LA MASCHERA E FRIEDRICH NIETZSCHE
(Letture a lato del Manuale Tellus Scolastico)
a cura di CDS
«Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più
profonde hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio. (...) Ogni
spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni
spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente
falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni
segno di vita che egli dà».
La maschera è dunque un mezzo ambiguo, dietro il quale da un
lato la verità ama nascondersi per salvaguardare la propria profondità; ma
che dall'altro noi utilizziamo per non vedere la realtà, per sfuggire da essa.
Secondo Schopenhauer ciascuno di noi è abitato da
una doppia soggettività: la soggettività della specie che impiega gli individui
per il suo interesse che è poi quello della propria conservazione e
riproduzione, e la soggettività dell'individuo che si illude di disegnare un mondo
in base ai suoi progetti che altro non sono se non illusioni per vivere e non
vedere che a cadenzare il ritmo della vita è l'immodificabile esigenza della
specie.
Questa doppia soggettività viene codificata dalla
psicoanalisi dalle parole “Io” e “inconscio”. Nell'inconscio è custodita la
verità dell'esistenza, nell'Io e nella sua progettualità l'illusione concessa
all'individuo per vivere. La psicoanalisi, quindi, strutturando il suo edificio
sulla dialettica tra le due soggettività, è un evento del pensiero romantico.
La lezione fu accolta da Nietzsche che considera
Schopenhauer suo “educatore” e da Freud che lo considera suo
“precursore”.
L'assunto di Schopenhauer è che la “vita” e la “verità” non
possono coesistere, perché se la verità della vita dell'individuo è nel suo
essere strumento della conservazione della specie, l'individuo per vivere deve
illudersi, indossando quella maschera che chiama “Io”, e quindi fuoriuscire
dalla verità della sua vita.
In questa condizione Nietzsche scorge l'essenza del
“tragico”.
Freud non conosce la “tragedia” perché, da clinico, guarda
alla “salute”, alla salute dell'umanità media che la maschera della religione e
di certa filosofia aveva già salvato prima di lui, sottraendola alla visione
del tragico, in cui è custodita la "verità" dell'esistenza che rende
la “vita” impossibile.
Dopo avere elencato le due grandi mortificazioni che
l'umanità ha conosciuto nella sua storia: la prima «quando ha scoperto che
la sua terra non è il centro dell'universo», la seconda «quando la ricerca
biologica gli dimostrò la sua provenienza dal regno animale togliendogli la
pretesa posizione di privilegio nell'universo», Freud enuncia la terza: «La più
scottante mortificazione l'umanità è destinata a subirla da parte dell'odierna
indagine psicologica, la quale ha l'intenzione di dimostrare all'Io che egli
non è padrone in casa propria. Questo richiamo non siamo stati noi
psicoanalisti né i primi né i soli a proporlo, ma sembra che tocchi a noi
sostenerlo nel modo più energico e corroborarlo con materiale clinico».
Il riconoscimento di Freud tende ad abolire una distanza che
rimane abissale, ricopre la verità con un'altra maschera, la maschera della guarigione
e della salute per quanti non hanno il coraggio del tragico.
Nietzsche è più coerente con Schopenhauer, suo “educatore”
di quanto non lo sia Freud che pure lo considera suo “precursore”, perché,
gettando la maschera dell'illusione, che sola consente la vita, Nietzsche getta
anche la verità:
«Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è
rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche
quello apparente!»
Non c'è più storia e non c'è più sapere se non come liberazione
di tutte le maschere, senza nessuna serietà, perché il tragico è stato visto
nella sua essenza ineliminabile e non addolcito nella metafora della malattia
da cui si può anche guarire. Con Schopenhauer il disincanto ormai è accaduto e
con le maschere si può solo giocare. Freud, buon lettore di Schopenhauer, è
stato cattivo lettore di Nietzsche:
«Nello sforzo di capire un filosofo - scrive Freud -
ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e
sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo
studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui
concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi».
Simili sì, ma divaricanti. Infatti una volta assunta
l'ipotesi schopenhaueriana restano due vie praticabili: o la “rinuncia” ad
assecondare il gioco della natura, come vuole l'ascesi di Schopenhauer che,
scoperto l'inganno, non vuole restare irretito nella sua trama, o
l'“accettazione” del gioco della natura con conseguente liberazione di tutte le
illusioni, di tutti gli inganni: in termini nietzscheani, come liberazione del
dionisiaco, perché «tutto ciò che è profondo ama la maschera», e quindi: «Dammi
ti prego una maschera ancora, una seconda maschera». Di fronte a queste due
vie, Freud tenta l'ipotesi più ardita: la «scoperta delle regole del gioco»,
mentre per Nietzsche la via da seguire è l'accettazione delle regole della
natura.
Ecco dunque che per Nietzsche la massima è: «Diventa ciò che
sei». La libertà dell'oltreuomo è una ricchezza di possibilità diverse, da qui
appunto la rinuncia ad ogni certezza assoluta e da qui anche la profondità
tipica dell'oltreuomo, l’impossibilità di definire e giudicare la vita
interiore, dalla quale non si attinge altro che la maschera.
Maschera e decadenza
Il concetto di maschera è uno dei fili conduttori
del pensiero di Nietzsche, in quanto da questo concetto si sviluppano i temi
essenziali della sua filosofia.
Il problema della maschera è il problema del rapporto tra
essere e apparenza, tematica che il filosofo trova già elaborata nel pensiero
diSchopenhauer: l'idea antihegeliana dell'impossibilità di una coincidenza tra
essere e apparire è tema dominante nella concezione del mondo come volontà e
rappresentazione.
Frutto dell'inevitabile divergenza tra essere e apparire è
la maschera.
Confrontando diversi modelli di vita presente e passata
Nietzsche vede la vita presente caratterizzata dalla decadenza, intesa non
come mancanza di bellezza, ma come assenza di unità stilistica, assenza di
coerenza tra forma e contenuto. Per questo ad un osservatore la forma non può
apparire che come travestimento.
Il travestimento è qualcosa che non appartiene all'uomo
naturalmente, ma che si assume deliberatamente in vista di qualche scopo:
nell'uomo moderno questo travestimento viene assunto per combattere uno stato
di paura e di debolezza. Tale paura ha radici specifiche nell'eccesso di
cultura storica e nell'affermarsi del sapere scientifico: la finzione, nella
sua accezione più generale, copre il dissimularsi e l'escogitare finzioni utili
quali i concetti scientifici, ed è in ogni caso legata alla paura, alla
insicurezza, alla lotta per l'esistenza.
Socrate e la maschera
Ma la questione più interessante è cercare di capire come la
decadenza si sia potuta produrre. Questo equivale a chiedersi come la libera
plasticità della maschera dionisiaca si sia potuta irrigidire in forme
contrapposte apollinee vero-falso, nella bugia e nel travestimento.
La storia della fine della tragedia greca, che Nietzsche
ricostruisce facendo centro sulla figura di Socrate, rende conto dell'origine
del significato dell'evento (la minuziosa riproduzione della realtà sulla scena
del teatro greco, ha presupposto l'idea che essa sia un tutto ordinato
razionalmente). Socrate è colui che rivendica per primo la possibilità di
distinguere tra verità ed errore e in questo si incarna in qualche modo il
processo della fissazione di vero e falso.
Storicamente il socratismo appare a Nietzsche legato al
costruirsi di un sistema politico: Socrate infatti è strettamente legato allo
sviluppo della supremazia ateniese; in assenza di questa sarebbe rimasto un
anonimo sofista. L'ottimismo di Socrate si fondava sull'idea che il singolo
fosse inserito entro un sistema razionale. Predicando che c'è un ordine
razionale dell'essere e che il giusto non ha nulla da temere, Socrate fa
coincidere la razionalità con la felicità. Ecco che quindi il razionalismo socratico
si sviluppa sia come teoria sia come forza pratica di integrazione sociale.
La storia del razionalismo, cioè della nostra civiltà,
appare a Nietzsche ricostruibile in termini di violenza: violenza
dell'integrazione sociale, della fissazione dei ruoli, di regole logiche per
stabilire cosa è vero e cosa è falso su basi assolutamente arbitrarie. L'uomo
socratico paga il raggiungimento di una certa sicurezza esistenziale con
l'inserimento dentro un ordine rigido che sfugge al suo controllo.
A questo punto le apparenze, nel loro contrapporsi alle
pretese di un'unica verità, diventano il modo in cui esprimere liberamente la
creatività dionisiaca.
L'arte e la maschera
L'arte ha assunto significato nella storia della nostra
civiltà solo nella misura in cui si è fatta portatrice di contenuti religiosi
Non senza dolore si ammette che gli artisti di tutti i tempi
hanno portato a celeste trasfigurazione proprio quelle idee che noi oggi
riconosciamo come false: essi sono gli esaltatori degli errori religiosi e
filosofici dell'umanità, e non sarebbero potuti esserlo senza la fede
nell'assoluta verità di questi errori.(Colli Montinari, F. Nietzsche,
Umano troppo umano, vol. I, pag. 220)
Attraverso il suo riferimento a prospettive metafisiche come
quella del carattere apparente del mondo, e dell'esistenza di qualcosa di
permanete nell'essere, l'arte opera in senso rassicurativo in modo analogo alla
metafisica.
Ma c'è un genere di rassicurazione che è peculiare
dell'arte: la sua capacità di rovesciamento del mondo di tensione che
caratterizza la nostra vita. Rappresentando l'assurdo ci libera momentaneamente
dalla costrizione del necessario.
Nel carattere effimero di questa consolazione risiede la
contraddittorietà dell'arte nel mondo presente e la radice del suo tramonto, al
pari della metafisica, della morale, della religione.
L'arte ne risulta però più avvantaggiata: nell'arte, più che
nelle altre forme, si fa sentire la relativa autonomia del simbolico nella
società della ratiosocratica.
Il tempo della maschera
Cento anni fa, proprio il 25 agosto 1900, sei settimane
prima del suo cinquantaseiesimo compleanno, moriva Friedrich Nietzsche. Durante
i precedenti due anni non aveva saputo nulla, sentito nulla, pensato nulla. Per
quel che possiamo dire, non sapeva che la madre era morta né che egli si
trovava a Weimar. Non sapeva di essere famoso, né che la sua fama poggiava
sulla conferma di quasi tutto quello che aveva pensato. Quando morì, non sapeva
di vivere da quasi otto mesi nel XX secolo, della cui prossima storia aveva
previsto tanto e con tanta chiarezza: il secolo del “sorgere del nichilismo” e
del crollo del vecchio ordinamento mondiale; la “classica età della guerra” e
della “politica su larga scala” che avrebbe tratto le ultime conclusioni della
“morte di Dio” e della scomparsa di ogni sanzione per la morale; l'età in cui
la democratizzazione dell'Europa centrale avrebbe offerto un “involontario
campo di cultura alla tirannia” e in cui gli insegnamenti di Hegel (“la marcia
della storia”) e di Darwin (“la sopravvivenza dei più forti”) sarebbero
diventati realtà pratiche e avrebbero ridotto gli individui ad “animali o
automi”.
Il secolo in cui la volontà di potenza, non sublimata e non
frenata dalle costrizioni che ancora si imponevano al XIX secolo, si sarebbe impadronita
dovunque delle leve del potere, in cui “questo maledetto antisemitismo” avrebbe
offerto l'occasione e il movente all'ultimo dei delitti nichilistici, e in cui
la sua teoria che “un popolo dalla forte volontà di potenza, privato della
soddisfazione esteriore, vorrà la propria distruzione piuttosto che non volere
affatto” sarebbe stata dimostrata con terribile compiutezza dalla disperata e
tremenda esperienza del Reich.
L'amico e “discepolo” Peter Gast, che l'anno precedente,
insieme a Elisabeth, sorella di Nietzsche aveva dato inizio alla terza edizione
Omnia delle opere del filosofo, tenne l'orazione funebre nel cimitero
parrocchiale di Röchen dove Nietzsche veniva sepolto accanto al padre, e,
visibilmente commosso, ma anche rivelando quanto poco avesse capito del suo
“Maestro”, chiuse il suo indirizzo con queste parole: «Pace alle tue ceneri!
Santo sia il tuo nome a tutte le generazioni future!». In Ecce Homo Nietzsche
aveva scritto: «Ho una terribile paura: che un giorno mi chiameranno Santo». Aveva
previsto anche questo.
Oggi, a un secolo dalla morte, di tutte le sue profezie
vogliamo mettere a fuoco quella per cui Nietzsche è noto a tutti: l'annuncio
della morte di Dio, del Dio cristiano naturalmente, per cui la morte di Dio
significa la fine del Cristianesimo come religione dell'Occidente. Ci
accompagna in questa lettura un brevissimo e bellissimo testo di Carlo
Angelino, Il “terribile segreto” di Nietzsche (Il Melangolo, pagg.
80, lire 15.000) dove si discute il convincimento di Nietzsche secondo il quale
il Cristianesimo è nato ed è morto anche se la sua agonia è durata duemila
anni, quando i discepoli di Gesù non hanno perdonato i suoi nemici.
L'argomentazione di questa tesi (che troviamo
nell'Anticristo, opera scritta lo stesso anno, 1889, in cui Nietzsche cadde
nella buia notte della follia), prende le mosse dalla convinzione che per il
Cristianesimo: «É in sé completamente indifferente il fatto che una cosa sia
vera o no, ma è estremamente importante, invece, fino a che punto sia creduta.
Così ad esempio, se è insita una felicità nei credenti redenti dal peccato,
come premessa di ciò, non è necessario che l'uomo sia peccatore, ma che si
senta peccatore» (Anticristo, pag. 191 dell'edizione Adelphi). In questo modo
il Cristianesimo ha sostituito la verità con la fede che qualcosa sia vero.
Anzi alla ricerca della verità ha posto un “divieto”, e ha
sostituito questa, che è la più autentica delle virtù, con le virtù teologali:
fede, speranza e carità, che sono tre “accorgimenti” a cui il Cristianesimo è
ricorso per distogliere l' uomo dalla ricerca della verità, e poterlo così
“signoreggiare, addomesticare, dominare”.
Fu così che il Cristianesimo sostituì alla “lotta contro il
dolore”, che ritroviamo in ogni religione della natura, la “lotta contro il
peccato”, concepibile solo di fronte a una legge. Ma dov'è l'origine della
legge se non nella casta sacerdotale che la promulga e riesce a imporla?
All'inizio non c'era legge nella religione ebraica i cui
tratti essenziali erano quelli tipici di ogni religione, dove sono codificati i
precetti che regolano il rapporto originario dell'uomo con la natura: «Il culto
divino era, nell'antichità ebraica, natura, era il vertice della vita, e
chiarirne l'altezza e la profondità costituiva il suo significato autentico»
(pagina 193).
Poi, a seguito della cattività in Babilonia, questa
religione andò incontro a un processo di “denaturalizzazione (denaturierung)” e
il concetto di dio passò “nelle mani di agitatori sacerdotali” che ne fecero
uno strumento di potere sui loro fedeli. Nel Deuteronomio, infatti, emerge
la legge, e alle nozioni naturali di causa ed effetto subentrarono le nozioni
antinaturali di premio e castigo che facevano riferimento non più «alle
condizioni di vita e di sviluppo di un popolo, ma a quell'unica condizione che
si oppone alla vita che è la nozione di peccato» (pagina 197). A questo punto i
peccati, "che sono caratteristici appigli per l'esercizio del potere,
diventano indispensabili. Il prete vive di peccati, per lui è necessario che si
pecchi. Principio supremo: dio perdona chi fa penitenza - o più chiaramente chi
si sottomette al prete - (pagine 198-199). Contro questa impostazione
dell'ordine religioso muove la sua azione Gesù, che per Nietzsche non è il
“Cristo della fede”, ma il “Gesù storico”, che i Vangeli presentano come il
ribelle che si oppone «a tutto ciò che era ecclesiastico e teologico», una
sorta di “santo anarchico”, un “delinquente politico” condannato perciò a
subire “per colpa sua” la condanna della croce.
Alla “negazione della dottrina ecclesiastica ebraica” Gesù
affianca l'annuncio della buona novella a cui mancano sia la nozione di colpa
che quella di castigo; il peccato come segno di distanza tra l'uomo e dio è
eliminato, mentre la beatitudine, che scaturisce dall'innocenza infantile,
diventa pratica di vita: «La vita di Gesù non è stata nient'altro che questa
pratica di vita - anche la sua morte non fu altro. Egli sa che solo con la
pratica di vita ci si poteva sentire “divini”, “beati”, “evangelici”, “figli di
dio” in qualsiasi momento. Non la penitenza, non la preghiera per il perdono
sono le vie che conducono a dio, soltanto la pratica evangelica porta a dio,
essa appunto è “dio”. Ciò che fu liquidato con l'Evangelo fu l'ebraismo delle
nozioni di “peccato”, “remissione dei peccati”, “fede”, “redenzione mediante la
fede”, l'intera dottrina ecclesiastica ebraica era negata nella “buona
novella”» (pagina 208).
Ma, prosegue Nietzsche: il Vangelo morì sulla croce. Ciò che
da quel momento è chiamato “buona novella” o “vangelo” era già l'antitesi di
quel che lui aveva vissuto: una “cattiva novella” un Dysangelium (pagina
214). Come ha potuto accadere questa metamorfosi che trasformò la pratica di
vita di Gesù in una nuova chiesa in tutto simile alla chiesa dell'ebraismo?
Accadde, a parere di Nietzsche, ad opera dei discepoli di Gesù che «non
perdonarono quella morte - il che sarebbe stato evangelico nel più alto senso;
e al perdono subentrò il sentimento meno evangelico, la vendetta. Questa si
tradusse nell'innalzare Gesù in una maniera aberrante, di distaccarlo da loro,
proprio allo stesso modo con cui una volta gli ebrei, per vendicarsi dei loro
nemici, avevano separato da sé il loro Dio e lo avevano portato in alto. Il Dio
unico e il figlio unico di Dio: entrambi prodotti del risentimento» (pagine
217-218).
L'artefice massimo di questa trasformazione del messaggio
originario di Gesù fu Paolo: «Questo genio dell'odio che, nella visione
dell'odio e nella spietata logica dell'odio ereditato dall'istinto sacerdotale
ebraico, trasformò la “buona novella” nella peggiore fra tutte. Per questo
falsificò la storia di Israele affinché apparisse come la preistoria della sua
azione: tutti i profeti hanno parlato del suo “redentore”. Poi la chiesa
falsificò la storia dell'umanità facendone la preistoria del Cristianesimo»
(pagine 219-220). Come ogni sacerdote, Paolo aspirava alla potenza e, per
ottenerla, si servì della menzogna: «Quel che lui stesso non credeva, gli
idioti, tra cui egli gettò la sua dottrina, lo credettero; così riuscì a realizzare
la tirannia dei sacerdoti, per formare delle mandrie: la fede nell'immortalità
- vale a dire la dottrina del “giudizio”» (pagina 220).
Oggi, alla luce della morte di Dio, scrive Nietzsche: è
indecoroso essere cristiani; un teologo, un prete, il papa, non soltanto
errano, ma mentono in ogni frase che proferiscono; anche il prete sa che Dio
non esiste, che non c'è nessun peccatore, nessun “redentore”, perciò, recita
l'ultima pagina dell'Anticristo: «Sono giunto alla conclusione ed esprimo il
mio giudizio. Io condanno il cristianesimo, levo contro la chiesa cristiana la
più tremenda di tutte le accuse che siano mai state sulla lingua di un
accusatore. Essa è per me la massima di tutte le corruzioni immaginabili; essa
ha avuto la volontà dell'estrema corruzione possibile. La chiesa cristiana non
lasciò nulla di intatto nel suo pervertimento, essa ha fatto di ogni valore un
disvalore, di ogni verità una menzogna, di ogni onestà un'abiezione dell'anima.
Computiamo il tempo di quel dies nefastus con cui ebbe inizio questa fatalità -
dal primo giorno del cristianesimo! E perché non invece dal suo ultimo giorno?
- da oggi? Trasvalutazione di tutti i valori» (pagine 260-261).
Qui il riferimento di Nietzsche non è solo ai valori
cristiani, ma anche ai valori metafisici che, inaugurati dal platonismo, per
duemila anni hanno dominato la cultura dell'Occidente. Lo scetticismo radicale
che erode le fondamenta metafisiche e cristiane della cultura occidentale, a
parere di Nietzsche, va portato fino in fondo, affinché l'umanità futura sappia
creare un “nuovo Dio” che Nietzsche indica in Dioniso, contrapposto non più ad
Apollo, come nell'antica Grecia, ma al Crocefisso. Quindi un Dio della natura e
della gioia di vivere, nei limiti che la natura concede, contro il Dio della
trascendenza e della glorificazione della sofferenza che abita quel “mondo
dietro il mondo” che Platone da un lato e il cristianesimo dall'altro hanno
inaugurato.
Ma “la menzogna bimillenaria”, come la chiama Nietzsche, è
ormai alla fine. E la sua fine coinciderà con la fine di un tipo d' uomo,
quello cresciuto sui valori cristiani, che attende di essere superato da un
nuovo tipo d' uomo, capace di liberare tutte le possibili risorse umane finora
trattenute sotto il giogo di chi aveva la pretesa di parlare in nome di Dio.
Con questo messaggio si è chiusa la vita di Nietzsche e con essa la sua
filosofia dell'avvenire con l'indicazione profetica della laicizzazione dell'Occidente
che il XX secolo ha registrato come tratto tipico della sua fisionomia.
(2008)
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