giovedì 5 marzo 2015

La Maschera e Friedrich Nietzsche - Letture a lato del Manuale Tellus Scolastico








LA MASCHERA E FRIEDRICH NIETZSCHE

(Letture a lato del Manuale Tellus Scolastico)

a cura di CDS

«Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio. (...) Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà».

La maschera è dunque un mezzo ambiguo, dietro il quale da un lato la verità ama nascondersi per salvaguardare la propria profondità; ma che dall'altro noi utilizziamo per non vedere la realtà, per sfuggire da essa.
Secondo Schopenhauer ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la soggettività della specie che impiega gli individui per il suo interesse che è poi quello della propria conservazione e riproduzione, e la soggettività dell'individuo che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti che altro non sono se non illusioni per vivere e non vedere che a cadenzare il ritmo della vita è l'immodificabile esigenza della specie.
Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi dalle parole “Io” e “inconscio”. Nell'inconscio è custodita la verità dell'esistenza, nell'Io e nella sua progettualità l'illusione concessa all'individuo per vivere. La psicoanalisi, quindi, strutturando il suo edificio sulla dialettica tra le due soggettività, è un evento del pensiero romantico.
La lezione fu accolta da Nietzsche che considera Schopenhauer suo “educatore” e da Freud che lo considera suo “precursore”.

L'assunto di Schopenhauer è che la “vita” e la “verità” non possono coesistere, perché se la verità della vita dell'individuo è nel suo essere strumento della conservazione della specie, l'individuo per vivere deve illudersi, indossando quella maschera che chiama “Io”, e quindi fuoriuscire dalla verità della sua vita.
In questa condizione Nietzsche scorge l'essenza del “tragico”.
Freud non conosce la “tragedia” perché, da clinico, guarda alla “salute”, alla salute dell'umanità media che la maschera della religione e di certa filosofia aveva già salvato prima di lui, sottraendola alla visione del tragico, in cui è custodita la "verità" dell'esistenza che rende la “vita” impossibile.
Dopo avere elencato le due grandi mortificazioni che l'umanità ha conosciuto nella sua storia: la prima «quando ha scoperto che la sua terra non è il centro dell'universo», la seconda «quando la ricerca biologica gli dimostrò la sua provenienza dal regno animale togliendogli la pretesa posizione di privilegio nell'universo», Freud enuncia la terza: «La più scottante mortificazione l'umanità è destinata a subirla da parte dell'odierna indagine psicologica, la quale ha l'intenzione di dimostrare all'Io che egli non è padrone in casa propria. Questo richiamo non siamo stati noi psicoanalisti né i primi né i soli a proporlo, ma sembra che tocchi a noi sostenerlo nel modo più energico e corroborarlo con materiale clinico».

Il riconoscimento di Freud tende ad abolire una distanza che rimane abissale, ricopre la verità con un'altra maschera, la maschera della guarigione e della salute per quanti non hanno il coraggio del tragico.
Nietzsche è più coerente con Schopenhauer, suo “educatore” di quanto non lo sia Freud che pure lo considera suo “precursore”, perché, gettando la maschera dell'illusione, che sola consente la vita, Nietzsche getta anche la verità:
«Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!»
Non c'è più storia e non c'è più sapere se non come liberazione di tutte le maschere, senza nessuna serietà, perché il tragico è stato visto nella sua essenza ineliminabile e non addolcito nella metafora della malattia da cui si può anche guarire. Con Schopenhauer il disincanto ormai è accaduto e con le maschere si può solo giocare. Freud, buon lettore di Schopenhauer, è stato cattivo lettore di Nietzsche:
«Nello sforzo di capire un filosofo - scrive Freud - ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi».
Simili sì, ma divaricanti. Infatti una volta assunta l'ipotesi schopenhaueriana restano due vie praticabili: o la “rinuncia” ad assecondare il gioco della natura, come vuole l'ascesi di Schopenhauer che, scoperto l'inganno, non vuole restare irretito nella sua trama, o l'“accettazione” del gioco della natura con conseguente liberazione di tutte le illusioni, di tutti gli inganni: in termini nietzscheani, come liberazione del dionisiaco, perché «tutto ciò che è profondo ama la maschera», e quindi: «Dammi ti prego una maschera ancora, una seconda maschera». Di fronte a queste due vie, Freud tenta l'ipotesi più ardita: la «scoperta delle regole del gioco», mentre per Nietzsche la via da seguire è l'accettazione delle regole della natura.
Ecco dunque che per Nietzsche la massima è: «Diventa ciò che sei». La libertà dell'oltreuomo è una ricchezza di possibilità diverse, da qui appunto la rinuncia ad ogni certezza assoluta e da qui anche la profondità tipica dell'oltreuomo, l’impossibilità di definire e giudicare la vita interiore, dalla quale non si attinge altro che la maschera.

Maschera e decadenza
Il concetto di maschera è uno dei fili conduttori del pensiero di Nietzsche, in quanto da questo concetto si sviluppano i temi essenziali della sua filosofia.
Il problema della maschera è il problema del rapporto tra essere e apparenza, tematica che il filosofo trova già elaborata nel pensiero diSchopenhauer: l'idea antihegeliana dell'impossibilità di una coincidenza tra essere e apparire è tema dominante nella concezione del mondo come volontà e rappresentazione.
Frutto dell'inevitabile divergenza tra essere e apparire è la maschera.
Confrontando diversi modelli di vita presente e passata Nietzsche vede la vita presente caratterizzata dalla decadenza, intesa non come mancanza di bellezza, ma come assenza di unità stilistica, assenza di coerenza tra forma e contenuto. Per questo ad un osservatore la forma non può apparire che come travestimento.
Il travestimento è qualcosa che non appartiene all'uomo naturalmente, ma che si assume deliberatamente in vista di qualche scopo: nell'uomo moderno questo travestimento viene assunto per combattere uno stato di paura e di debolezza. Tale paura ha radici specifiche nell'eccesso di cultura storica e nell'affermarsi del sapere scientifico: la finzione, nella sua accezione più generale, copre il dissimularsi e l'escogitare finzioni utili quali i concetti scientifici, ed è in ogni caso legata alla paura, alla insicurezza, alla lotta per l'esistenza.

Socrate e la maschera
Ma la questione più interessante è cercare di capire come la decadenza si sia potuta produrre. Questo equivale a chiedersi come la libera plasticità della maschera dionisiaca si sia potuta irrigidire in forme contrapposte apollinee vero-falso, nella bugia e nel travestimento.
La storia della fine della tragedia greca, che Nietzsche ricostruisce facendo centro sulla figura di Socrate, rende conto dell'origine del significato dell'evento (la minuziosa riproduzione della realtà sulla scena del teatro greco, ha presupposto l'idea che essa sia un tutto ordinato razionalmente). Socrate è colui che rivendica per primo la possibilità di distinguere tra verità ed errore e in questo si incarna in qualche modo il processo della fissazione di vero e falso.

Storicamente il socratismo appare a Nietzsche legato al costruirsi di un sistema politico: Socrate infatti è strettamente legato allo sviluppo della supremazia ateniese; in assenza di questa sarebbe rimasto un anonimo sofista. L'ottimismo di Socrate si fondava sull'idea che il singolo fosse inserito entro un sistema razionale. Predicando che c'è un ordine razionale dell'essere e che il giusto non ha nulla da temere, Socrate fa coincidere la razionalità con la felicità. Ecco che quindi il razionalismo socratico si sviluppa sia come teoria sia come forza pratica di integrazione sociale.
La storia del razionalismo, cioè della nostra civiltà, appare a Nietzsche ricostruibile in termini di violenza: violenza dell'integrazione sociale, della fissazione dei ruoli, di regole logiche per stabilire cosa è vero e cosa è falso su basi assolutamente arbitrarie. L'uomo socratico paga il raggiungimento di una certa sicurezza esistenziale con l'inserimento dentro un ordine rigido che sfugge al suo controllo.
A questo punto le apparenze, nel loro contrapporsi alle pretese di un'unica verità, diventano il modo in cui esprimere liberamente la creatività dionisiaca.

L'arte e la maschera
L'arte ha assunto significato nella storia della nostra civiltà solo nella misura in cui si è fatta portatrice di contenuti religiosi
Non senza dolore si ammette che gli artisti di tutti i tempi hanno portato a celeste trasfigurazione proprio quelle idee che noi oggi riconosciamo come false: essi sono gli esaltatori degli errori religiosi e filosofici dell'umanità, e non sarebbero potuti esserlo senza la fede nell'assoluta verità di questi errori.(Colli Montinari, F. Nietzsche, Umano troppo umano, vol. I, pag. 220)
Attraverso il suo riferimento a prospettive metafisiche come quella del carattere apparente del mondo, e dell'esistenza di qualcosa di permanete nell'essere, l'arte opera in senso rassicurativo in modo analogo alla metafisica.
Ma c'è un genere di rassicurazione che è peculiare dell'arte: la sua capacità di rovesciamento del mondo di tensione che caratterizza la nostra vita. Rappresentando l'assurdo ci libera momentaneamente dalla costrizione del necessario.
Nel carattere effimero di questa consolazione risiede la contraddittorietà dell'arte nel mondo presente e la radice del suo tramonto, al pari della metafisica, della morale, della religione.
L'arte ne risulta però più avvantaggiata: nell'arte, più che nelle altre forme, si fa sentire la relativa autonomia del simbolico nella società della ratiosocratica.

Il tempo della maschera
Cento anni fa, proprio il 25 agosto 1900, sei settimane prima del suo cinquantaseiesimo compleanno, moriva Friedrich Nietzsche. Durante i precedenti due anni non aveva saputo nulla, sentito nulla, pensato nulla. Per quel che possiamo dire, non sapeva che la madre era morta né che egli si trovava a Weimar. Non sapeva di essere famoso, né che la sua fama poggiava sulla conferma di quasi tutto quello che aveva pensato. Quando morì, non sapeva di vivere da quasi otto mesi nel XX secolo, della cui prossima storia aveva previsto tanto e con tanta chiarezza: il secolo del “sorgere del nichilismo” e del crollo del vecchio ordinamento mondiale; la “classica età della guerra” e della “politica su larga scala” che avrebbe tratto le ultime conclusioni della “morte di Dio” e della scomparsa di ogni sanzione per la morale; l'età in cui la democratizzazione dell'Europa centrale avrebbe offerto un “involontario campo di cultura alla tirannia” e in cui gli insegnamenti di Hegel (“la marcia della storia”) e di Darwin (“la sopravvivenza dei più forti”) sarebbero diventati realtà pratiche e avrebbero ridotto gli individui ad “animali o automi”.
Il secolo in cui la volontà di potenza, non sublimata e non frenata dalle costrizioni che ancora si imponevano al XIX secolo, si sarebbe impadronita dovunque delle leve del potere, in cui “questo maledetto antisemitismo” avrebbe offerto l'occasione e il movente all'ultimo dei delitti nichilistici, e in cui la sua teoria che “un popolo dalla forte volontà di potenza, privato della soddisfazione esteriore, vorrà la propria distruzione piuttosto che non volere affatto” sarebbe stata dimostrata con terribile compiutezza dalla disperata e tremenda esperienza del Reich.
L'amico e “discepolo” Peter Gast, che l'anno precedente, insieme a Elisabeth, sorella di Nietzsche aveva dato inizio alla terza edizione Omnia delle opere del filosofo, tenne l'orazione funebre nel cimitero parrocchiale di Röchen dove Nietzsche veniva sepolto accanto al padre, e, visibilmente commosso, ma anche rivelando quanto poco avesse capito del suo “Maestro”, chiuse il suo indirizzo con queste parole: «Pace alle tue ceneri! Santo sia il tuo nome a tutte le generazioni future!». In Ecce Homo Nietzsche aveva scritto: «Ho una terribile paura: che un giorno mi chiameranno Santo». Aveva previsto anche questo.
Oggi, a un secolo dalla morte, di tutte le sue profezie vogliamo mettere a fuoco quella per cui Nietzsche è noto a tutti: l'annuncio della morte di Dio, del Dio cristiano naturalmente, per cui la morte di Dio significa la fine del Cristianesimo come religione dell'Occidente. Ci accompagna in questa lettura un brevissimo e bellissimo testo di Carlo Angelino, Il “terribile segreto” di Nietzsche (Il Melangolo, pagg. 80, lire 15.000) dove si discute il convincimento di Nietzsche secondo il quale il Cristianesimo è nato ed è morto anche se la sua agonia è durata duemila anni, quando i discepoli di Gesù non hanno perdonato i suoi nemici.
L'argomentazione di questa tesi (che troviamo nell'Anticristo, opera scritta lo stesso anno, 1889, in cui Nietzsche cadde nella buia notte della follia), prende le mosse dalla convinzione che per il Cristianesimo: «É in sé completamente indifferente il fatto che una cosa sia vera o no, ma è estremamente importante, invece, fino a che punto sia creduta. Così ad esempio, se è insita una felicità nei credenti redenti dal peccato, come premessa di ciò, non è necessario che l'uomo sia peccatore, ma che si senta peccatore» (Anticristo, pag. 191 dell'edizione Adelphi). In questo modo il Cristianesimo ha sostituito la verità con la fede che qualcosa sia vero.
Anzi alla ricerca della verità ha posto un “divieto”, e ha sostituito questa, che è la più autentica delle virtù, con le virtù teologali: fede, speranza e carità, che sono tre “accorgimenti” a cui il Cristianesimo è ricorso per distogliere l' uomo dalla ricerca della verità, e poterlo così “signoreggiare, addomesticare, dominare”.
Fu così che il Cristianesimo sostituì alla “lotta contro il dolore”, che ritroviamo in ogni religione della natura, la “lotta contro il peccato”, concepibile solo di fronte a una legge. Ma dov'è l'origine della legge se non nella casta sacerdotale che la promulga e riesce a imporla?
All'inizio non c'era legge nella religione ebraica i cui tratti essenziali erano quelli tipici di ogni religione, dove sono codificati i precetti che regolano il rapporto originario dell'uomo con la natura: «Il culto divino era, nell'antichità ebraica, natura, era il vertice della vita, e chiarirne l'altezza e la profondità costituiva il suo significato autentico» (pagina 193).
Poi, a seguito della cattività in Babilonia, questa religione andò incontro a un processo di “denaturalizzazione (denaturierung)” e il concetto di dio passò “nelle mani di agitatori sacerdotali” che ne fecero uno strumento di potere sui loro fedeli. Nel Deuteronomio, infatti, emerge la legge, e alle nozioni naturali di causa ed effetto subentrarono le nozioni antinaturali di premio e castigo che facevano riferimento non più «alle condizioni di vita e di sviluppo di un popolo, ma a quell'unica condizione che si oppone alla vita che è la nozione di peccato» (pagina 197). A questo punto i peccati, "che sono caratteristici appigli per l'esercizio del potere, diventano indispensabili. Il prete vive di peccati, per lui è necessario che si pecchi. Principio supremo: dio perdona chi fa penitenza - o più chiaramente chi si sottomette al prete - (pagine 198-199). Contro questa impostazione dell'ordine religioso muove la sua azione Gesù, che per Nietzsche non è il “Cristo della fede”, ma il “Gesù storico”, che i Vangeli presentano come il ribelle che si oppone «a tutto ciò che era ecclesiastico e teologico», una sorta di “santo anarchico”, un “delinquente politico” condannato perciò a subire “per colpa sua” la condanna della croce.
Alla “negazione della dottrina ecclesiastica ebraica” Gesù affianca l'annuncio della buona novella a cui mancano sia la nozione di colpa che quella di castigo; il peccato come segno di distanza tra l'uomo e dio è eliminato, mentre la beatitudine, che scaturisce dall'innocenza infantile, diventa pratica di vita: «La vita di Gesù non è stata nient'altro che questa pratica di vita - anche la sua morte non fu altro. Egli sa che solo con la pratica di vita ci si poteva sentire “divini”, “beati”, “evangelici”, “figli di dio” in qualsiasi momento. Non la penitenza, non la preghiera per il perdono sono le vie che conducono a dio, soltanto la pratica evangelica porta a dio, essa appunto è “dio”. Ciò che fu liquidato con l'Evangelo fu l'ebraismo delle nozioni di “peccato”, “remissione dei peccati”, “fede”, “redenzione mediante la fede”, l'intera dottrina ecclesiastica ebraica era negata nella “buona novella”» (pagina 208).
Ma, prosegue Nietzsche: il Vangelo morì sulla croce. Ciò che da quel momento è chiamato “buona novella” o “vangelo” era già l'antitesi di quel che lui aveva vissuto: una “cattiva novella” un Dysangelium (pagina 214). Come ha potuto accadere questa metamorfosi che trasformò la pratica di vita di Gesù in una nuova chiesa in tutto simile alla chiesa dell'ebraismo? Accadde, a parere di Nietzsche, ad opera dei discepoli di Gesù che «non perdonarono quella morte - il che sarebbe stato evangelico nel più alto senso; e al perdono subentrò il sentimento meno evangelico, la vendetta. Questa si tradusse nell'innalzare Gesù in una maniera aberrante, di distaccarlo da loro, proprio allo stesso modo con cui una volta gli ebrei, per vendicarsi dei loro nemici, avevano separato da sé il loro Dio e lo avevano portato in alto. Il Dio unico e il figlio unico di Dio: entrambi prodotti del risentimento» (pagine 217-218).
L'artefice massimo di questa trasformazione del messaggio originario di Gesù fu Paolo: «Questo genio dell'odio che, nella visione dell'odio e nella spietata logica dell'odio ereditato dall'istinto sacerdotale ebraico, trasformò la “buona novella” nella peggiore fra tutte. Per questo falsificò la storia di Israele affinché apparisse come la preistoria della sua azione: tutti i profeti hanno parlato del suo “redentore”. Poi la chiesa falsificò la storia dell'umanità facendone la preistoria del Cristianesimo» (pagine 219-220). Come ogni sacerdote, Paolo aspirava alla potenza e, per ottenerla, si servì della menzogna: «Quel che lui stesso non credeva, gli idioti, tra cui egli gettò la sua dottrina, lo credettero; così riuscì a realizzare la tirannia dei sacerdoti, per formare delle mandrie: la fede nell'immortalità - vale a dire la dottrina del “giudizio”» (pagina 220).
Oggi, alla luce della morte di Dio, scrive Nietzsche: è indecoroso essere cristiani; un teologo, un prete, il papa, non soltanto errano, ma mentono in ogni frase che proferiscono; anche il prete sa che Dio non esiste, che non c'è nessun peccatore, nessun “redentore”, perciò, recita l'ultima pagina dell'Anticristo: «Sono giunto alla conclusione ed esprimo il mio giudizio. Io condanno il cristianesimo, levo contro la chiesa cristiana la più tremenda di tutte le accuse che siano mai state sulla lingua di un accusatore. Essa è per me la massima di tutte le corruzioni immaginabili; essa ha avuto la volontà dell'estrema corruzione possibile. La chiesa cristiana non lasciò nulla di intatto nel suo pervertimento, essa ha fatto di ogni valore un disvalore, di ogni verità una menzogna, di ogni onestà un'abiezione dell'anima. Computiamo il tempo di quel dies nefastus con cui ebbe inizio questa fatalità - dal primo giorno del cristianesimo! E perché non invece dal suo ultimo giorno? - da oggi? Trasvalutazione di tutti i valori» (pagine 260-261).
Qui il riferimento di Nietzsche non è solo ai valori cristiani, ma anche ai valori metafisici che, inaugurati dal platonismo, per duemila anni hanno dominato la cultura dell'Occidente. Lo scetticismo radicale che erode le fondamenta metafisiche e cristiane della cultura occidentale, a parere di Nietzsche, va portato fino in fondo, affinché l'umanità futura sappia creare un “nuovo Dio” che Nietzsche indica in Dioniso, contrapposto non più ad Apollo, come nell'antica Grecia, ma al Crocefisso. Quindi un Dio della natura e della gioia di vivere, nei limiti che la natura concede, contro il Dio della trascendenza e della glorificazione della sofferenza che abita quel “mondo dietro il mondo” che Platone da un lato e il cristianesimo dall'altro hanno inaugurato.

Ma “la menzogna bimillenaria”, come la chiama Nietzsche, è ormai alla fine. E la sua fine coinciderà con la fine di un tipo d' uomo, quello cresciuto sui valori cristiani, che attende di essere superato da un nuovo tipo d' uomo, capace di liberare tutte le possibili risorse umane finora trattenute sotto il giogo di chi aveva la pretesa di parlare in nome di Dio. Con questo messaggio si è chiusa la vita di Nietzsche e con essa la sua filosofia dell'avvenire con l'indicazione profetica della laicizzazione dell'Occidente che il XX secolo ha registrato come tratto tipico della sua fisionomia.

(2008)

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