’ solista, fu uno strumento di comunicazione di massa.
Il cantore della Chiesa è fortemente legato all’espressione musicale sacra di tutto il periodo barocco (1600-1750). Alla donna era proibito sin dal 1588 calcare le scene teatrali in tutto lo Stato Pontificio e il cantore, molto presto, divenne il ’simbolo’ del nuovo linguaggio musicale sacro cattolico. Il cantore si distingueva in due categorie: sopranista e contraltista. Due vocalità dallo stesso registro vocale della donna che segnarono un’epoca: l’Epoca d’Oro dei castrati.
Il cantore dell’epoca barocca fin dal suo impiego professionale nella Cappella Pontificia e poi in tutte le chiese,ma ancor prima del tempo di Papa Sisto V (il Papa che proibì alle donne l’esibizione pubblica, 1588) ha rappresentato, con il suo canto e la sua vocalità, il linguaggio evangelico universale racchiuso nella musica sacra di grandi compositori quali Giacomo Carissimi, per esempio, elevando il messaggio cristiano ad altissime e forti sensazioni nelle alte sfere delle emozioni intime dell’uomo, che facevano vibrare l’anima nel suo profondo.
Il cantore, uno degli ultimi Alessandro Moreschi è scomparso nel primo ventennio del ‘900, è una figura lontana dall’immaginario collettivo, da troppo tempo dimenticata e così legata all’esecuzione di musica da chiesa, ma non solo, da farne quasi l’unica ragione per cui si scrivesse musica nel periodo che stiamo esaminando fino alla comparsa sulla scena europea del Romanticismo, che decretò la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra.

Il castrato e la donna sulla scena teatrale
Di fronte a un caso come quello dei cantori evirati – che la storia musicale sembra averci tramandato come fenomeno di costume – si rimane affascinati dal mistero di quelle voci: né di uomo, né di donna e né di bambino. Voci che sembrano avere (secondo le cronache dell’epoca, Riflessioni pratiche sul canto figurato, G.B. Mancini, 1777) qualcosa di ‘soprannaturale’.
Una nota distintiva di tutta l’epoca barocca fu proprio la presenza, nei teatri di prosa e lirici di tutta Europa ma non solo, degli evirati cantori. Questi ultimi, inizialmente, cantavano prevalentemente nelle Cappelle ecclesiastiche dopo che il veto di Papa Sisto V (1588), come già sottolineato, proibì l’esibizione pubblica alla donna in tutto lo Stato della Chiesa. I fedeli che assistevano alla messa, rapiti dallo stupore e dalla meraviglia che il canto dell’ evirato destava nell’animo, facendosi sempre più numerosi alle funzioni liturgiche davano vita, molto spesso, a veri e propri deliri di massa (pensate ai concerti dei moderni cantautori o al tifo nello stadio per una partita di pallone). Da qui il loro passo sulle scene teatrali fu breve.
La donna, che tranne nello Stato Pontificio si esibiva in tutti i teatri di prosa e lirici europei, si trovò ben presto di fronte un forte rivale sulla scena teatrale, l’evirato. Il castrato aveva la “presunzione” non solo di subentrare nei panni della protagonista femminile di un’opera o credere di rappresentare un’alternativa alla vocalità femminile e maschile, ma aveva anche l’ardire di effigiarsi del titolo di ‘primo virtuoso del canto’ (da qui nacquero tante storie di rivalità tra il castrato e la prima donna), volendo relegare così il ruolo di cantatrice a secondo e terzo ordine.
È fuor di dubbio che l’immagine del castrato è soprattutto legata all’esecuzione di musica da chiesa, la quale è stata sempre pensata - almeno per quanto riguarda il cattolicesimo - in funzione della vocalità dell’eunuco e comunque, per una figura maschile (pensiamo ai cori greco-bizantini e ai cori gregoriani, per esempio). Solo più tardi, con il Motu Proprio de Musica Sacra di Pio X (1903) la donna sarà ammessa al canto liturgico, da prima solo sul sagrato e poi nel presbiterio.

Due stili a confronto
Due stili a confronto è la conflittualità di due vocalità e due stili di canto che hanno caratterizzato due distinte epoche musicali: quella barocca prima e quella romantica dopo. L’esecuzione del canto nel periodo barocco, che era caratterizzato dalla stilizzazione dei sentimenti, da un virtuosismo fine a se stesso, dall’improvvisazione dell’ornamentazione (lasciata all’arbitrio dei cantanti) e dalla perfezione estetica nella cura della ‘forma’ musicale, venne a decadere con lo sviluppo, l’evoluzione di una nuova maniera di cantare: il canto “romantico” (più drammatico ed espressivo) che segnò la fine della ragion d’essere dei castrati e del loro modo di cantare, per una rinnovata schiera di ‘prime donne’ sulla scena lirica.
L’avvento del Romanticismo spazzò via, dalla scena operistica, storie e leggende mitologiche, eroi ed eroine del mondo antico, volendo dare spazio così, per un forte desiderio di concretezza e per una maggiore realtà scenica, a storie vissute nella quotidianità borghese, plebea e militaresca (Rivoluzione francese 1789).
Nacquero in questo modo, solo per citarne alcune, opere immortali quali Il franco cacciatore di Weber (1821, prima opera romantica), Guglielmo Tell di Rossini (grànd – opéra, 1829) ; fino ad arrivare agli spiriti ottocenteschi di Verdi e di Wagner e a cavallo dei due secoli all’opera verista con Mascagni (Cavalleria rusticana, 1890), Puccini (La Bohème, 1896) e Cilea ( Adriana Lecouvreur, 1902).
Questa nuova rivoluzione del canto e della vocalità, da un timbro sempre più drammatico e potente, mosse i suoi primi passi con l’opera Orfeo ed Euridicedi Gluck (1762), passando poi attraverso Cherubini (Medea, 1797), al gluckiano Spontini (La Vestale, 1807), fino ad arrivare al ventennio 1820-’40, che i contemporanei considerarono come la fine di un epoca e l’inizio di un’altra.


LE TRE FASI DELLA MUSICA BAROCCA

Musica composta in Europa tra il 1600 e il 1750. Lo sviluppo del barocco può dividersi in tre fasi: primo, medio e alto barocco, ciascuna della durata approssimativa di un cinquantennio. L'inizio del barocco è contrassegnato da innovazioni stilistiche e tecniche che permisero la creazione del nuovo genere operistico, mentre nel periodo conclusivo iniziarono ad affiorare gli elementi del successivo stile classico. La definizione di musica barocca fu adottata dalla storiografia musicale nel secondo decennio del Novecento non più per definire, con una connotazione dispregiativa, una musica considerata eccessivamente esuberante, quanto per indicare un'epoca musicale.

- Il primo barocco
Il genere operistico fu sviluppato da un'associazione di letterati e musicisti di Firenze (la Camerata fiorentina) nell'ultimo decennio del Cinquecento. L'intento della Camerata era quello di rinnovare la potenza emotiva del dramma classico greco usando la musica per accrescere la potenzialità comunicativa della voce umana. La prima opera completa giunta sino a noi, Euridice (1600), di Jacopo Peri e Giulio Caccini, combinava la declamazione dei solisti con le danze villerecce di ninfe e pastori, fondendo la forza del dramma tragico con la contemporanea convenzione bucolica.
Per fornire i mezzi musicali necessari a uno stile vocale potente e flessibile era necessario sviluppare nuove forme e creare in particolare uno stile elevato di canto accompagnato o monodico. Ciò richiese dunque lo sviluppo di mezzi adeguati per accompagnare i solisti, e fu allora che si impose il basso continuo. L'accompagnamento del "basso figurato", che prevedeva l'improvvisazione di una determinata struttura di accordi, da comoda pratica esecutiva finì per modellare l'approccio alla composizione musicale per i successivi centocinquant'anni, stimolando un tipo di composizione a "motivo e basso" e la produzione di melodie sulla base di strutture principalmente armoniche.
Creata nel contesto degli sfarzosi e occasionali intrattenimenti di corte, l'opera richiedeva una messa in scena elaborata e impegnativa per l'impiego di un gran numero di esecutori. Un fattore importante per lo sviluppo del genere fu l'istituzione a Venezia, verso il 1630, sotto il patrocinio delle famiglie più facoltose della città, di teatri d'opera permanenti accessibili al grande pubblico.
Fu Claudio Monteverdi a fare dell'opera un genere artisticamente coerente, prima a Mantova con l'Orfeo (1607) e l'Arianna (1607, la cui musica è andata quasi interamente perduta), e poi soprattutto con le opere veneziane Il ritorno d'Ulisse in patria (1640) e L'incoronazione di Poppea (1642). La declamazione fortemente drammatica sostenuta da sorprendenti effetti orchestrali (lo stile definito "concitato") si ritrova anche nella scena drammatica Il combattimento di Tancredi e Clorinda (1624).
Oltre alla creazione dell'opera, nell'ultimo decennio del Cinquecento si verificò un altro evento importante: la pubblicazione a Venezia nel 1597 delleSacrae Symphoniae strumentali di Giovanni Gabrieli, che presentavano folti organici divisi in gruppi tali da essere variamente combinati e contrapposti. Questo principio di orchestrazione, sul modello corale detto dei "cori spezzati", era la diretta conseguenza delle opportunità offerte dalle gallerie separate della basilica di San Marco, ma l'idea poté applicarsi più coerentemente alla distribuzione strumentale quando i compositori barocchi ebbero a disposizione un maggior numero di orchestrali. La Sonata pian e forte di Gabrieli segnò l'ingresso delle indicazioni dinamiche nella musica europea.

- Il medio barocco
Verso la metà del XVII secolo, in Francia, Jean-Baptiste Lully – espatriato italiano al seguito del duca di Guisa – sviluppò un nuovo genere di opera nella magniloquenza della corte francese. Mentre l'opera italiana aveva portato sempre più in primo piano il cantante solista, quella francese valorizzava gli elementi della danza (rifacendosi alla tradizione del balletto di corte), del coro e della spettacolarità degli effetti scenici. L'elegante stile melodico dei solisti, consono ai testi francesi, contrastava con il virtuosismo spinto della vocalità italiana. In entrambi i paesi, comunque, cresceva la distinzione tra i recitativi (episodi più colloquiali e veloci a cui era affidato lo sviluppo della trama) e le arie (che dovevano veicolare le tensioni e i sentimenti dei personaggi).
Fu in quest'epoca che si posero le basi dell'orchestra moderna. L'oboe e la tromba divennero strumenti da concerto, mentre gli archi conobbero un periodo di splendore, soprattutto in Italia, dove i grandi liutai cremonesi Amati, Stradivari e Guarneri fornirono adeguato materiale strumentale a compositori quali il veronese Giuseppe Torelli, l'emiliano Giovanni Battista Vitali (1632-1692) e la veneziana Barbara Strozzi (XVII secolo). Il concerto per orchestra d'archi e la sonata a tre per complesso da camera emersero tra i principali generi strumentali, ampliando i singoli movimenti delle precedenti analoghe composizioni. Il nuovo stile italiano si propagò rapidamente in tutta Europa. Amsterdam e poi Londra divennero importanti centri della stampa musicale e, grazie alla popolarità delle composizioni italiane, la terminologia musicale di questa lingua divenne patrimonio comune della cultura musicale dell'intero continente.
Alla fine del medio barocco, i caratteri propri di questo stile iniziarono ad avere un'ampia risonanza sul continente. Nel contrasto tra musica italiana e francese, i compositori che operavano in Germania e in Austria, come Georg Muffat e Johann Kusser, prediligevano lo stile francese, mentre gli stili vocali e orchestrali italiani influenzarono lo sviluppo della cantata da chiesa tedesca.
Risulterebbe difficile individuare in questo periodo uno stile specificamente "tedesco", ma la lingua del paese fornì un particolare modello di inflessioni alle parti vocali, e i corali, profondamente radicati nella cultura della Riforma, costituirono una caratteristica risorsa per i compositori tedeschi, sia nelle cantate da chiesa sia nella musica per organo. Con Heinrich Schütz, la Germania ebbe un compositore di altissimo livello nella prima metà del XVII secolo, ma la guerra dei Trent'anni provocò una battuta d'arresto nello sviluppo culturale del paese. Con la ripresa delle attività, le corti e le città tedesche istituirono loro teatri d'opera, idealmente di ispirazione italiana, ma che spesso attingevano a tradizioni esecutive di origine locale. Non era insolito che nella stessa opera alcuni personaggi cantassero in tedesco, mentre altri usassero l'italiano, o che i recitativi fossero nella lingua locale e le arie in italiano.
Le esigenze di partitura della musica italiana per archi fornivano uno schema per l'impiego dei musici di corte: ai solisti molto ben pagati – due violini, un violoncello o una viola da gamba (sovente italiani o francesi) e un Kapellmeister o Konzertmeister che poteva essere un clavicembalista o un primo violino – si affiancavano orchestrali molto più modesti. Tale struttura corrispondeva all'emergere del principio musicale italiano del concerto grosso per orchestra d'archi, nel quale il "concertino" dei solisti si contrapponeva all'insieme dell'orchestra che costituiva l'accompagnamento. Questo contrasto fece la sua prima apparizione nell'accompagnamento orchestrale dell'oratorioSan Giovanni Battista (1675) di Alessandro Stradella. Il genere dell'oratorio si sviluppò in Italia nel XVII secolo parallelamente all'opera, usando le stesse tecniche e gli stessi stili musicali per la presentazione di episodi della storia sacra, ma senza le risorse della messinscena teatrale.
Un altro genere collegato all'opera fu la cantata da camera, che rispecchiava le caratteristiche musicali dell'opera italiana e francese. Alcune di esse erano vere e proprie scene operistiche in miniatura, mentre altre erano essenzialmente orchestrazioni di testi poetici.
Il maggior compositore del medio barocco è l'inglese Henry Purcell. All'inizio del secolo, gli sviluppi musicali italiani avevano incontrato una forte resistenza in Inghilterra, soprattutto nella musica da camera, che aveva privilegiato le fantasie contrappuntistiche rinascimentali per insiemi di viole, e il canto per voce sola accompagnata dal liuto. Purcell realizzò la fusione tra la tradizione inglese e le più recenti mode europee, dapprima con inni e odi per la corte e poi, nel 1683, con la pubblicazione di una serie di sonate a tre "a imitazione dei più famosi maestri italiani". In realtà, Purcell aggiungeva di suo una grande maestria contrappuntistica e un sistema armonico che conservava un trattamento della dissonanza molto distante dal modello italiano. Pochi anni prima, Purcell aveva scritto alcuni pezzi per viola nel vecchio genere della fantasia.

Il tardo barocco
Nel primo decennio del Settecento, le guerre continentali sospinsero in Gran Bretagna alcuni tra i migliori strumentisti d'Europa; la loro presenza fu uno dei fattori che permise la creazione della grande orchestra, destinata ad accompagnare la compagnia d'opera italiana che proprio in quel periodo si stava insediando a Londra. Ormai la musica italiana aveva compiuto altri passi verso uno stile ancora più ampio e grandioso, tanto nella produzione operistica quanto in quella strumentale.
Con Alessandro Scarlatti e Giovanni Bononcini, l'opera italiana aveva sviluppato una grandiosità espressiva adeguata al virtuosismo di una nuova generazione di cantanti-attori. Il Settecento avrebbe avuto, tra i castrati, divi come Nicolini, Senesino e Farinelli, e controparti di pari talento tra le voci femminili (tranne nella Roma papale, dove alle donne era vietato calcare le scene e i ruoli femminili erano interpretati da uomini). Sempre nel XVIII secolo il libretto per l'"opera seria" italiana fu portato a un alto livello di qualità poetica da Pietro Metastasio, attivo in Italia e alla corte imperiale di Vienna.
Nella musica strumentale, la fama di violinista, direttore e compositore di Arcangelo Corelli si diffuse rapidamente in tutta Europa nell'ultimo ventennio del Seicento; basti pensare che i suoi Concerti grossi (come l'Op. 6) erano celebri ben prima che venissero pubblicati nel 1714, anno successivo alla sua morte. Tuttavia, nella loro struttura in più movimenti e nello stile armonico ricercato essi risultavano essere in un certo senso antiquati: il gusto allora all'avanguardia preferiva i vivaci concerti in tre movimenti di Antonio Vivaldi, l'anticonvenzionale "prete rosso", virtuoso di violino e autore, oltre che di concerti, di musica operistica e da chiesa. Ciononostante, le sonate e i concerti corelliani segnarono una tappa importante nello sviluppo dello stile musicale. Nelle sue composizioni, la tonalità aveva definitivamente rimpiazzato la varietà dei modi e i sistemi armonici modali caratteristici della musica rinascimentale. Altri compositori del tardo barocco, tuttavia, conservarono l'uso occasionale di pratiche modali più antiche, utilizzate in contrasto con il prevalente sistema armonico di scale maggiori e minori.
Il tardo barocco vide anche importanti progressi nella musica per strumenti a tastiera. La tradizione francese della musica per clavicembalo, elegante e assai ornata, raggiunse l'apice nelle opere di François Couperin, il cui primo libro di Ordres (suite) fu pubblicato nel 1713. Le suite di Couperin erano composizioni in più movimenti che affiancavano pezzi "di carattere" alla danza; i compositori tedeschi e inglesi autori di suite in stile francese adottarono per lo più una struttura con quattro tipi di danze: alemanna, sarabanda, corrente e giga.
La produzione dei clavicembali fiorì nel periodo barocco grazie ai fabbricanti fiammingo-olandesi, tedeschi, francesi e italiani. Il pianoforte, inventato quasi per caso da uno dei principali fabbricanti italiani nel tardo Seicento, acquistò una sua autonomia artistica solo un secolo dopo. Il clavicembalo e l'organo erano i principali strumenti a tastiera del periodo, ma anche il clavicordo venne spesso utilizzato come strumento da camera e da studio, soprattutto in Germania.
Nelle mani di costruttori quali Schnifger, Smith o Silbermann, l'organo raggiunse il culmine del suo sviluppo nel medio e alto barocco: i differenti gusti tonali rappresentati da questi e dai fabbricanti di organi francesi trovano riscontro nella musica per organo di compositori come Dietrich Buxtehude, William Croft, Johann Pachelbel e Louis Marchand. La forma binaria in un solo movimento della sonata per clavicembalo fu sviluppata da Domenico Scarlatti, figlio di Alessandro, il quale trascorse gli anni della maturità al servizio della corte spagnola.
Il tardo barocco è dominato anche da due altri compositori nati entrambi nel 1685, Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel. Tra i contemporanei, raggiunsero entrambi la fama come esecutori, ma per noi la loro importanza è legata alla loro opera di compositori. Entrambi diedero contributi fondamentali a tutti i generi più importanti del periodo, e la loro musica è un compendio di tutte le tendenze stilistiche del tardo barocco. Nelle cantate da chiesa e nelle passioni, Bach immise nello stile vocale italiano la solennità tedesca, e le sue suite per tastiere mostrano una contaminazione altrettanto efficace con lo stile francese. Pur lavorando chiaramente all'interno della tradizione del basso continuo, l'interesse di Bach per le possibilità intellettuali ed emotive della fuga e dell'imitazione diede alla musica del tardo barocco una dimensione che le mancava. Händel era attirato principalmente dall'opera italiana: fu questo genere che lo portò dalla nativa Germania prima in Italia e poi a Londra. Fu nella città inglese che, dopo aver prodotto alcune tra le opere più notevoli del tardo barocco, si dedicò a sviluppare un nuovo tipo di oratorio inglese, destinato all'esecuzione teatrale. Questo sviluppo, impostogli in una certa misura dai mutamenti nel gusto musicale londinese, gli offrì l'opportunità di unire la sua perizia di autore di arie a un energico stile corale che già aveva adottato nella musica da chiesa.
Bach morì nel 1750 e la carriera creativa di Händel cessò praticamente al sopraggiungere della cecità, dopo il completamento dell'oratorio Jefta, nel 1751. Una singolare coincidenza metteva fine, esattamente a metà del secolo, al grande periodo barocco. Nella produzione successiva di Händel si trovano alcune anticipazioni del nuovo linguaggio melodico e armonico che avrebbe caratterizzato il periodo successivo, quello dello stile classico.





Stefan Zweig: Hugo Von Hofmannsthal







Stefan Zweig

 Hugo Von Hofmannsthal

L'apparizione del giovane Hofmannsthal è, e tuttora rimane, memorabile quale uno dei grandi miracoli di precoce compiutezza; nella letteratura mondiale non conosco, all'infuori di Keats e di Rimbaud, alcun esempio di pari impeccabilità nel dominio della lingua, né altra simile vastità di slancio ideale, né tale compenetrazione della sostanza poetica sin nell'ultima riga come in questo genio grandioso, il quale già a sedici e diciassette anni si è iscritto negli eterni annali della lingua tedesca con versi incancellabili e con una prosa tuttora insuperata.
I suoi inizi improvvisi e la sua già compiuta perfezione segnarono un fenomeno che a mala pena si ripete nell'ambito di una generazione. Tutti quelli che per primi ne ebbero notizia, si sono perciò stupiti dell'inverosimiglianza di quel fenomeno come di un evento soprannaturale. Spesso Bahr mi narrò lo stupore da lui provato ricevendo per la sua rivista, e proprio da Vienna, il saggio di uno sconosciuto «Loris» (ogni pubblicazione col proprio nome era vietata a uno scolaro liceale) giacché non aveva mai incontrato fra le collaborazioni di ogni parte del mondo un lavoro dove, con linguaggio nobilmente ispirato, si prodigasse con mano leggera tale ricchezza di pensiero.
Si domandò chi potesse mai essere lo sconosciuto «Loris». Certo un vecchio che ha filtrato in silenzio per anni e anni le proprie cognizioni e che, in misteriosa clausura, ha coltivato con magia quasi voluttuosa le più sublimi essenze del linguaggio. E tale savio, tale geniale poeta, viveva nella sua stessa città senza che mai ne fosse giunta notizia! Bahr scrisse senz'altro allo sconosciuto fissando un incontro in un caffè, nel celebre caffè Griensteidl, quartier generale dei giovani letterati. D'un tratto si avanza a passi rapidi al suo tavolino uno studentello esile e ancora sbarbato, coi calzoni corti, si inchina e dice con una voce ancora in formazione, con tono conciso e deciso: «Hofmannsthal. Sono io Loris!». Ancora a distanza di anni, ogni volta che Bahr ripeteva il racconto del suo stupore, era colto da eccitazione. A tutta prima non volle credere. Un liceale capace di un'arte simile, di tanta ampiezza e profondità di vedute, di così sovrana conoscenza della vita prima di viverla?
Quasi le stesse cose mi riferiva Schnitzler. Questi faceva allora ancora il medico, giacché i primi successi letterari non sembravano garantire la sicurezza dell'esistenza, ma era già considerato il capo della «giovane Vienna» e a lui si rivolgevano volentieri i più giovani per averne giudizio e consiglio. Aveva conosciuto per caso lo studente alto e snello presso conoscenti e l'aveva notato per la sua pronta intelligenza, così che quando il ragazzo gli chiese di leggergli una breve opera teatrale in versi, volentieri lo invitò nel suo appartamentino da scapolo, senza peraltro nutrire grandi speranze. Pensava che avrebbe udito uno dei soliti componimenti teatrali da studente, sentimentale o pseudoclassico. Invitò alcuni amici; Hofmannsthal si presentò in calzoni corti, un po' nervoso e intimidito, e incominciò a leggere. «Dopo alcuni minuti», mi narrava Schnitzler, «ci facemmo attenti e cominciammo a scambiarci sguardi stupiti, quasi atterriti. Non avevamo mai udito da un vivente versi di tale perfezione, di tale plasticità impeccabile, di tale fluidità musicale; anzi dopo Goethe non li avevamo quasi ritenuti possibili. Ma ancor più mirabile di questa maestria della forma, unica e non più raggiunta da alcuno nella lingua tedesca, era la conoscenza del mondo, la quale in un ragazzo che passava la giornata sui banchi di scuola non poteva venire che da una magica intuizione».
Quando Hofmanosthal finì, tutti rimasero muti. «Io», mi disse Schnitzler, «avevo la sensazione di avere incontrato per la prima volta un genio nato e mai in tutta la mia vita l'ho sentito così fortemente». Chi a sedici anni cominciava così - o meglio non cominciava ma appariva già perfetto all'inizio - doveva diventare un fratello di Goethe e di Shakespeare. E in realtà la perfezione parve sempre più perfezionarsi dopo quel primo lavoro in versi,Ieri, segua il grandioso frammento «La morte Tiziano» nel quale la lingua tedesca si elevava ad armonia italiana. Vennero poi le poesie, ciascuna un avvertimento per noi, tanto che ancor oggi, dopo decenni, le so a memoria verso per verso; vennero i piccoli drammi e quei saggi che concentravano, nell'ambito mirabilmente misurato di non molte pagine, ricchezza di sapere, perfetta sensibilità artistica ampiezza di vedute.
Tutto quello che il giovane liceale scriveva era come cristallo, illuminato dall'interno, oscuro e ardente a un tempo. Il verso, la prosa si plasmavano nelle sue mani come profumata cera d'Imetto, per un miracolo irriproducibile, ogni sua opera aveva sempre la misura conveniente, mai una lacuna o una pletora; si sentiva che doveva essere misteriosamente guidato per quelle vie da una forza inconscia ed incomprensibile fino a terre non ancora calcate.
Quanto tale fenomeno affascinasse noi, che ci eravamo educati a misurare i valori artistici, non mi è facile far comprendere. Che cosa può toccare di più esaltante a una giovane generazione che l'avere accanto a sé, in carne e ossa, il poeta puro e sublime, colui che non si sapeva concepire se non con irraggiungibile sogno o visione, nelle forme leggendarie di Hölderlin, di Keats e di Leopardi?
Per questo rammento con tutta chiarezza il giorno in cui vidi per la prima volta Hofmannsthal in persona. Avevo sedici anni e poiché noi tenevamo dietro con cupida curiosità a tutto quello che il nostro mentore ideale faceva, fui molto eccitato scoprendo in un giornale la breve notizia di una sua conferenza intorno a Goethe al «Club Scientifico». Non riuscivamo a capire come mai un simile genio parlasse in così modesto ambiente nella nostra adorazione avremmo aspettato che anche la sala più vasta si affollasse se un Hofmannsthal accordava la sua presenza. Invece in tale occasione constatai una volta di più quanto noi piccoli studentelli precedessimo la critica ufficiale e il gran pubblico col nostro giudizio, col nostro giusto istinto per i valori perenni.
Nella sala piuttosto angusta erano convenuti centoventi ascoltatori o poco più, né sarebbe stato necessario che io nella mia impazienza arrivassi una mezz'ora in anticipo per assicurarmi un posto. Aspettammo un poco, poi d'un tratto un giovanotto esile, in sé poco notevole, attraversò i nostri posti per salire sul podio e cominciò a parlare senza alcuna preparazione, così che mancò il tempo di bene osservarlo. Hofmannsthal, coi baffetti morbidi appena accennati e la figura elastica, sembrava ancor più giovane di quanto mi fossi aspettato. Il volto, dal profilo deciso e dal colorito italianamente scuro, appariva teso e nervoso. A quest'impressione contribuiva l'inquietudine degli occhi scuri e vellutati, ma molto miopi; egli sembrò lanciarsi con un tuffo nel discorso, come un nuotatore nelle onde a lui familiari e quanto più procedeva, tanto più liberi divenivano i suoi gesti, più sicuro il suo atteggiamento.
Appena immerso nel mondo dell'intelletto (lo osservai più tardi anche spesso in colloqui privati) passava dall'iniziale timidezza a una meravigliosa e vibrante lievità, come accade all'artista ispirato. Solo alle prime frasi mi accorsi che la sua voce non era bella, spesso vicina al falsetto, con facili sbalzi, ma subito il discorso ci sollevò tanto in alto che non ci avvedemmo più né della voce, né quasi del volto. Parlava senza manoscritto, senza appunti, forse anche senza una preparazione esatta, ma dal magico senso della forma, in lui innato, ogni frase traeva una perfetta armonia si snodavano stupefacenti le antitesi più temerarie, per sciogliersi poi in formule limpide e pur sorprendenti.
Sentivamo che quanto ci veniva offerto non era che il dono casuale attinto da una ben maggiore pienezza e che egli, ispirato e sollevato in una sfera superiore, avrebbe potuto continuare a parlare così per ore e ore, senza impoverirsi e senza abbassare il proprio livello. Anche nei colloqui privati di anni posteriori ho sentito la magica forza di questo «inventore di canti sonori e di sprizzanti dialoghi», come di lui disse Stefan George.
Hofmannsthal era inquieto, nervoso, sensibilissimo ad ogni pressione atmosferica, spesso irritabile e di cattiv'umore nei rapporti privati, così che non era sempre facile avvicinarlo. Nel momento però in cui un problema lo interessava, pareva determinarsi un'accensione con un unico volo luminoso e ardente al pari di un razzo trascinava allora ogni discussione nella sfera a lui propria e a lui solo del tutto raggiungibile. Fuorché talvolta con Valéry, che pensava con più cristallina pacatezza, e con l'impetuoso Keyserling, non ho mai conosciuto colloqui di più alto livello che con lui. Tutto in quegli istanti di vera ispirazione era presente concretamente alla sua memoria demoniacamente vigile, ogni libro da lui letto, ogni quadro veduto, ogni paesaggio; una metafora si legava all'altra naturalmente, come due mani che si congiungono, nuove prospettive si ergevano al pari di quinte improvvisate dietro un orizzonte che era parso già chiuso. A quella conferenza per la prima volta e più tardi negli incontri personali ho veramente sentito in lui il flatus, il vivificante ed entusiasmante respiro dell'incommensurabile, non mai pienamente accessibile alla ragione.
In un certo senso Hofmannsthal non ha mai superato l'irripetibile prodigio che egli rappresentò fra i sedici e i ventiquattr'anni. Io non ammiro meno i suoi lavori della maturità, gli splendidi saggi, il frammento «Andreas», torso del romanzo forse piu bello in lingua tedesca, nonché singole parti dei suoi drammi; tuttavia man mano che più strettamente si legava al teatro e agli interessi del suo tempo, che più chiaramente prendeva coscienza e ambizione dei propri piani, si è perduta una parte di quella perfezione da sonnambulo, di quella purissima ispirazione delle opere dell'adolescenza, è svanita cosi anche un poco dell'estatica ebbrezza della nostra gioventù. Col magico senso proprio degli adolescenti, noi abbiamo presagito che quel miracolo della nostra gioventù sarebbe stato unico e senza ricorso nella nostra esistenza.

(da Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Oscar Mondadori, Milano 1979, pp. 44-48)