venerdì 14 maggio 2010

Samuel Taylor Coleridge: Vita con scelta di aforismi e minima bibliografia




 

Samuel Taylor Coleridge (1772-1834). Figlio del vicario di Ottery St. Mary nel Devon, (Inghilterra) compie gli studi presso il Jesus College di Cambridge, dove conosce Robert Southey, col quale progetta la 'Pantisocracy', il modello ideale di società, inizialmente costituita da dodici donne e da dodici uomini, che avrebbero dovuto costruire negli Stati Uniti sulle rive del Susquehanna. Nel 1795 sposa invece Sara Fricker, sorella della moglie di Southey. I suoi primi versi poetici appaiono nel 1793 sul Morning Chronicle, mentre l'anno successivo viene pubblicato l'atto teatrale La caduta di Robespierre, scritto a quattro mani con lo stesso Southey. Nel 1795 inizia il sodalizio con Wordsworth con il quale trascorre un anno nel Somerset. Soggiorno durante il quale si aggiungono Sara Fricker e Dorothy, la sorella di Wordsworth. Nel 1796 fonda la rivista letteraria The Watchman, che tuttavia non arriva al decimo numero.

Nel 1797 compone la prima parte del Christabel e del Kubla Khan. Nel 1798 assieme a Wordsworth pubblica le Lyrical Ballads. Sulla rivoluzione francese nello stesso anno scrive France, an Ode. Dopo il soggiorno tedesco compiuto con Wordsworth nella stagione 1798-99 pubblica il Wallenstein, traduzione del Piccolomini e della Morte di Wallenstein di Schiller. Tra il 1800 e il 1804 risiede a Keswick, dove compone la seconda parte di Cristabel. Nei due anni successivi è in Italia e a Malta. Nel 1806, al ritorno in Inghilterra, soffre di problemi fisici a causa delle abituali assunzioni di oppio. Diviene conferenziere acuto ed estroso per il Royal Institute nel 1808 e l'anno seguente fonda un nuovo periodico, The Friend, settimanale etico-politico-letterario che apparirà in volume nel 1818. Su The Friend pubblica il racconto “The Three Graves”, scritto diversi anni prima. Gli ultimi venti anni della sua vita li trascorre ospite di amici, principalmente da John Morgan a Hammersmith e a Calne, presso James Gillman, a Highgate.

Nel 1817 pubblica la Biographia Literaria, opera filosofica incentrata sulla discussione dei temi kantiani, di Fichte e Schelling, della poetica di Wordsworth. Nel 1825 nel trattato filosofico Aids to Reflection argomenta la distinzione tra Understanding [comprensione] e Reason [ragione]. La prima è la facoltà per mezzo della quale l'uomo riflette e generalizza facendo leva sulle impressioni dei sensi che appartengo alla sfera del mondo naturale; la seconda è la facoltà che invece predetermina l'esperienza e appartiene alla sfera del mondo spirituale. Per conseguenza, mentre dalla prima deriva all'uomo la prudenza [Prudence] dalla seconda, più precisamente da Reason e Conscience, gli viene la moralità. La tendenza a farsi interprete e diffusore delle istanze filosofiche della scuola tedesca e, più in generale, della necessità per l'uomo di ritornare a una concezione della vita più spirituale emerge anche dalla raccolta di aforismi e riflessioni varie Anima Poetae, pubblicata nel 1895 sulla base degli appunti dal nipote E.H. Coleridge. Anche le lettere d'ispirazione religiosa Confessions of an Enquiring Spirit usciranno postume nel 1840 su interessamento del figlio.

da: Poeti Romantici Inglesi, Mondadori



AFORISMI DI COLERIDGE

I cigni cantano prima di morire; non sarebbe un brutto affare se certa gente morisse prima di cantare.

Il nano vede più lontano del gigante, quando può salire sulle spalle del gigante.

Nessun uomo è mai stato un grande poeta, senza essere stato allo stesso tempo un grande filosofo.

I difetti dei grandi autori non sono in genere che la loro grandezza portata all'eccesso.

Acqua, acqua ovunque. E non una goccia da bere.

Niente può piacere con continuità, che non contenga in se stesso la ragione perché esso deve essere così, e non altrimenti.

La fantasia non è altro che un aspetto della memoria svincolato dall'ordine del tempo e dello spazio.

I critici sono di solito persone che avrebbero voluto essere poeti, storici, biografi, hanno messo alla prova il loro talento, e non hanno avuto successo.

L'esperienza ci informa che la prima difesa degli spiriti deboli è recriminare.

Il peccato prediletto del demonio è l'orgoglio che scimmiotta l'umiltà.

La sincerità non consiste nel dire, ma nell'intenzione di comunicare la verità.

Un uomo che non possiede che massime è come un ciclope il cui unico occhio è posto dietro al capo.

Chi si vanta di aver conquistato una moltitudine di amici non ne ha mai avuto uno.

Il principio dell'architettura gotica è quello dell'infinito reso immaginabile.

L'arte, collettivamente pittura,scultura,architettura e musica, è la mediatrice e riconciliatrice di natura e uomo. È il potere di umanizzare la natura, di infondere i pensieri e le passioni dell'uomo in tutto ciò che è l'oggetto della sua contemplazione.

Ci sono tre classi in cui tutte le donne oltre i settanta sono sempre state divise: quella cara vecchietta, quella vecchia, quella vecchia strega.

Solo i saggi possiedono delle idee. La maggior parte dell'umanità ne è posseduta.

Ho visto dimostrare una grande intolleranza per difendere la tolleranza.

Il miglior medico è quello che con più abilità sa infondere la speranza.

Ciò che l'uomo desidera è una donna; ciò che desidera la donna è raramente qualcosa di diverso dal desiderio dell'uomo.

Che grazia inimitabile hanno i bambini prima di imparare a danzare!

Il Poeta deve avere l'orecchio di un arabo selvaggio che ascolta il silenzio del deserto, l'occhio di un indiano mentre segue le orme del nemico sulle foglie nei sentieri della foresta, e il tatto di un cieco che tocca il viso di un bambino amato.


IN LIBRERIA

La ballata del vecchio Marinaio e altre poesie. Tra i poems il 'Kubla Khan', 'The Dungeon', 'Epigram on Kepler' e altri venti poemi. Testo originale a fronte. Mondadori Editore.

Ballate Liriche, introdotte da un saggio di Thomas Eliot. Testo originale a fronte. Mondadori Editore.


NAVIGANDO IN INTERNET

The Samuel Taylor Coleridge Archive
La poesia, il pensiero politico, le riflessioni sulla scienza, sulla teologia, sulla psicologia dell'eclettico artista inglese
Progetto: Marjorie A. Tiefert, University of Virginia (United States)
Selected Poetry and Prose of Samuel Taylor Coleridge
Trentuno poemi e due componimenti in prosa
Progetto: University of Toronto (Canada)
The Rime of the Ancient Mariner
"I versi del vecchio marinaio" on line
Progetto: University of Virginia (United States)
S.T. Coleridge: an overview
Il quadro storico, le relazioni letterarie, la politica sociale ai tempi dell'artista
Progetto: George P. Landow (Uk), Professor of English and Digital Culture and Dean of the University Scholars Programme at the National University of Singapore



  

Vite intrecciate di Percy Shelley e Mary Godwin




Mary Shelley e Frankenstein



VITE INTRECCIATE
 
Londra 11 novembre 1812. Percy Shelley incontra per la prima volta Mary Godwin a casa del padre di lei. 1814, Percy è già tornato dall’Irlanda e si trasferisce a Bracknell. Si incontra spesso con la sedicenne Mary. E il 26 giugno, davanti alla tomba della madre di lei, si giurano eterno amore. I due ragazzi s'incontrano di nascosto, quando il 28 luglio decidono di partire senza dire nulla ai genitori. Insieme a loro due si unisce Jane Claire, la sorella di Mary. Dal due all'otto agosto visitano Paris, proseguono per la Svizzera, attraversando dei territori fino a qualche settimana prima sconvolti dalla guerra: "Villaggi e villaggi interamente devastati e bruciati; le bianche rovine torreggianti si ergono in innumerevoli forme fra alberi splendidi. Gli abitanti sono ridotti alla fame, niente da mangiare, né un alloggio decente; sporcizia, miseria e carestia ovunque" (lettera di Percy ad Harriet Westbrook del 13 agosto 1814). Viaggiano continuamente, quasi senza sosta, fermandosi per un attimo a Brunnen, sul lago di Lucerna, dove Shelley inizia il romanzo The assassins che abbandonerà presto. Il 27 agosto iniziano il viaggio di ritorno via fiume. Risalgono il Reno fino a Rotterdam dove l'otto settembre s'imbarcano per l'Inghilterra, dove arriveranno il 13 dello stesso mese. I tre vanno a vivere insieme in 5 Church Terrace, Pancras. Mary tenta di ricontattare Isabel ma David Booth le impedisce di avvicinarla. Dal 23 ottobre al 9 novembre Shelley è costretto a nascondersi dai suoi creditori. In questo periodo vivono separati, fino al 9 novembre, quando i tre ragazzi, ormai inseparabili, si trasferiscono nei Blackfriars, 2 Nelson Square. Il 14 novembre Thomas Hogg, che Shelley aveva conosciuto all'università di Oxford, è in visita all'amico, rimanendo affascinato da Mary. Intanto Harriet, che scrive a Shelley quasi tutti i giorni, partorisce Charles (30 novembre), nato dall'unione con Percy.

1815
Forse conseguenza dell'ebbrezza della festa dell'ultimo dell'anno, Hogg, con il consenso di Shelley, dichiara il suo amore alla diciasettenne Mary, anch'essa affascinata dall'amico del fidanzato. Ma sono soltanto giochi di adolescenti alle prime esperienze amorose, che si lasciano guidare dall'attrazione, come quella tra Shelley e Jane Claire, che per qualche mese si faranno la loro storia d'amore. Il 10 gennaio i tre ragazzi si trasferiscono in 4 Hans Place, mentre il 22 febbraio Mary, con due mesi d'anticipo, da' alla luce Clara, risultato di uno dei primi incontri di giugno avvenuti con Shelley. Il 2 marzo i tre si spostano ancora e vanno a vivere in 13 Arabella Road, a Pimlico, ma il 6 marzo la piccola Clara, nata prematura, non riesce a superare una crisi. Alla morte della figlia si aggiunge quella del nonno di Percy, da cui il ragazzo eredita 7400 sterline, di cui 1000 devolverà subito a Godwin, mentre ad Harriet assicura 200 sterline l'anno. Proprio il 13 maggio, giorno dell'accordo tra Percy e Godwin, Jane Claire lascia la coppia e si trasferisce a Lynmouth, sulle coste del Devon, dove i due ragazzi trascorreranno le vacanze tra giugno e luglio. Il 4 agosto, giorno del ventiquattresimo compleanno di Shelley, i due si trasferiscono a Bishopsgate, vicino l 'entrata est del Grande Parco di Windsor. La prima settimana di settembre, durante la gita in barca sul Tamigi con Mary, Claire, e l'amico Peacock, Shelley inizia a comporre il poema "Alastor".

1816
24 gennaio. Mary dà alla luce William, chiamato così in onore di Godwin, che non fa altro che sentenziare sulla vita dei due giovani e si rifiuta di accettare Shelley, che intanto pubblica Alastor inviandone una copia a Robert Southey, che non gli risponderà. Il tre maggio, insieme a Mary, il figlio, e Claire, incinta di Byron, parte per il Continente: dall'otto al dieci maggio sono di nuovo a Paris, poi passano per Digione, Dole e le montagne dello Jura e procedendo sotto la neve raggiungono Ginevra. Alloggiano all'Hotel de l'Anglaterre, nel sobborgo di Sécheron, dove il 25 maggio arriva anche Byron, accompagnato dal valletto William Fletcher e dal medico personale Polidori (1795-1822). I due scrittori s'incontreranno per la prima volta il 27 maggio. I tre ragazzi insieme al piccolo William si sistemano nel cottage di Mont Alègre, sulla riva opposta del lago, mentre Byron il 10 giugno si sistema a Villa Diodati, dove la comitiva si ritrova quasi ogni sera. Ed è qui che la sera tempestosa del 16 giugno nascerà la competizione letteraria sui fantasmi durante la lettura storie tedesche dei Fantasmagoria . Dal 22 al 30 giugno Shelley e Byron trascorrono una settimana da soli lungo i sentieri del lago di Ginevra, visitando il Castello di Chillon, il bosquet de Julie a Clarens ed arrivando fino a Losanna; mentre a luglio, dal 21 al 27, coinvolgeranno anche le ragazze per arrivare sulle Alpi, fino al Monte Bianco e a Chamonix, lo scenario che la giovane Mary riprenderà per il libro appena incominciato (Frankestein). A Villa Diodati intanto in agosto arriva Matthews Lewis (1775-1818) l'autore del romanzo gotico The Monk . Il 29 agosto i tre ragazzi lasciano Ginevra, visitano Fontainebleu e Versailles il due e il tre settembre, raggiungono Le Havre, dove il 5 settembre salpano per l'Inghilterra arrivando a Portsmouth l'otto settembre. Nei mesi successivi Mary e Claire vivranno a Bath, in Abbey Churchyard, mentre Shelley torna a Londra, dove il 24 settembre firma quel testamento redatto tre mesi prima quando una tempesta sul lago di Ginevra gli aveva fatto temere per la sua vita; è anche l'ultimo giorno che vedrà Fanny Imlay, la sorella di Mary, che si toglierà la vita il nove ottobre con una dose eccessiva di Laudano. Subito dopo Shelley raggiunge le due ragazze a Bath. Nel frattempo l'editorialista Leigh Hunt scrive un articolo sull'"Examiner" (1° dicembre) dedicato alle giovani promesse poetiche del momento: Keats, Shelley e Reynolds. Ne nascerà una corrispondenza tra i due che si trasformerà ben presto in amicizia e gli permetterà di frequentare il circolo degli artisti di Hampstead, dove attorno a Leigh Hunt si riuniscono Keats (1795-1821), Charles Lamb (1775-1834), William Hazlitt (1778-1830), John Reynolds (1796-1852), Benjamin Haydon (1786-1846) e i fratelli James (1775-1839) ed Horace Smith (17779-1849). Ma il 15 dicembre Percy è scosso dalla notizia del suicidio di Harriet, la sua prima, giovane moglie, scomparsa il 9 novembre e ritrovata morta nella serpentina del lago di Hyde Park il 10 dicembre. Forse per cercare di tenere con se il figlio Charles, che altrimenti sarebbe stato affidato ad Eliza, sorella di Harriet, decide di regolare l'unione con Mary. I due ragazzi si sposano il 30 dicembre nella St.Mildred's Church. William Godwin finalmente abbandona il suo lungo silenzio e si riconcilia con i due, che all'inizio vivranno prima con gli Hunt e poi con Godwin e la moglie.

1817
Il 12 gennaio, a Bath, Claire da' alla luce Alba, che su richiesta di Byron verrà battezzata Allegra. Una nascita che a Godwin e ai conoscenti verrà mantenuta segreta. Intanto il 10 gennaio all'Alta Corte di Giustizia è incominciato l'Appello per la custodia dei figli di Harriet, che si concluderà il 17 marzo quando il cancelliere Lord Eldon nega la custodia di Ianthe e Charles sia agli Shelley che agli Westbrook, affidandoli a genitori adottivi, ma poi successivamente Charlie sverrà affidato al padre di Shelley mentre Ianthe a Eliza. All'inizio di marzo Percy e Mary si trasferiscono a Marlow, a trenta miglia da Londra, ospiti di Peacock e di sua madre in attesa di trasferirsi il 18 del mese ad Albion House, una casa affittata nelle vicinanze con un contratto ventennale. Il 25 verranno raggiunti da Claire e dalla piccola Allegra.In questo periodo Shelley compone il pamphlet A proposal for putting reform to the vote throughout the Kingdom, inviandolo a vari esponenti del movimento riformista, tra cui Robert Owen, Cobbett, Cartwright. Intanto il 14 maggio Mary completa il Frankestein e Percy riesce ad assicurarle un contratto con l'editore Lackington, Allen & Co. Shelley legge la "Faerie Queen" di Spenser ed inizia il poema epico "Laon and Cythna", scritto appunto in stanze spenseriane. La freddissima estate la trascorreranno in escursioni sul fiume e nei boschi di Clifton mentre Shelley legge l'"Iliade", le opere di Arriano, Eschilo, Sofocle, Shakespeare. Il 2 settembre nasce Clara Everina. Il 20 settembre Shelley termina il Laon e Cythna e immediatamente parte per Londra, insieme a Claire, alla ricerca di un editore, mentre intanto a causa della sua generosità si ritrova nuovamente nei debiti tanto che alla metà di ottobre è arrestato per alcuni giorni. Inizia il poemetto Rosalind and Helen , traduce il Tractatus di Spinoza e termina la prefazione al Laon e Cythna , che verrà pubblicato da Charles Ollier, ma subito ritirato, revisionato e ripresentato al pubblico con il titolo The revolt of Islam . A novembre legge Berkeley, Gibbon, Milton e la Biographia Literariadi Coleridge, mentre il racconto delle sei settimane in tour, scritto insieme a Mary, è pubblicato dalla Ollier e Hookham, ma anonimamente.

1818
1 gennaio. Gli editori Lackington, Hughes, Harding, Marvor e Jones pubblicano il Frankestein che viene invece rifiutato dagli editori Ollier e Murray. Il 10 febbraio Shelley riesce a vendere l'umida Albion House. Si trasferiscono a Londra, in 119 Great Russell Street, davanti al British Museum. Sarà l'ultima residenza inglese prima di lasciare per sempre l'Inghilterra. Intanto Percy soffre di una seria oftalmia, contratta durante una delle visite benefiche ai poveri di Marlow. Febbraio è scandito da una gran vita mondana e numerose attività sociali in compagnia di Peacock, Hogg, Hunt, Keats e gli altri del circolo di Hampstead. L'undici marzo Percy. Mary e Claire, Milly Shields, una cameriera di Marlow, la governante svizzera Elise Duvilliard (1795) e i tre bambini, partono per il continente."Stiamo tutti molto bene e di eccellente umore. Viaggiare ha sempre questo effetto sul sangue, anche quando la mente sa che ci sono tutte le ragioni per sentirsi tristi" , scriverà Shelley a Leigh Hunt. Procedono da Calais a Saint Omer, a Lione; poi attraverso la Savoia le cui montagne ispireranno il primo atto del Prometheus Unbound . Durante il viaggio Shelley legge Il corso di letteratura drammatica di August Schlegel. Raggiungono Susa il 30 marzo, Torino il primo aprile, Milano il quattro. Shelley rimarrà colpito dall'architettura del Duomo dove si rifugerà a leggere il Purgatorio di Dante. Legge L'Aminta e vorrebbe progettare una tragedia sulla vita di Tasso. Insieme a Mary visita alcune residenze sul lago di Como. Vorrebbe affittare Villa Pliniana per l'estate ma non sarà possibile. La comitiva si rimette in viaggio fermandosi brevemente a Parma, Modena, Bologna e Pisa dal primo al sette maggio. A Livorno, dove rimangono quasi un mese, conoscono i coniugi John e Maria Gisborne e il figlio del primo matrimonio della donna, Henry Reveley. In questo periodo Shelley legge Euripide e Sofocle, Ariosto, mentre Mary ricopia la storia di Beatrice Cenci da un manoscritto di John Gisborne. L'undici giugno si trasferiscono a Bagni di Lucca, a Casa Bertini, dove Shelley legge Erodoto, Aristofane, Barthélemy,Hume, Teocrito; completa Rosalind and Helen e scrive due saggi: On love e il Discourse on the manner of the ancient greeks . Il 14 giugno intanto Mary scrive allo scrittore Walter Scott (Ivanhoe, Rob Roy), che ha recensito favorevolmente Frankestein sul Blackwood's Edimburgh Magazine ma sostenendo che l'opera fosse stata scritta da Shelley. Il 17 agosto Percy e Claire partono per Venezia per andare a trovare Allegra, che è stata adottata dall'ambasciatore inglese Richard Belgrave Hoppner (1786-1872) e da sua moglie Isabelle. E anche l'occasione per incontrarsi con Byron, che evita di rivedere Claire lasciando ai due giovani la sua villa di Este "I Capuccini". Ed è qui che arriveranno Mary e i due figli; ma il viaggio sarà fatale alla piccola Clara (24 settembre). Shelley inizia Julian and Maddalo e Lines written among the Euganean Hills e scrive l'atto primo del Prometheus Unbound . Legge Malthus, Sofocle e alcuni drammi di Shahespeare. Percy e Mary trascorrono la metà di ottobre a Venezia cercando distrazione nella vita sociale mentre Claire rimane ad Este con Allegra, che ritornerà a casa Hoppner il 29 ottobre. Due giorni dopo la comitiva, a cui si è aggiunto il servitore Paolo Foggi, parte per Roma, passando per Rimini, Fano, Foligno, Ferrara (dove Shelley esamina manoscritti del Tasso e dell'Ariosto), Bologna (dove visitano le gallerie d'arte), Fossombrone, Spoleto e Terni, dove rimarrà entusiasta della Cascata delle Marmore. Il 20 novembre sono finalmente a Roma, dove visitano San Pietro, il Colosseo, il Foro, il Campidoglio, fontane e piazze. Il 27 novembre Shelley parte da solo per Napoli, dormendo a Riviera di Chiaia 250, probabilmente per adottare Maria Adelaide dopo la scomparsa di Clara. Gli altri lo raggiungeranno il primo dicembre ed insieme esploreranno i dintorni: Ercolano, Golfo di Baia, Campi Flegrei, la grotta di Sibilla, il cratere del Vesuvio e Pompei. In questo periodo tra le letture di Shelley La storia dell'arte di Winckelmann.

1819
Ma a Napoli qualcosa sta turbando la comitiva. E' qualcosa che riguarda la piccola Elena Adelaide Shelley (nascita 27/12/18, battesimo 27/02/19, morte 9/06/20, come riportato negli Archivi di Stato di Napoli). In merito sono state elaborate quattro ipotesi: Mary si rattristò all'idea di lasciare la piccola a Napoli, dove sarebbero tornati una volta l'anno; Elena era nata dalla relazione tra Percy e Claire; era la figlia di Shelley e di una misteriosa ammiratrice inglese oppure figlia di Percy e la governante Elise, che in dicembre si sarebbe sposata con Paolo Foggi. Probabilmente, se consideriamo che la bambina venne affidata ad una famiglia di Vico Canale il 28 febbraio, è facile intuire che Mary non se la sentiva di crescere un'altra bambina; mentre Shelley era a Napoli da solo Claire ed Elise stavano insieme al resto della comitiva. La bambina nacque dunque da una relazione fugace di Shelley, che per riparare provò in un primo tempo a prenderla con se, ma dopo la reazione risentita, e giustificata di Mary, l'affidò alla famiglia napoletana. Da Napoli partono il 28 febbraio, passano per Gaeta e raggiungono Roma il 5 marzo, dove alloggiano a Palazzo Verospi in Via del Corso. Durante il soggiorno Percy e Mary frequentano il salotto dell'anziana Maria Candida Dionigi (1756-1826). Shelley predilige i parchi archeologici: nelle Terme di Caracalla scriverà il II° e il III° atto del Prometheus Unbound . Il 24 aprile incontrano la pittrice Amelia Curran (1775-1847), la figlia di un avvocato irlandese che aveva frequentato il circolo di Godwin. Amalia dipingerà i due più celebri ritratti di Percy e Claire e quelli, oggi perduti, di Mary e di William. Il 7 maggio la comitiva si trasferisce in Via Sistina 65, nell'ultima casa sulla Trinità dei Monti. Ispirato da un celebre ritratto di Beatrice Cenci, Percy inizia a scrivere l'omonima tragedia. Ma il 7 giugno anche il piccolo William, colpito dalla malaria, muore. Verrà sepolto nel Cimitero Protestante di Roma. Il 10 giugno il gruppo lascia la città per Livrono, e dopo aver trascorso una settimana in albergo, si sistemano a Villa Valsovano. Mary, che ha perso due figli in meno di un anno, è in uno stato di depressione e cerca conforto nella signora Gisborne, che insegnerà la lingua spagnola a Shelley, che intanto sta leggendo Calderon De la Barca e partecipando al progetto di Henry Reveley di costruire una barca a vapore. Termina The Cenci l'otto agosto e vorrebbe rappresentarlo a Londra, dove incarica Peacock di prendere contatto con i teatri del Covent Garden. Shelley è sempre più esasperato dalle richieste di denaro di Godwin, che ha una certa difficoltà a vedere attuate le sue teorie nella vita della figlia e continua a pretendere da Shelley dei soldi come se quest'ultimo avesse dovuto riscattarsi dall'avere corteggiato Mary. "Non è un uomo è una solenne menzogna", scrive Shelley a Leigh Hunt, ed esita nel mostrare a Mary le lettere di minaccia del genitore per non farla stare male ulteriormente. Il 5 settembre riceve la notizia del massacro di Machester, dove una milizia ubriaca sparò, uccidendo, su una manifestazione per la riforma parlamentare. Di getto scrive La maschera dell'anarchia . Alla comitiva si unisce per un periodo (4 settembre - 10 novembre) Charles Clairmont, fratello di Claire, di ritorno dalla Spagna e diretto a Vienna. Intanto Mary ha incominciato a scrivere Matilda , che invierà al padre nel 1821. Il 2 ottobre i ragazzi si trasferiscono a Firenze, a Palazzo Marini, dove Shelley frequenta i balletti e l'opera e trascorre ore alla Galleria degli Uffizi. A Firenze scrive Ode to the west wind e il poemetto satirico Peter Bell III° . Legge Clarendon, Platone e Madame de Stael. Il 12 novembre nasce Percy Florence e Mary sembra ritrovare un po' di serenità.

1820
Shelley inizia l'anno leggendo la Bibbia, i Vangeli e Sofocle e riprende a tradurre il Tractatus di Bento de Spinoza insieme a Mary. Il 29 gennaio si trasferiscono a Pisa e frequenteranno il circolo di Lady Margaret Mount Cashell (1775-1835), una contessa irlandese che da giovane aveva avuto come governante la madre di Mary. La donna vive con l'agronomo George Tighe. Tra marzo e maggio Shelley, che soffre di forti dolori reumatici, è visitato dal celebre dottor Vaccà. Scrive The sensitive plant e A vision of the sea . Fra le letture Platone, Hobbes, Locke, Voltaire. Mary invece compone i drammi mitologici Proserpine e Midas , e comincia il romanzo Valperga . Mentre stanno per partire per Lucca Shelley riceve minacce di estorsione da parte di Paolo Foggi due giorni dopo la morte di Adelaide. Ad intimare il ricattatore ci penserà l'avvocato Del Rosso di Livorno, dove la comitiva si trasferisce il 15 giugno nella casa che i Gisborne hanno appena lasciato. Percy intanto trova un accordo con l'editore Ollier per l'edizione del Prometheus Unbound . Ma le relazioni tra Mary e Claire si fanno sempre più tese. Discutono quasi ogni giorno. Alla fine Shelley decide di trovarle una sistemazione autonoma a Pisa. Percy viene a conoscenza delle gravi condizioni di John Keats (27 luglio) e lo invita a raggiungerli in Italia. Si trasferiscono a Bagni di San Giuliano. Qui il due agosto, dopo la notizia dei moti di Napoli, scrive Ode to Naples .Il Prometheus Unbound è pubblicato a metà agosto mentre dopo una gita sul Monte Pellegrino (11-13 agosto) scrive in soli tre giorni The witch of Atlas . Il 31 agosto Claire trova una sistemazione a Livorno. All'inizio di ottobre i Gisborne tornano dall'Inghilterra, portando con se una cassa di libri, tra cui le poesie di Keats. Shelley parte per Firenze nel tentativo di sistemare Claire presso la famiglia del dottor Bojti mentre a Pisa incontra il cugino Thomas Medwin, di ritorno dalle Indie, e lo invita a San Giuliano. Il 31 ottobre si trasferiscono a Pisa, al Palazzo Galletti. Shelley è afflitto dalla nefrite e dispiaciuto dell'assenza di Claire, che ritorna a Pisa il 21 novembre, alloggiando a casa dei Mason). Fra i frequentatori di Palazzo Galletti il professor Francesco Pacchiani, lo scrittore irlandese John Taaffe, il principe greco Alessandro Mavrocordato che darà lezioni di greco a Mary. Shelley conosce Teresa Emilia Viviani, la diciannovenne figlia del governatore di Pisa, relegata in convento in attesa di matrimonio. La prima a visitarla sarà Claire, successivamente Percy e Mary. Il 23 dicembre Claire riparte per Firenze.

1821
Shelley legge la Vita di Dante e ispirato da un amore platonico per la Viviani scrive Epipsychidion , terminato a febbraio e pubblicato a maggio. nuova Mentre in risposta al saggio di Peacock The four ages of poetry scrive A defense of poetry . Il 27 febbraio, prima di partire da Pisa, il cugino gli presenta Edward Williams (1793-1822) un ufficiale di marina conosciuto in India, ora in viaggio in Europa con la propria donna, Jane (1798-1884). La coppia diventa subito amica degli Shelley. Ma l'undici aprile giunge la notizia della morte di Keats, avvenuta a Roma il 23 febbraio. I ragazzi si trasferiscono ai Bagni di San Giuliano i primi di maggio, dove Shelley compone Adonais , in memoria dell'amico scomparso. Mentre trascorre intere giornate in barca con Williams viene a sapere che a Londra è stata pubblicata un'edizione illegale del Queen Mab che sta suscitando scalpore. Il 3 agosto su invito di Byron parte per raggiungerlo a Ravenna. Il giorno successivo lo trascorre con Claire a Livorno. Il 6 agosto arriva a destinazione. La sera stessa George Byron gli mostra una lettera degli Hoppner, che dando credito a Elise Foggi, hanno creduto che Shelley abbia avuto Adelaide da Claire e di aver abbandonato in povertà la bambina; toccherà alla stessa Mary scrivere una lettera alla signora Hoppner per poter scagionare il marito. Shelley convince Byron e la sua nuova donna, la contessa Teresa Guicciardini, sorella del patriota Pietro Gamba, a trasferirsi a Pisa. Durante il viaggio visitano per l'ultima volta Allegra, ospite nel convento di Bagnocavallo (14 agosto). Shelley sta inoltre aspettando in Italia Leigh Hunt, con il quale vuole aprire un nuovo giornale "The Liberal". A Pisa nel frattempo si trasferisce l'intera famiglia Gamba, che si sistema a Casa Parra, non lontana da Palazzo Lanfranchi, affittato da Byron. L'otto settembre la bella Teresa Viviani sposa un certo Luigi Biondi. In ottobre Shelley compone l' Hellas , dedicato al principe Mavrocordato, che a maggio è tornato in patria per combattere per l'indipendenza greca. Il 25 settembre Mary e Percy ritornano a Pisa, dove occupano l'ultimo piano dei Tre Palazzi di Chiesa, sul Lungarno, mente Byron e il suo seguito si stabiliscono a Palazzo Lanfranchi. Le giornate trascorrono tra uscite a cavallo, gare di tiro, partite a biliardo, conversazioni di cultura generale. Shelley scopre in Byron delle abitudini tipicamente maschili ed incomincia a dimostrarsi un po' insofferente, mente le ragazze, per forza escluse da giochi da uomini, finiscono per creare un circolo a se. La mancanza del suo ambiente ideale influisce sull'umore di Shelley, che in questo periodo non riesce a comporre.

1822
In gennaio giunge a Pisa Edwar Trelawny (1792-1881), attratto dalla presenza di Byron e desideroso di farsi conoscere. Ed è tramite Trelawny che Shelley e Williams commissionano al comandante Daniel Roberts la barca del "Don Juan". Percy in questo periodo lavora irregolarmente alla tragedia Charles I° ma riesce a comporre, tra gennaio e giugno, un ciclo poetico completamente dedicato a Jane Williams. Intanto dall'Inghilterra viene a sapere che a causa delle condizioni metereologiche Leigh Hunt non può raggiungerlo subito; e Byron, il principale finanziatore del "Liberal" incomincia a perdere interesse al progetto. Il 24 marzo gli uomini della comitiva inglese si azzuffano con la guardia armata di Pisa. Banditi dalla città sono costretti a spostarsi a Livorno. Il 20 aprile Allegra Byron muore di tifo e Claire, che avrebbe voluto riavere la bambina, lo viene a sapere il primo maggio. Gli Shelley e i Williams si trasferiscono a San Terenzo, nel Golfo di Lerici, abitando a Casa Magni, vicinissima al mare: "Ci sentiamo come se fossimo a bordo di una nave, e il ruggito del mare ci porta questa idea fin dentro al letto" (dal diario di Edward Williams). Il 12 maggio Shelley e Williams ricevono l'imbarcazione commissionata; durante le uscite in barca Percy compone gran parte del frammento The triumph of life . Mary il 16 giugno rischia di morire per un difficile aborto; Percy arresta l'emorragia immergendola in acqua ghiacciata. Il primo luglio parte finalmente per Livorno per incontrarsi con Byron e Leigh Hunt, arrivato in Italia, per pianificare la realizzazione del "Liberal". L'otto luglio, durante il viaggio di ritorno, la "Don Juan" è sorpresa da una tempesta e naufraga a dieci miglia da Viareggio. I corpi di Percy Shelley, John Williams e del mozzo Charles Vivian sono ritrovati dieci giorni dopo. Shelley viene sepolto temporaneamente nella sabbia, ma il 15 agosto il corpo viene riesumato e cremato alla presenza di George Byron e di Leigh Hunt. Le sue ceneri verranno sparse il 21 gennaio 1823 nella parte alta del Cimitero Acattolico di Roma, davanti alla Piramide. Sulla lapide ad accompagnare l'ultimo viaggio di Shelley sono i versi del canto di Ariel, lo spirito protagonista della Tempesta di Shakespeare: "Nothing of him that doth fade, but doth suffer a sea change, into something rich and strange".(Niente di lui si dissolve ma subisce una metamorfosi marina in qualche cosa di ricco e di strano)

Nel settembre 1822 Claire partirà per Vienna e Jane Williams per Londra, dove nel 1827 sposerà Hogg. Mary ritorna in Inghilterra partendo da Genova il 25 luglio 1823; il giorno seguente Byron e Trelawny partiranno per la Grecia con una spedizione per aiutare i greci contro l'aggressione turca. Durante la missione Byron è colto da febbri fortissime e morirà a Missolungi il 19 aprile del 1824. Charles Bysshe, il figlio primogenito di Shelley nato dall'unione con Harriet, muore il 14 settembre 1827. Percy Florence, l'unico figlio superstite, diventa l'erede legittimo del titolo di baronetto, ma per ereditare la proprietà, dovrà attendere la morte del nonno (24 aprile 1844). Mary nel 1824 incomincia a comporre The last man , la sua seconda opera più importante, che verrà pubblicata il 23 gennaio del 1826 dall'editore Colburn. Nel giugno 1840 e nel giugno 1843 Percy Florence, insieme ai suoi amici e alla madre Mary partiranno per l' Europa, visitando nel primo viaggio la Germania e la Svizzera, la Cadenabbia e Milano, mentre durante la seconda esperienza visiterà Kissingen, Berlino, Dresda, Venezia, Firenze, Roma e Parigi. Il 26 dicembre del 1849 Frankestein or the model man , diretto da William e Robert Brough, è rappresentato all'Adelphi Theatre di Londra per 26 volte. Il 1 febbraio del 1851, all'età di 53 anni, Mary W.G.Shelley muore a Chester Square, Londra. Jane Shelley, la giovane moglie di Percy Florence, con il quale si è sposato il 22 giugno del 1848, organizza il trasferimento dei resti di William Godwin, di Mary Wollstonecraft sul sagrato di St.Peters a Bournemouth, nella contea del Dorset, sul mare, dove Mary viene sepolta affianco ai suoi genitori. Claire, la compagna inseparabile delle prime avventure, si manterrà come insegnante di inglese o dama di compagnia, vivendo a Vienna, Carlsbad, Londra, Mosca e Dresda. Morirà a Firenze nel 1879.

Fonti: "Opere - Cronologia della vita di Shelley", di Francesco Rognoni - Einaudi Gallimard - 1995




Conoscere il Romanticismo con gli aforismi di Mary e Percy Bysshe Shelley




Gli Shelley
 

Vige nella scuola italiana, da parte dei docenti che insegnano letteratura, nella secondaria superiore, il culto esclusivo per il romanzo e la poesia. Il resto dei generi letterari dalla massima morale all’aforisma, dall’epigramma alla favola è assolutamente trascurato. Ora accade, sotto al cielo del duemila, che spesso né gli studenti intendano leggere i classici della letteratura, metti il Frankenstein della Shelley, né In difesa della poesia del marito; e che spesso ahimè, nemmeno i docenti, intendano leggerli: accontentandosi, magari, quando va bene, del libro dello scrittore di successo dal quale viene tratto un film altrettanto di successo, girato da un regista di successo, e allora, allora?, il Romanticismo, metti il Romanticismo, resta affidato alle note sbrigative di un manuale e del sentito dire.
La proposta del "Manuale di classe" è quella di leggere e meditare gli aforismi. Si possono creare lezioni sapienti che intrecciano i pensieri degli studenti con un aforisma romantico.
Qui di seguito alcuni di una coppia romantica. Anche estrapolati dalle loro opere.
E siccome c’è una sproporzione fra quelli della donna rispetto al marito poeta, rimediamo, mettendo la bibliografia delle opere in italiano di Mary. Claudio Di Scalzo discalzo@alice.it



AFORISMI DI MARY SHELLEY


Le donne non dovrebbero avere potere sugli uomini, bensì su se stesse.

Nulla contribuisce a tranquillizzare la mente quanto uno scopo preciso, un punto sul quale l'anima possa fissare il suo occhio.

Ogni buon politico trasportato all'estremo è un produttore di malvagità.

Ciò che ha terrorizzato me terrorizzerà altri. Devo soltanto descrivere lo spettro che è venuto a trovare il mio cuscino a mezzanotte.



AFORISMI DI PERCY BYSSHE SHELLEY

Non c'è alcun divertimento nell'odio quando tutta la rabbia risiede da una sola parte.

Una storia di fatti particolari è uno specchio che oscura e distorce ciò che potrebbe essere bello; la poesia è uno specchio che rende bello ciò che è distorto.

Non c'è vera ricchezza all'infuori dell'umano lavoro.

Ciò che semini, un altro lo raccoglie. La ricchezza che trovi, un altro se la tiene.

Non sollevare il velo dipinto che quelli che vivono chiamano vita.

Tutti gli spiriti che servono il male sono schiavi.

Ogni uomo che valga qualcosa passa la maturità a liberarsi dalle pazzie o a espiare gli errori della gioventù.

Il dolore è cieco per qualche tempo, e così il mio. A nessuna cosa vivente auguro di soffrire.

Cos'è l'amore? Domandate a chi vive: cos'è la vita? Domandate a chi adora: chi è Dio?

La verità è sempre stata trovata per promuovere gli interessi del genere umano.

I gesti più consueti sono belli per l'amore.

Lo strumento più grande della buona morale è l'immaginazione.

Ogni epoca, sotto nomi più o meno speciosi, ha deificato i propri errori particolari.

Più studiamo, più scopriamo la nostra ignoranza.



MARY SHELLEY. Opere in traduzione italiana

Mary Shelley, Frankenstein, traduzione di Chiara Zanolli e Laura Caretti, Oscar Mondadori, Milano 2006.
Mary Shelley, Frankenstein, ovvero Il moderno Prometeo, introduzione di Maria Paola Saci, traduzione di Maria Paola Saci e Fabio Troncarelli, Garzanti, Milano 1991.
Mary Shelley, Matilda, traduzione di Mirella Billi, Marsilio Editore, Venezia 2005.
Mary Shelley, L'ultimo uomo, traduzione di Maria Felicita Melchiorri, Giunti, Firenze 1997.
Mary Shelley, Maurice, o la capanna del pescatore, traduzione di Cristina Dazzi, Oscar Mondadori, Milano 2003.



  

giovedì 13 maggio 2010

Rousseau, Kant, Fichte e il Romanticismo. Appunti.




                                                                   Jean-Jacques Rousseau


Il Romanticismo si pone innanzitutto in forte polemica con quella riduzione dell’uomo ad amor proprio e a ragione calcolatrice operata dalla modernità e giunta a compimento con l’Illuminismo. La prima reazione a questa indebita riduzione era avvenuta nell’Inghilterra, con i cosiddetti “filosofi del sentimento” (Shaftesbury e Hutcheson in primis): questi, in risposta alla riduzione dell’uomo a ragione e ad amor proprio, vanno sostenendo che l’uomo è innanzitutto sentimento e, nel sostenere tali tesi, esercitano un’influenza decisiva sul pensiero di Rousseau, che per molti versi si presenta come l’antesignano del Romanticismo. Al cuore della sua riflessione vi è una dura critica contro la cultura illuministica, colpevole di aver innalzato la riflessione critica e calcolatrice a unica dea. Ma tale riflessione razionalistica, lungi dal trasformare la terra in paradiso, - nota Rousseau – non fa che causare tutti quei mali che pretenderebbe invece di guarire: sicché essa è non il rimedio, ma la causa di tutti i mali, primo fra tutti la nascita dell’amor proprio. Con la riflessione si operano distinzioni e, conseguentemente, contrapposizioni (io/tu e, poi, mio/tuo): nasce così la tendenza a paragonarsi e a contrapporsi e da ciò rampolla la volontà di primeggiare dell’io sul tu. Proprio questa divisione generata dalla riflessione critica, implicante l’amor proprio e, dunque, la volontà di primeggiare sugli altri fa sì che la società moderna sia il regno dell’odio reciproco, della diffidenza, della dissimulazione e dell’insincerità, opportunamente nascoste sotto la vernice delle buone maniere. Si tratta allora di una società da cui è bandita la felicità e in cui tutti temono tutti e in cui nessuno è se stesso, giacché si ritrova ad indossare maschere per meglio abbindolare gli altri. L’errore fatale dell’Illuminismo sta dunque nell’aver preso per rimedio dei mali quella che invece ne era la causa scatenante: l’amor proprio, fortificato dalla ragione calcolatrice. Ma l’uomo – rileva Rousseau – non è soltanto ragione calcolatrice e amor proprio; è anche e soprattutto un duplice sentimento: amor di sé e pietà. L’amor di sé di cui parla positivamente Rousseau non dev’essere però confuso con l’amor proprio che egli aborre e che gli Illuministi avevano portato alle stelle: se l’amor di sé è al di qua di ogni riflessione, l’amor proprio è invece il figlio legittimo della riflessione. Da ciò si evince come l’amor di sé, proprio perché a monte della ragione calcolatrice, non instauri paragoni e, in forza di ciò, non entri in conflitto con gli altri e possa pacificamente convivere con la pietà per gli altri: da esso traggono origine tutte le più grandi virtù, la clemenza, la generosità, ecc. Sicché, quando Rousseau invita a tornare alla natura, egli esorta a tornare a questa dimensione situata a monte della ragione calcolatrice e dominata dall’amor di sé e dalla pietà. Basta che l’uomo si apparti anche solo per un attimo dal rumore assordante prodotto dalla ragione e dalla teorie filosofiche che da essa proliferano, e subito ritrova l’immediata certezza del proprio intimo ed immediato sentire (ovvero dell’amor di sé e della pietà): a parlare è allora la voce della coscienza, il nostro profondo sentire rimasto incorrotto nonostante il proliferare del calcolo razionale. Ciò di cui Rousseau sta qui parlando è la naturale bontà dell’uomo: egli rivendica un intervento correttivo che guerreggi contro una ragione che pretende di essere la sola guida dell’uomo. E il grande progetto che sta al cuore del romanzo La nuova Eloisa si risolve per l’appunto in un tentativo, ambizioso e talvolta lacunoso, di coniugare tra loro il sentimento e la ragione, in misura tale che non si prevarichino a vicenda.

Accanto a Rousseau, anche Kant costituisce una delle grandi fonti a cui si abbeverano i Romantici: anch’egli protesta vibratamente contro l’utilitarismo e l’eudemonismo illuministico, rifiutandone la concezione dell’uomo come mera sensibilità e amor proprio. Sugli imperativi ipotetici proposti dalla ragione calcolatrice non si può costruire una morale, giacché essi non mirano che all’utile e alla felicità, limitandosi ad indicarci per quali vie incamminarci per conseguirli. Ma, oltre ai suggerimenti della ragione calcolatrice, l’uomo avverte in sé la voce della ragion pura pratica, dell’imperativo categorico che mira unicamente a improntare il comportamento umano ad un agire universale e disinteressato, nonché puramente razionale. Le affinità col discorso di Rousseau sono fin troppo evidenti: il filosofo ginevrino espleta in ambito di ragion pratica la stessa funzione espletata da Hume in ambito di ragion pura, destando Kant dal sonno dogmatico in cui era sprofondato. Nello sforzo di conformare l’agire all’imperativo categorico, vincendo la resistenza opposta dalla sensibilità, l’uomo esercita la propria libertà, essendo libero di non lasciarsi determinare dai sensi, dalle pulsioni, dalle volizioni e dalle inclinazioni sensibili. Tanto Kant quanto Fichte sottolineano il valore umano dello sforzo morale come manifestazione della libertà umana: la coscienza finita dell’uomo è coscienza essenzialmente morale, è sforzo verso un ideale di pura razionalità che, essendo irraggiungibile, mantiene in perenne tensione la coscienza umana. Questo punto di vista è ottimamente compendiato nelle Lettere sul dogmatismo e sul criticismo (1795) di Schelling, che qui ancora si muove in una prospettiva lato sensu fichteana, a tal punto da sostituire la felicità con la libertà della ragion pratica, la quale esclude ogni forma di eudemonismo: “quanto più diventiamo liberi, tanto meno necessitiamo della felicità, che dobbiamo alla sorte […]. Nella misura in cui avanza sulla via della moralità, l’uomo libero si vede innalzato al di sopra dell’ideale sensibile di felicità”, poiché la ragion pratica si sforza per giungere all’assoluta identità con se stessa, cercando cioè di diventare pura e illimitata libertà. E questa è anche la beatitudine, l’attingimento dell’illimitata libertà razionale che permette di approdare alla poesia della vita libera, innalzandosi al di sopra della vita prosaica fatta di appetiti sensibili. Quello di Kant è dunque il punto di vista di una coscienza finita che riflette sul proprio conoscere, mettendone in luce i limiti oltreché le potenzialità. Il filosofo si domanda anche il perché del nostro conoscere e, a tal domanda, risponde che ciò avviene in forza del fatto che la ragion pura connette, ad esempio, in maniera causale certi fenomeni situati nel tempo e nello spazio. Come i bambini rompono i giocattoli per vederne le parti e per poter così capire come essi funzionino, similmente Kant scompone le parti del nostro conoscere (il materiale sensibile e la nostra struttura a priori); la sintesi di queste parti dà appunto quella che chiamiamo conoscenza. Sicché conosciamo il mondo perché il nostro conoscere è fatto di dati sensibili riorganizzati dalla struttura a priori. La prospettiva cambia radicalmente nella Critica della ragion pratica, giacché non è possibile dedurre la ragion pratica in quanto essa è un fatto nella cui presenza ci troviamo e che dobbiamo necessariamente accettare come tale. E pertanto Kant non risponde a domande del tipo “perché sentiamo in noi la voce dell’imperativo categorico?”: si limita a notare com’esso sia un dato di fatto che non consente alcuna deduzione. E allora, nella Critica della ragion pratica, il filosofo tedesco riflette sulla praticità della ragion pratica, illustrandone le conseguenze: se agiamo moralmente, allora ne consegue che siamo liberi, che esiste Dio e che la nostra anima è immortale. In altri termini, la ragion pratica, che esiste come fatto, postula la libertà, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Ma ciò non toglie che anche qui, al pari della Critica della ragion pura, si resti in un punto di vista finito.

Anche il pensiero di Fichte è un faro costante per i Romantici: al centro della sua riflessione morale è, come in Kant, la nozione di Streben, ossia dello “sforzo” a cui è chiamato l’uomo per vincere la sensibilità. La sua è una filosofia “trascendentale”, in quella duplice valenza del termine fissata da Kant nella Critica della ragion pura: “chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscerli”. In questa prima accezione, trascendentale è la conoscenza delle possibilità di conoscenza, ossia la riflessione critica sulla natura del conoscere. È detta “trascendentale” perché trascende il mero conoscere ignaro di sé, ma anche perché è pur sempre un conoscere che non trascende la conoscenza umana in quanto tale (ché altrimenti sarebbe non già trascendentale, ma trascendente): resta cioè un punto di vista finito. In secondo luogo, trascendentale è anche la struttura a priori del nostro conoscere, cioè quel qualcosa che antecede la conoscenza rendendola possibile (le intuizioni sensibili dello spazio e del tempo, le forme a priori delle dodici categorie, l’Io penso). In una terza possibile accezione, trascendentale è quella componente del nostro conoscere che trascende il singolo soggetto empirico, poiché è presente, in forma uguale, in tutti gli uomini. La Dottrina della scienza di Fichte muove direttamente dal Kant della Critica della ragion pratica e, pur mantenendosi nel punto di vista della coscienza finita, riesce a dedurre ciò che Kant non era riuscito a dedurre: la praticità della coscienza finita, il suo essere moralità. Ciò costituisce l’essenza della coscienza umana: ne segue allora che l’uomo è soprattutto moralità e che il rigorismo etico kantiano diventa ossessivo. Il conoscere stesso è, agli occhi di Fichte, funzione ed espressione dell’essere ragion pratica dell’uomo. Ma che cosa fa sì che la coscienza umana sia eminentemente moralità? Naturalmente – puntualizza Fichte – non tutti gli uomini sono in pari grado moralità, e anzi gli eroi morali sono rare eccezioni in un mondo di briganti e truffatori; ma ciò non di meno l’imperativo categorico è istanza incancellabile nell’uomo, in ogni uomo. E la riflessione di Fichte procede come quella kantiana: se Kant aveva rotto il giocattolo della conoscenza nelle sue parti, Fichte si propone di rompere la coscienza morale per poterla spiegare. In particolare, egli analizza la coscienza pratica, la scompone e ne mostra le relazioni. L’Io finito è coscienza pratica perché è sforzo teso ad attuare l’imperativo categorico, vincendo la resistenza della sensibilità: ma che cos’è che rende possibile ciò? Anche la coscienza pratica è sintesi di due opposti, di una tesi e di un’antitesi: è cioè composizione di un’opposizione. In questo caso, tesi e antitesi sono le condizioni preconsce che solo la riflessione trascendentale riesce a cogliere, mettendole in luce mediante astrazione: la riflessione trascendentale è allora un retrocedere nell’anticamera incoscia della coscienza. Così lo sforzo pratico è sforzo incessante di essere la ragion pura pratica, senza sensibilità: siamo qui in presenza di un’attività finita? Oppure infinita? Se fosse finita, agirebbe mossa solo da imperativi ipotetici, cosicché in presenza di un oggetto piacevole direbbe solamente come agire per ottenerlo e, ottenutolo, si acquieterebbe. Ma un tale agire è tutto fuorché morale, giacché è interamente votato al soddisfacimento di bisogni sensibili. L’azione morale è invece un qualcosa di incessante e ha per fine la ragione stessa e, dunque, non è indotta dall’esterno: è piuttosto innata e radicale, tale da non potersi mai acquietare. Il fine (la pura razionalità) non è mai raggiungibile, ma comunque lo sforzo della ragion pratica mai si tacita, ma anzi sempre e di nuovo rinasce in noi. Un tale sforzo è frutto di un’attività infinita: non si esaurisce conseguendo uno scopo, ma sempre e di nuovo rinasce, anche se lo scopo mai è raggiunto. Il nostro sforzo è allora quello di un’attività infinita che, se ostacolata, si sforza di tornare alla sua illimitatezza, rimuovendo il limite: “la praticità dello spirito finito è la sua destinazione eterna, la sua infinità; è ciò per cui lo spirito è infinito”. E dunque “lo sforzo è attività infinita che, limitata, non rinuncia alla propria infinità […]. Lo sforzo è precisamente la sintesi fra attività pura e limite, e cioè è attività limitata ma che ancora contiene lo slancio della sua infinità”. Questo è il risultato cui perviene la riflessione trascendentale, componendo la coscienza pratica e scoprendo che essa è attività infinita limitata sempre e di nuovo da un limite. E attività infinita e limite costituiscono per l’appunto la tesi e l’antitesi di cui prima dicevamo, delle quali la coscienza è sintesi. In termini fichteani, la tesi è “l’Io pone se stesso”, l’antitesi “l’Io oppone a sé un non-Io”. La sintesi risultante sono le coscienze finite umane di fronte al mondo entro cui agiscono moralmente: questo punto, espresso in termini fichteani, recita che “l’Io oppone nell’Io all’Io divisibile un non-Io divisibile”. La tesi è l’attività infinita dell’Io, è la ragion pura pratica in quanto inesauribile e illimitata attività identica a se stessa. Quest’attività infinita compone la nostra coscienza in quanto, in presenza del limite, essa tende a superarlo cercando con sforzo di recuperare la propria identità di attività infinita che sarebbe se non fosse limitata. Ma che cos’è che la limita? È la sensazione, o meglio il nostro sistema delle sensazioni: questa è l’antitesi contro cui urta l’attività infinita della ragion pura pratica, costretta alla condizione di sforzo per superare le sensazioni che le si oppongono. In quanto coscienze finite, siamo composte dall’attività infinita della ragion pratica che, in presenza di un limite che la ostacola, diventa lo sforzo sempre reiterato di recuperarsi alla sua condizione di infinità. Le sensazioni sono precisamente l’ostacolo contro cui cozza la coscienza: esse provengono dall’Io stesso, cui è congenito l’autolimitarsi, cosicché da sempre l’Io sussiste come sforzo perché da sempre esso si limita diventando la totalità delle sensazioni. Sicché le coscienze che siamo sono frutto di uno sforzo di essere se stesse superando l’ostacolo che si sono poste. È questa la preistoria inconscia della coscienza a cui perviene la riflessione trascendentale. L’attività infinita dell’Io è già sempre l’intero sistema delle sensazioni contro cui essa urta. In realtà, a sussistere sono sempre le singole coscienze finite, composte dallo sforzo infinito volto a superare l’ostacolo che esse si pongono. Diventando attività conoscitiva, l’Io trasforma l’urto in un ostacolo superabile, mutando la molteplicità delle sensazioni nella rappresentazione del mondo. L’Io infinito tende a limitarsi e, per ciò stesso, diventa la molteplicità delle sensazioni; ma, essendo infinito, reagisce all’ostacolo, non ne è annientato: la reazione all’ostacolo si sviluppa in due momenti, uno conoscitivo e l’altro morale. Nel primo momento, la massa delle sensazioni è trasformata in rappresentazione spazio/temporale del mondo e ciò avviene perché l’Io si è fatto coscienza teoretica (cioè immaginazione produttiva). Avendo reso l’urto superabile, in veste teoretica, l’Io diventa attività morale: la ragion teoretica trapassa in ragion pratica, poiché è solo così che può realmente superare quell’ostacolo reso superabile dalla ragion teoretica. Ed è per questo motivo - ossia per il fatto che solo la ragion pratica può trionfare sul limite – che Fichte mai si stanca di ribadire la superiorità della ragion pratica su quella teoretica: l’essere anche ragion teoretica è funzionale alla ragion pratica, giacché solamente se costruiamo un mondo attraverso l’attività teoretica possiamo poi agire in esso moralmente. In quest’ottica, le sensazioni si riducono ad autoaffezioni dell’Io: se rimanesse soltanto un magma di sensazioni, l’Io non potrebbe essere sforzo morale. Esso invece reagisce in due battute, facendosi dapprima coscienza teoretica (e dunque rendendo le sensazioni rappresentazioni spazio/temporali) e poi, costruitosi un mondo di rappresentazioni, facendosi coscienza pratica. La sensazione interrompe l’attività pura dell’Io, la quale diventa sforzo di recuperarsi alla propria situazione facendosi teoresi e poi attività pratica. L’Io riflette su di sé fino a scoprire in tutto ciò che lo circonda una propria autolimitazione: il mondo non è che il limite che l’Io si autopone; se il mondo è posto inconsapevolmente dall’immaginazione produttiva (che trasforma le sensazioni in rappresentazioni), allora l’intera conoscenza si risolve in aspetti e gradi diversi della stessa immaginazione produttiva, che proietta le sensazioni in oggetti che noi dapprima crediamo esterni all’Io. Scrive Fichte: “poiché all’Io non appartiene nulla ch’esso non ponga, bisogna che questa limitazione la ponga lui. Porre tale limitazione è ciò che si chiama sentire”. L’Io, da sempre, si modifica in sensazione e lo fa inconsciamente: “attraverso l’immaginazione, il sentimento passa nella vita conoscitiva facendosi intuizione spazio/temporale”. Quel che Fichte non fa è dedurre il finito da un infinito che lo precede: riflettendo sulle condizioni del finito, vi individua un’attività infinita come una delle sue condizioni. Tale attività infinita esiste da sempre come reazione al limite: siamo attività infinita autolimitatasi e reagente a tale limitazione prima come conoscenza, poi come sforzo pratico. L’immaginazione produttiva racchiude la conoscenza trascendentale di cui parlava Kant e l’attività dell’Io è insieme attività e freno a quest’attività: “la coscienza dello spirito è l’attività della ragione che si cerca”. Siamo e conoscenza e praticità, e il nostro essere le due cose è lo sforzo della ragione ostacolata di autoritrovarsi. Quando l’Io non sussiste mai come Io puro, è sempre un Io finito, che reagisce al proprio limite ed è perciò in perenne ricerca di se stesso: a sussistere è solo l’identità in cerca di se stessa, non l’identità pura. Pertanto non c’è un infinito reale fuori e prima del finito: l’infinito esiste solo nel finito, come sforzo d’essere infinito, cosicché l’agire del finito è l’attività stessa dell’infinito, attività che esiste sempre e solo come ostacolata e in cerca di sé. L’unico infinito reale è l’infinito tendere del finito. La tesi e l’antitesi sono condizioni reali di ciascuno di noi che la riflessione filosofica, astraendo, proietta in una preistoria puramente filosofica: se l’Io è sforzo morale, allora in lui vi saranno l’attività infinita e la sua autolimitazione. Cerchiamo di tirare le fila su quanto finora detto circa Fichte: alla domanda “di che cosa siamo fatti, noi singole coscienze morali e, per ciò stesso, libere?”, egli risponde che a costituirci è un’infinita (cioè inesauribile e illimitata) attività della ragion pura pratica, cioè l’infinito autoaffermarsi dell’Io in quanto attività morale e il suo simultaneo autolimitarsi diventando la molteplicità delle sensazioni. Da sempre l’infinita attività morale così si limita: siamo fatti di un’infinita attività morale e dalle sensazioni, diventando le quali essa si è limitata. Proprio perché siamo siffatti, siamo quel che siamo (finite coscienze morali libere), ovvero siamo lo sforzo etico che siamo: più precisamente lo sforzo pratico (teoretico/pratico) dell’Io di recuperarsi oltre il limite, vale a dire lo sforzo d’essere ciò che virtualmente sarebbe (pura auto-identità) se da sempre e per sempre non si limitasse. Ci rappresentiamo il mondo trasformando l’oscuro sentire in un mondo fatto di oggetti situati spazio/temporalmente: così facendo, il limite è trasformato in ostacolo superabile, in mondo di oggetti nel quale progettare e attuare i propri fini. Già essendo coscienza teoretica, la coscienza umana finita è sforzo pratico dell’Io di autorecuperarsi, ma tale sforzo inizia come coscienza teoretica. Avvertiamo la voce dell’imperativo categorico e lottiamo contro i sensi nel tentativo sempre reiterato di affermare la razionalità pura dell’Io. Ciò vuol dire che siamo fatti di una cosa sola, ossia dell’infinita attività morale dell’Io, che è il principio primo dell’intera realtà. Tale infinita attività è il principio che però non sussiste di per sé separato e anteriore, ma solo nelle sue modificazioni, come sforzo teoretico/pratico. Dei tre principi che Fichte enuncia, i primi due sono astrazioni operate dalla riflessione: l’Io e il non-Io non sussistono mai come tali, esiste sempre il terzo principio, cioè la molteplicità delle coscienze finite e la molteplicità degli oggetti finiti che esse si rappresentano come sintesi di tesi e antitesi. Fichte per un verso ha dedotto le coscienze finite umane pratiche, per un altro è pervenuto ad una concezione in cui il finito si trova assolutizzato: Kant aveva postulato la libertà senza dedurla, mentre Fichte si sente in grado di dimostrarla; al contrario, ogni prospettiva realistica che parli di un mondo reale slegato dalla coscienza non può che avere un esito deterministico e negatore di ogni libertà. Sicché la più coerente esposizione del materialismo è quella del sensismo francese, in cui l’uomo è inteso come zimbello delle sue passioni e della sensibilità. Fichte dimostra che è la libertà dell’Io a fondare il non-Io, limitandosi liberamente: l’Io resta indipendente dalla sua limitazione, che ha lui stesso posto con un atto libero. La libertà è allora tale precisamente per il fatto che è essa stessa a porre il mondo esterno: lungi dall’essere passiva, la ragione è attività pura. Nulla può l’antitesi contro la tesi: può sì limitarla, ma mai sopprimerla. Così l’idealismo spiega la libertà pratica, mentre il realismo sortisce esiti deterministici. La prospettiva fichteana si chiude con una assolutizzazione del finito: la coscienza finita è tutta la realtà, cioè l’assoluto non esiste se non come infinito tendere a se stesso. L’unico modo di essere dell’identità è l’identità in cerca di sé. L’Io assoluto, allora, non esiste prima e fuori del finito delle coscienze, ma esiste unicamente nel finito e come finito, ovvero come sforzo pratico/teoretico. Il discorso di Fichte sull’Io assoluto non riguarda un Io assoluto che crea il mondo precedendolo ontologicamente: l’assoluto resta ideale e solo infinito è reale, mentre il finito resta coscienza finita di un singolo essere riflettente su di sé. Dire che solo il finito è reale equivale a dire che l’assoluto è reale solo nel finito, come attività del finito stesso: lo spirito finito è tutto, ma non è l’assoluto compiuto; l’assoluto è allora un ideale verso cui il finito tende senza tregua. Fichte afferma l’indeducibilità della molteplicità concreta delle cose: sia la molteplicità delle cose sia quella delle coscienze rientra nella categoria del fatto e dell’accidentale, ragion per cui non v’è risposta a domande del tipo “perché questo mondo?”, o “perché questi individui?” o ancora “perché ci rappresentiamo questo nostro mondo?”. Il contenuto concreto delle coscienze individuali resta, nella sua contingenza e concretezza, insondabile per la riflessione trascendentale, la quale riesce però a dedurre i tratti e la struttura generale della coscienza finita, ma non il suo contenuto. Perciò tutte le domande relative ai contenuti empirici (ad esempio “perché questo corpo?”, “perché questo mondo?”, e così via) sono domande impertinenti, alle quali Fichte non risponde, in quanto esulanti dalla riflessione trascendentale. In un celebre frammento, Schlegel nota che Fichte, la Rivoluzione Francese e il Guglielmo Meister di Goethe sono i vanti dell’epoca e, in un altro frammento, fa cenno all’accusa di ateismo intentata a Fichte: “Fichte avrebbe dunque attaccato la religione? Se l’essenza della religione è interesse per il soprasensibile, allora tutta la sua dottrina è religione in forma di filosofia”. Da ciò si evince l’influsso che Fichte esercitò sui giovani Romantici: l’uomo di cui egli parla è in costante tensione verso l’infinito, ripudia gli scopi sensibili e finiti di cui fa vanto l’Illuminismo.

Alessandro Klein negli appunti degli studenti del suo corso sul Romanticismo all'Università di Torino 2004-2005



lunedì 10 maggio 2010

Caspar David Friedrich: Paesaggio Boemo. Claudio Di Scalzo Manuale di Classe

 




Il movimento romantico, che trovò la sua espressione specialmente nella letteratura dell’inizio del diciannovesimo secolo (Novalis, Tieck, Schlegel) è rappresentato nella pittura tedesca con particolare evidenza da Caspar David Friedrich, nato nel 1774 a Greifswald. Dopo aver studiato quattro anni a Kopenhagen, si trasferì per sempre, nel 1798, a Dresda. Seppe realizzare nei suoi quadri gli ideali di questo movimento artistico con una purezza non raggiunta neanche da Runge o dai Nazareni. La sua pittura vuole rinnovare l’eticità dell’arte, risvegliare il senso di venerazione per la divinità, che era andato quasi perduto durante la monarchia assoluta. Non è un caso che Caspar David Friedrich scelga come soggetto dei suoi quadri quasi esclusivamente il paesaggio: è infatti il paesaggio che, per la sua vicinanza a Dio, la sua purezza, l’essere e il divenire che sempre sono in esso racchiusi, può divenire un simbolo del cosmo. Il pittore anela a perdersi in questo cosmo. E Veramente i paesaggi di Friedrich non sono paesaggi realistici, come quelli che saranno dipinti dalla scuola di Barbizon o dagli Impressionisti, ma vogliono semplicemente contenere tutta la nostalgia dell’infinito, quel sentimento quasi mistico che distingue l’anima romantica.

Friedrich disse una volta che un pittore non deve dipingere solo quello che vede davanti a sé, ma anche quello che vede in sé - e cosi diventa facile comprendere che egli non abbia ritratto fedelmente la natura in nessuno dei suoi quadri; ma che abbia invece fatto, dapprima, numerosi schizzi che riportava poi, nel suo studio, sulla tela. Quanto sia forte la sensibilità romantica dei suoi quadri, è dimostrato anche dai motivi che egli preferisce: l’alba, il tramonto, o una notte di luna, ovvero quelle ore che, a differenza del giorno chiaro, non fanno vedere le cose come esse sono, senza possibilità di illusione, ma ne mostrano il divenire o il trapassare, lasciando piena libertà al gioco della fantasia. Già nel suo primo grande quadro, Croce in montagna, Altare di Tetschen, del 1807, (Dresda, Gemäldegalerie) una grande croce sta, sullo sfondo del sole calante, sull’alta cima di un monte. La profonda religiosità di questo quadro colpisce ogni volta che lo guardiamo. Nei quadri di Friedrich la figura umana appare di rado e, quando appare, è assorbita dalla natura, e non ha altra funzione se non quella di essere un ponte verso l’infinito, di attirare l’attenzione dell’osservatore, rendendo più accessibile il vero contenuto del quadro. Sono quasi sempre figure viste di spalle, come i due uomini che contemplano la luna, o come la gente che guarda le navi ancorate nel porto, nella luce vespertina del giorno che volge alla fine. Come uomo l’artista fu un solitario, malgrado imolti onori, e malgrado anche la sua amicizia con il dotto e versatile Cari Gustav Carus, il poeta Ludwig Tieck, Gerhard Kuegelgen, e il pittore Dahl.


PAESAGGIO BOEMO
Stoccarda, Staatsgalerie

I monti del Riesengebirge hanno sempre ispirato a Caspar David Friedrich grandiosi paesaggi. Egli trascorre in questa regione interi periodi di cura, e vi trovò sempre proprio ciò che voleva comunicare agli uomini attraverso il linguaggio dell’arte: vi trovò l’essenza dell’infinito e la via che conduce all’intenzione dell’onnipotenza divina. Anche questo paesaggio montuoso ci sorge davanti come un simbolo della natura vergine e incontaminata. La notte vela ancora i prati in primo piano e tesse le sue ombre nell’oscurità del bosco; ma nelle vallate si distilla già la fredda luce del giorno incipiente che rischiara, senza disegnarla con esattezza, la topografia della regione. Contorni precisi serrano però la forma dell’alta montagna slanciata verso il cielo, che, nella sua trasparenza appena velata di nebbia, ben rende l’atmosfera della luce mattutina. Ed è proprio il cielo che domina il quadro, benché sia l’alto monte, sottolineato dalle due grandi querce solitarie in mezzo ai prati, a segnare il centro. Ma la via che conduce alla vetta è nascosta e, se anche la si raggiunge, superando le varie alture a destra, non vi si trova riposo, perché lo sguardo è spinto in alto nell’ampiezza appena intuibile del cielo, da cui incede il nuovo giorno.

Questo sognante intuire, che fa evadere il pensiero dall’immagine reale, è il contenuto essenziale di questo e degli altri quadri dell’artista.





Claudio Di Scalzo Manuale di Classe: Da Beethoven a Mahler. Romanticismo e tardo Romanticismo




                                                                    Gustav Mahler


MUSICA DEL ROMANTICISMO E TARDO ROMANTICISMO
(Beethoven eroico, Berlioz, Mahler)

Dopo il massimo fulgore del classicismo, raggiunto con Haydn e Mozart, anche se nel salisburghese ci sono già empiti preromantici come nelle ultime sinfonie, i compositori cercarono di superarne gli esisti nella scrittura musicale. I musicisti del periodo romantico cercarono un’espressione più diretta di quanto permettessero le forme del classicismo: la loro linea rifletteva bene il periodo di sconvolgimenti politici dell'Europa del tempo, che si fecero sentire anche in altri campi artistici.
L'età detta "delle rivoluzioni", tra il 1789 ed il 1848 (che per l'Italia culminò con la III guerra d'indipendenza del 1866), fu associata alla partecipazione attiva di artisti e intellettuali che sarebbe arduo elencarli tutti. Gli ideali rivoluzionari però fallirono il loro scopo, non solo di trasformazione ugualitaria della società, ma anche di diffusione liberale delle libertà dell’individuo. Emblematico l’episodio che quando Napoleone Bonaparte si fece incoronare imperatore, Beethoven distrusse la dedica dell'Eroica, sostituendo poi le parole "Al generale Bonaparte" con "Alla memoria di un grande uomo.".
Fu questo “fallimento” soprattutto sotto la Restaurazione, (se vogliamo semplificare alla maniera storicista), a sviluppare nelle menti e nei cuori l'altra componente del Romanticismo, ossia l'evasione dalla realtà: anche stavolta, in tutti i campi (e in musica con compositori come Berlioz e Mendelssohn); per questo si avverte nelel sinfonie di questi musicisti la ricerca del pittoresco e in alcuni casi dell’esotico. In particolare in certi ambiti culturali si diffuse un grande interesse per il medioevo, sopratutto verso l’alto medioevo, così come verso il macabro e l’orrido in funzione antiborghese, in particolare nelle opere di narratori e poeti come Poe e Baudelaire.


TRASFORMAZIONI IN ATTO

Con Beethoven, ed ancora di più dopo di lui, bisognò ampliare l'orchestra per adattarla a forme espressive più intense: fu aumentato il numero dei fiati, venne perfezionata la costruzione dei legni per migliorarne l'intonazione, fecero per la prima volta la loro comparsa le chiavi, per facilitare la tecnica esecutiva. Anche gli ottoni vennero modificati: entrò il trombone e, con Wagner, tube, trombe e corni a pistoin, anche questi modificati per migliorarne l'intonazione. Anche le percussioni divennero più numerose.

La classe media iniziò ad interessarsi in misura sempre maggiore alla musica colta, per cui le sale concerto si arricchirono di un nuovo pubblico: la lunghezza dei concerti era notevole, comprendendo almeno due sinfonie, movimenti di composizioni varie, suites ed ouvertures. Nacque la figura del direttore d'orchestra, a causa della complessità della gestione di orchestre sempre più grandi, mentre Spohr, Weber e Mendelssohn iniziarono la tradizione di prove condotte con grande disciplina, adeguando così l'orchestra al nuovo ed imponente repertorio.


MUSICISTI E COMPOSITORI:  DA BEETHOVEN A SCHUMANN

Senza dubbio l'uomo che incarna maggiormente il movimento romantico è Ludwig Van Beethoven. Nel periodo romantico gli autori iniziavano ad affrancarsi dalla corte, proprio in virtù di quel desiderio di libertà espressiva che li portava a mal sopportare le imposizioni dei potenti e perciò allontanarsi dalla loro protezione, e Beethoven incarna integralmente questo spirito. Beethoven non ebbe mai quel rapporto di dipendenza che invece si ritrova in Haydn e, in parte, in Mozart: durante un concerto, al pubblico che insisteva nel cicaleccio gridò: "Io non suono per i porci!", mentre al principe Lichnowsky scrisse: "(...) voi siete quello che siete per accidente di nascita; mentre io sono quello che sono per opera mia. Principi ce ne sono tanti, ma c'è un Beethoven solo!".
Musicalmente, Beethoven fu classico e insieme anche romantico, appartenendo ad entrambi i secoli; la sua grandezza sta anche nell'aver accolto e non rigettato gli elementi del classicismo, facendone una nuova sintesi alla luce dell'ideale romantico. La melodia diviene più vaga, l'armonia meno definita, ma il tutto viene comunque calato nella forma per essere controllato: i quaderni di appunti tenuti da Beethoven stesso testimoniano il desiderio di formalizzare e codificare il materiale prodotto, tipico del classicismo.
Altri autori fondamentali del Romanticismo, invece, sono più schiettamente romantici: tra questi uno dei primissimi, se non il primo, fu Carl Maria von Weber, che espresse in musica lo spirito nazionale tedesco allora rinnovato: fu il primo ad usare il termine "opera romantica", applicandolo alla sua Silvana, accolta come evento patriottico assieme a Der Freischutz (Il franco cacciatore). Contemporaneo di Beethoven fu invece Schubert, che si basò sulla forma classica in maniera diversa dal primo: in Schubert la melodia ha maggiore importanza che in Beethoven, ciò che lo fece eccellere nella musica da camera, nel pianoforte e nei Lieder, anche se peraltro scrisse delle opere (attualmente dimenticate).
Non bisogna comunque dimenticare l'apporto dei musicisti italiani, tra cui Giuseppe Verdi che con le sue innumerevoli opere occupò la scena mondiale nel campo insieme a Wagner, adottando uno stile diverso da questo. Altri grandi del periodo furono invece Pietro Mascagni, che si rifece alla scuola verista (che avrebbe avuto in Verga uno dei suoi massimi esponenti nella letteratura), Ruggero Leoncavallo (del quale l'unica opera, I pagliacci, è tuttora eseguita con successo) e Gioacchino Rossini, della prima metà del secolo: egli fu il massimo operista italiano di questo periodo, pur avendo interrotto la sua produzione solo nel 1829 (con il Guglielmo Tell). Il suo genio portò all'opera buffa quel capolavoro che è Il barbiere di Siviglia, che mise n ombra l'omonima composizione del napoletano Paisiello.
Dopo Beethoven le forme classiche vennero messe sempre più in secondo piano, forse in primo luogo nella musica per pianoforte, che dai tempi di Beethoven subiva costanti miglioramenti tecnici (tra cui la costruzione del telaio in monoblocco, cosa che permise di aggiungergli molti altri tasti e corde). Questo portò ad un graduale abbandono della sonata in favore del pezzo pianistico: tra i grandi va ricordato Fryderyk Chopin, esecutore insuperabile e innovativo compositore di musica per pianoforte, le cui linee melodiche, l'uso del rubato e del legato, influenzarono profondamente gli autori dei periodi successivi fino al XX secolo.
La trasformazione culturale si vede anche nella fondazione di riviste dedicate ai vari argomenti: a Robert Schumann si deve la pubblicaziopne della Neue Zeitschrift für Musik, sulle cui pagine vennero divulgati i fondamenti del Romanticismo in musica, e in cui Schumann riversò la sua ostilità verso la borghesia conservatrice, scagliandosi contro coloro che rifiutano le idee nuove solo perché tali. Anche Schumann, come Chopin, riversò il suo genio nelle composizioni pianistiche.


LA MUSICA A PROGRAMMA

Questo fu un fenomeno del tutto romantico, iniziato da Hector Berlioz: nella sua Symphonie Fantastique egli preparò appunto un programma che permettesse agli ascoltatori di seguire ciò che l'autore intendeva esprimere. Oltre a questo, Berlioz introdusse l'uso del tema ricorrente nella musica sinfonica (idèe fixe), usandolo spesso per descrivere idee costantemente presenti, fino all'ossessione (come appunto nella Symphonie Fantastique, in cui simboleggiava tra l'altro la passione ossessiva della donna amata).


IL TARDO ROMANTICISMO

Il romanticismo si sviluppò, con tempi e modi diversi, in tutta l'Europa, influenzando anche i compositori più di musica operistica, come Verdi e Wagner. Intanto nascevano i primi fermenti nazionalisti, in particolare in Russia, che nella musica venivano espressi con l'intento di sviluppare e divulgare la musica tipica del proprio paese: Piotr Il'ic Tchaikovskij, dopo una iniziale preferenza per le forme classiche e la musica occidentale, mostrò un avvicinamento verso la cultura del suo paese, componendo sei sinfonie su materiale popolare: come Berlioz e Liszt usò il tema ricorrente introdotto da Berlioz, sia pure in maniera meno dettagliata.
Va ricordato poi, tra i grandi musicisti tedeschi, Johannes Bramhs, di Amburgo. Il suo talento innato si rivelò durante l'esecuzione della Sonata a Kreutzer di Beethoven, a Gottinga, alla presenza del violinista Joachim: essendosi accorto che il pianoforte era intonato un semitono sotto trasportò il brano "al volo", in maniera perfetta, tanto da suscitare l'ammirazione del violinista che volle conoscerlo.
I due divennero amici, ma Bramhs mantenne rapporti ottimi anche con Schumann, pur avendo atteggiamenti diversi nei riguardi della composizione musicale. Di carattere conservatore, egli adottò nelle sue sinfonie orchestre di dimensioni ridotte rispetto a quelle usate dai contemporanei, preferendo un organico vicino a quello scelto da Beethoven.
In Bramhs l'intensità dei temi è comunque mediata da una forma rigorosamente inquadrata: le sue prime composizioni pianistiche rivelano una scrittura orchestrale, rifiutano ogni tipo di ornamento e virtuosismo fine a se stesso: Bramhs cerca sempre ritmi incisivi e spesso sincopati, con una scrittura molto portata all'accordo. Dopo le composizioni giovanili si rivolse a forme minori (a parte sei serie di variazioni): le sue opere, pur non essendo tipicamente romantiche, sono comunque spesso meditative e talvolta malinconiche, come il quintetto con clarinetto e la sonata per violoncello e piano (o brani come il Geistliches Lied per organo e coro).
Bramhs passò alla sinfonia dopo i 40 anni, componendo le sue quattro sinfonie secondo linee tradizionali ma con un carattere molto personale, e con una tale inventiva da meritargli l'appellativo di migliore sinfonista dopo Beethoven.
Bellissima, infine, la produzione vocale di Bramhs, con i suoi due cicli di Romanzen aus Magelone e Vier ernste Gesänge, o l'Ein Deutsches Requiem incentrato su testi della Bibbia luterana: la musica è qui dominata dal coro, mentre le parti solistiche assumono minor rilevanza. In Germania, la tradizione sinfonica venne portata avanti da Anton Bruckner e Gustav Mahler. Il primo, tipico tardo-romantico, fu fortemente influenzato dalla sua formazione di organista di chiesa, usando spesso le sezioni dell'orchestra come se passasse da un registro d'organo ad un altro: pur non avendo grande influenza sugli autori successivi, ebbe un continuatore in Mahler, che come Bruckner preferiva un'orchestrazione imponente e forme di ampio respiro.
Mahler compose soltanto sinfonie e Lieder, arrivando alla produzione del Lied sinfonico con il ciclo Das Lied von der Erde (Il canto della terra). Mahler inoltre ampliò ulteriormente la forma sinfonica, aumentando le dimensioni dell'orchestra più di quanto avesse fatto Beethoven, ed oltre tutto si orientò verso opere di grande durata, come ad esempio la sua ottava sinfonia, sviluppata per soli, doppio coro, coro di ragazzi ed orchestra.
In definitiva nel tardo romanticismo convivono due tendenze: una, presente in Bruckner e Mahler, è l'espansione della forma; l'altra è il tentativo di arrivare ad espressioni concise, come accade nelle composizioni pianistiche e negli ultimi lavori di Brahms. Allo stesso modo, le melodie liriche resero obsolete le strutture della vecchia sonata, portando ad un maggiore interesse verso il colore del suono e dell'orchestra, interesse questo che verrà sfruttato ampiamente dai compositori impressionisti francesi: l'impressionismo inizia proprio nel Lied, passando per i poemi sinfonici ed arriva al pieno sviluppo verso la fine del periodo romantico.



Claudio Di Scalzo Manuale di Classe: Il Romanticismo tedesco e la filosofia




                                                  

Il movimento romantico tedesco è inestricabilmente intrecciato con la filosofia, o almeno con gli esiti della filosofia dopo Kant. E per le frequentazioni dei filosofi idealisti con poeti e scrittori romantici, e per lo sviluppo che il movimento ebbe anche su riviste e in ambito universitario. Questo saggio sull'argomento del Manuale Manuale di Classe è evidentemente rivolto a studenti che studiano filosofia nei Licei, sia scientifici che pedagogici, ma, per la semplicità dell'esposizione, anche gli studenti di altri corsi possono trovarlo adatto per completare la preparazione scolastica sull'argomento. (CdS-MdC)
    

IDEALISMO E ROMANTICISMO IN UN FRAMMENTO DI HÖLDERLIN

Essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, è il cielo dell'uomo! Essere uno con tutto ciò che vive, tornare, in un beato divino oblìo di sé, nel tutto della natura, questo è il vertice dei pensieri e delle gioie, questa è la sacra vetta del monte, la sede dell'eterna quiete, ove il meriggio perde la sua afa e il tuono la sua voce, e il mare infuriato assomiglia all'ondeggiare d'un campo di spighe. (Hölderlin)


DAL CRITICISMO KANTIANO ALL'IDEALISMO

Sul finire del Settecento, i contemporanei di Kant erano pienamente consapevoli dell'enorme importanza del pensiero critico, tanto da accostare, per il radicale cambiamento introdotto, la rivoluzione copernicana operata dal pensatore tedesco in ambito gnoseologico alla rivoluzione francese. Tuttavia, si era convinti che con Kant il criticismo non avesse raggiunto la sua piena formulazione, in quanto continuavano a vivere dualismi inconciliabili (sensibilità/intelletto, soggetto conoscente/soggetto agente, noumeno/fenomeno), ecc. Muovendo da queste considerazioni, alcuni pensatori della Germania a cavallo di secolo, generalmente indicati col nome di post-kantiani, diedero vita ad una vivace discussione sul valore del criticismo e sulla necessità di effettuare una revisione del kantismo. In realtà, con il passaggio di secolo cambia quello che Hegel definirà lo spirito del mondo: cominciano ad affacciarsi prospettive romantiche, con l'inevitabile conseguenza che molte delle tesi esposte da Kant e perfettamente accettabili in un panorama illuministico, diventano ora improponibili.

Uno dei primi ad intervenire, quando Kant era ancora in vita, nel dibattito sul criticismo fu KARL LEONHARD REINHOLD (1758-1823), con il Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione (1786-1788). Reinhold non aveva la pretesa di presentarsi come pensatore originale: lasciatosi convincere dalle tesi kantiane, egli sente il dovere di divulgarle e lo fa inserendo, inavvertitamente, alcuni elementi nuovi, che apriranno la strada all'idealismo. Reinhold sottolinea che il soggetto e l'oggetto non sono pensabili separatamente : non potrei mai pensare il soggetto senza tener conto dell'oggetto, e, viceversa, non potrei mai pensare l'oggetto senza tener conto del soggetto. Ne consegue inevitabilmente che soggetto e oggetto vengono da Reinhold concepiti e pensati come due facce della stessa medaglia, come se essi facessero riferimento ad un unico principio: la coscienza, intesa come facoltà della rappresentazione. Il soggetto costituisce la forma della conoscenza, cioè l'attività tramite la quale il molteplice viene unificato in un concetto, mentre l'oggetto ne costituisce la materia, cioè il contenuto rappresentativo che viene unificato. Questa indissolubile relazione, all'interno della rappresentazione, dell'elemento soggettivo-formale e di quello oggettivo-materiale giustifica la stretta connessione tra le diverse facoltà conoscitive: nella sensibilità l'oggetto prevale sul soggetto, nell'intelletto vi è equilibrio e nella ragione vi è un predominio della libera attività del soggetto. Secondo Kant, noi costruiamo l'oggetto fenomenico, ma a monte di esso esiste comunque una cosa in sé (noumeno), indipendente dal soggetto e dalla sua attività costitutiva: proprio con questa distinzione Kant prendeva le distanze dall'idealismo berkeleiano. Ora, Reinhold, concependo il soggetto e l'oggetto come facce di un'unica azione (la rappresentazione), fa venir meno la netta distinzione kantiana tra soggetto e oggetto. Sebbene Reinhold si consideri pienamente kantiano, egli apre la strada all'idealismo e alla sua tesi fondamentale: secondo la tesi idealista, è il soggetto che costruisce l'oggetto partendo da zero. A ben pensarci, una sorta di perdita della cosa in sé c'era già stata in Kant: più passava il tempo e più egli si convinceva che la cosa in sé fosse un concetto puramente negativo (noumeno è ciò che non è fenomeno), con un'attenuazione dell'autonomia dell'oggetto. E il passaggio all'idealismo consiste proprio in una progressiva eliminazione della cosa in sé kantiana ; non a caso, l'idealismo tedesco di fine settecento può essere definito come il progressivo tentativo di identificare l'oggetto con il soggetto, con una sfumatura tipicamente monistica : l'obiettivo ultimo, infatti, è trovare un principio che possa spiegare tutto quanto. Occorre dunque superare la sfilza di dualismi irrisolti lasciati in eredità da Kant (primo fra tutti quello soggetto/oggetto) riconducendoli, come tutto il resto, ad un unico principio. Queste problematiche sono già in parte avvertite da Reinhold, il quale risolve il problema della cosa in sé con questo ragionamento: l'aspetto formale della conoscenza, imputabile esclusivamente al soggetto, rientra nell'ambito della rappresentazione, al contrario, la materia conoscitiva deriva da una cosa in sé intesa come un qualcosa di assolutamente indeterminato e inconoscibile; in quanto tale, essa non è nemmeno rappresentabile, cioè cade al di fuori della rappresentazione stessa. E, non essendo rappresentabile, essa non è alcunchè di reale, poichè, se lo fosse, sarebbe un oggetto e rientrerebbe nella rappresentazione. La cosa in sé è dunque solo un concetto che, per quanto necessario alla giustificazione dell'elemento materiale della conoscenza, per la sua stessa impensabilità va al di là della rappresentazione e, quindi, della realtà.

Autore di grande rilievo per il passaggio dal kantismo all'idealismo è anche GOTTLOB ERNST SCHULZE (1761-1833), il cui pseudonimo fu Enesidemo. Nel 1792 apparve anonimo il suo scritto Enesidemo, ovvero sui fondamenti della filosofia degli elementi sostenuta a Jena dal sig. prof. Reinhold, assieme a una difesa dello scetticismo contro le pretese della critica della ragione. Nella filosofia critica, da lui intesa come fusione del pensiero di Kant e di Reinhold, Schulze rinviene una serie di contraddizioni che giungono all'apice con l'affermazione della cosa in sé. Egli difende le posizioni dello scetticismo e vede in Reinhold un difensore ortodosso del criticismo, senza tener conto delle modifiche che ha apportato. Nel testo poc'anzi citato, Schulze muove una critica esplicita alla cosa in sé, mettendo in evidenza le contraddizioni scaturite dal criticismo. Kant ha mostrato razionalmente come la categoria di causalità sia applicabile legittimamente solo in ambito empirico, però poi ne ha fatto un uso meta-empirico applicandola alla cosa in sé: dicendo che la conoscenza altro non è se non il frutto dell'elaborazione del materiale d'esperienza, a sua volta frutto della cosa in sé , non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa in sé come causa? La cosa in sé è infatti intesa come un qualcosa che causa, in maniera oscura, l'emergere dell'esperienza. Se la cosa in sé modifica i nostri organi di senso poichè da essa ricevono il materiale dell'esperienza, vuol dire che la cosa in sé agisce causalmente su di noi. Il paradosso colto da Schulze è che la cosa in sé resta inconoscibile, ma attorno ad essa Kant costruisce l'intero processo conoscitivo. Altro paradosso: Kant dice che si può conoscere solo se si unificano dati dell'esperienza con l'intelletto, con la conseguenza che dove non c'è esperienza non c'è conoscenza; tuttavia egli ammette la conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell'intelletto, riconoscendo dunque che si può avere conoscenza anche senza l'apporto della sensibilità. L'intera Critica della ragion pura è proprio questo, un tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha spiegato, paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono inconoscibili. Tutto ciò porta Schulze a rifiutare l'esistenza della cosa in sé poichè, ammettendola, si cadrebbe inevitabilmente in contraddizione. Ecco che con Schulze entriamo pienamente nell'idealismo: tutti gli autori di questo periodo (Schulze compreso) hanno la pretesa di essere, per così dire, più kantiani di quanto non fosse Kant stesso, quasi come se il pensatore di Königsberg fosse stato ispirato dallo spirito giusto (l'idealismo), ma non avesse avuto il coraggio di spingersi oltre: la spinta idealistica, in effetti, è presente in Kant, soprattutto quando egli afferma che la conoscenza ruota tutta attorno al soggetto; ammettendo però l'esistenza di una cosa in sé, egli si è macchiato di pavidità, non avendo avuto il coraggio di riconoscere che tutto dipende dal soggetto.

Sulla strada iniziata da Schulze si inoltra, percorrendola fino in fondo, Salomon ben Joshua, un ebreo lituano studioso di Mosè Maimonide, dal quale assunse lo pseudonimo di SALOMON MAIMON (1754-1800). Il suo pensiero trova l'espressione più matura nello scritto Ricerche critiche sullo spirito umano (1797). Se le contraddizioni del criticismo portavano Schulze a propendere per lo scetticismo di stampo humeano, Maimon è del parere che si possa restituire piena validità al criticismo, a condizione di una completa eliminazione della cosa in sé , la quale altro non è che un assurdo residuo di dogmatismo, quasi come se Hume non fosse stato in grado di svegliare del tutto Kant dal sonno dogmatico in cui era sprofondato. Se tutto ciò che è rappresentabile è contenuto nella coscienza, come asseriva Reinhold, allora la cosa in sé, cadendo al di fuori della coscienza ed essendo irrappresentabile, è una non-cosa (in tedesco Unding ) e una mostruosità inaccettabile. Essa viene accostata da Maimon ai numeri immaginari, alla radice quadrata di un numero negativo, che sono nella loro stessa essenza impossibili. Ma l'eliminazione totale della cosa in sé significa riconoscere che l'intera conoscenza, per quel che riguarda i suoi princìpi e i suoi contenuti, cade nella sfera della coscienza. Il dato non proviene da fuori, ma è ciò di cui, all'interno della coscienza, abbiamo ancora una conoscenza imperfetta e incompiuta: più precisamente, esso è l'elemento indeterminato della conoscenza, quel che non è ancora stato determinato dalle forme a priori dell' Io. Al di fuori della coscienza non c'è nulla: nel caso della conoscenza meramente intelligibile (matematica) il soggetto può determinare del tutto il proprio oggetto, nel caso della conoscenza sensibile, invece, è possibile solo un avvicinamento indefinito alla completa determinazione, senza poterla mai ottenere. Se penso ad un triangolo, il mio intelletto inquadra totalmente l'oggetto in questione; ma quando ho un approccio conoscitivo con l'oggetto sensibile che mi sta di fronte (ad esempio il libro), una parte di esso sarà inquadrata dalle mie facoltà conoscitive, mentre una parte ne resterà esclusa e costituirà la famigerata cosa in sé. Questo residuo di indeterminatezza è ciò che ci fa apparire l'oggetto come dato, e non come prodotto del soggetto. Così facendo, Maimon sgancia il criticismo dal suo ancoraggio empirico e lo avvia verso esiti idealistici. Maimon porta alle estreme conseguenze il fatto che la cosa in sé sia un concetto puramente negativo, arrivando a concepirla come assolutamente relativa: la cosa in sé altro non è se non quel residuo non perfettamente inquadrato dalle forme conoscitive dell'uomo; è ciò che resta fuori dall'inquadramento categorico. Il processo conoscitivo va avanti all'infinito e, proprio per questo, non potrà inquadrare tutto nelle sue forme: ciò che resta non-inquadrato è appunto la cosa in sé.

L'espunzione della cosa in sé dal quadro del criticismo viene ribadita anche da JACOB SIGISMUND BECK (1761-1840), autore di uno scritto dal titolo L'unico punto di vista dal quale può essere giudicata la filosofia kantiana (1796). Beck si propone di interpretare il pensiero kantiano in modo da coglierne la verità essenziale e rimanere fedele ad esso, ma, ciononostante, egli finisce per compiere un ulteriore passo verso l'idealismo: a ragion veduta, dunque, egli viene sconfessato da Kant. Beck, in modo simile a Fichte, distingue due momenti nello sviluppo del processo conoscitivo: la produzione originaria e il riconoscimento. Se la cosa in sé non esiste, ne deriva necessariamente che il processo con cui il soggetto genera l'oggetto non è più una costruzione (organizzazione intellettuale di dati sensibili), ma una produzione: non lavoro su materiale che mi è dato (come credeva Kant), ma lo costruisco io stesso, sto all'origine dello stesso materiale che poi dovrò conoscere. Ne consegue che l'oggetto è una produzione del soggetto, il quale produce sia la forma sia il materiale della conoscenza. Il mondo che mi circonda è una mia produzione: non è vero che esiste un mondo e noi lo vediamo in modo diverso da come è (come credeva Kant); al contrario, il mondo lo produciamo noi (produzione originaria). Sembra un paradosso, poiché, se io come soggetto produco il mondo, come mai quando nasco sono convinto che esso esista indipendentemente da me, ovvero come oggetto a sé stante? Perchè abbiamo l'impressione di avere di fronte un mondo da noi indipendente? Beck lo spiega con il secondo passo dello sviluppo nel processo conoscitivo, il riconoscimento: il soggetto produce l'oggetto (produzione originaria), ma lo fa in modo inconscio, dopo di che lo riproduce, ovvero lo riconosce (riconoscimento). L'illusione che esista una cosa in sé, un mondo da noi indipendente nasce proprio dal fatto che la produzione originaria sia inconscia, produciamo il mondo senza rendercene conto. Fichte spiegherà anche il senso di questa operazione, Beck si limita a proporla. In lui è implicita anche l'idea che vi sia una sorta di processo triadico per cui il soggetto pone l'oggetto, e poi lo riconosce, quasi come se lo recuperasse, in una sorta di processo triadico: prima c'è il soggetto che sta in sé, poi c'è il soggetto che pone l'oggetto e, infine, c'è il soggetto che recupera l'oggetto riconoscendolo. Questo, peraltro, è molto vicino alla Trinità cristiana: c'è il Padre, poi il Padre che genera il figlio e infine l'amore tra i due (Spirito Santo). Ad esplicitare quest'idea, presente embrionalmente in Beck, sarà Hegel. Su queste basi finora esposte nascerà la celebre triade degli idealisti, costituita da Fichte, Schelling e Hegel. Essi si succedono in tempi molto ravvicinati, cosicché la parabola discendente dei primi due è molto rapida, poichè di volta in volta il nuovo arrivato oscura la fama del suo predecessore. E così il periodo culminante della riflessione fichteana si colloca negli ultimissimi anni del Settecento, quando sarà surclassato dall'appena venticinquenne Schelling, il cui predominio si estenderà fino al 1807 e non oltre: a questo punto entrerà in gioco Hegel. Dopo la fatidica data del 1800, quando ormai il suo astro è declinato, l'esito del pensiero di Fichte prende una coloritura teologico-religiosa: è interessante, perché il periodo che segue alla filosofia kantiana è caratterizzato da una polemica anti-intellettualistica, una polemica contro l'intelletto, ovvero contro la facoltà conoscitiva del finito; in età romantica, dove è particolarmente sentita la ricerca dell'infinito, all'intelletto, che era la facoltà preferita da Kant e dagli illuministi, subentra la ragione, ovvero la facoltà di cogliere l'infinito, l'assoluto. In questo panorama vi saranno due atteggiamenti diversi: ci sarà chi rifiuterà sia l'intelletto sia la ragione, avvicinandosi in tal modo alle posizioni mistico-intuitive; ci sarà poi chi, come Hegel, riconoscerà l'inferiorità dell'intelletto rispetto alla ragione e, dunque, si dedicherà interamente ad essa. Il rischio della critica all'intelletto è, per così dire, di farsi troppo coinvolgere e di finire per travolgere con tale critica anche la ragione, negandole ogni legittimità conoscitiva. Resta però vero che tutta la cultura romantica sarà anti-intellettualistica, ma non tutta sarà anti-razionalistica (Hegel in primis). Naturalmente, finché all'intelletto contrappongo la ragione e mi attengo ad essa, resto pur sempre nella sfera della filosofia, dell'indagine razionale; se però, oltre a criticare l'intelletto, critico anche la ragione, ecco che non mi muovo più nell'ambito della filosofia, la quale affonda le sue radici nella razionalità. Tornando ai tre idealisti, l'unico che resta coerentemente fedele alla ragione, fino in fondo, è Hegel (la sua scala gerarchica sarà 1 filosofia, 2 religione, 3 arte); Fichte e Schelling, invece, partono entrambe dalla filosofia per poi sconfinare in campi che esulano dalla ragione: Fichte riconoscerà il privilegiamento della religione, Schelling dell'arte. In questi due pensatori è come se, paradossalmente, la ragione decretasse essa stessa il proprio suicidio, appellandosi alla religione (Fichte) e all'arte (Schelling).


IL ROMANTICISMO

Sul finire del Settecento la Germania conosce una formidabile fioritura culturale e la filosofia tedesca assurge a vero e proprio centro della filosofia mondiale, tant’è che si è spesso parlato di età classica tedesca . Sul piano filosofico il periodo è contrassegnato da tre diverse manifestazioni: 1) il criticismo (che nasce e muore con Kant) 2)l’idealismo (di cui abbiamo parlato), che muove dalla riorganizzazione sistematica dell’opera kantiana per approdare alla negazione della cosa in sé 3) il romanticismo, che sfugge ad ogni precisa determinazione cronologica e contenutistica. Mancano infatti date precise dello sviluppo di tale movimento ma, come se non bastasse, mancano anche criteri oggettivi per decretare la romanticità degli autori. Se nell’Illuminismo regnava l’idea di uscire dalla precedente epoca buia grazie ai lumi della ragione, nel Romanticismo la questione è invece più complessa. Si può tentare di stabilire un raffronto, cogliendone il rapporto, tra Romanticismo e idealismo. L’idealismo è a pieno titolo la filosofia dell’età romantica, eppure non tutto l’idealismo è filosofia romantica: ovvero, l’idealismo nasce e vive in età romantica, ma non per forza esso costituisce la filosofia romantica. Hegel stesso, il più grande idealista, muove pesanti critiche al Romanticismo, pur essendo per molti aspetti egli stesso romantico. Forse l’elemento che meglio contraddistingue il Romanticismo è la vivace polemica anti-intellettualistica, combattuta contro l’intellettualismo illuminista. L’intera filosofia kantiana, massima espressione dell’età illuministica, rivendicava l’assoluto privilegiamento dell’intelletto (facoltà del finito) a discapito della ragione (facoltà dell’infinito), nella convinzione che la conoscenza umana, per essere legittima, non poteva mai assumere carattere infinito. I Romantici stravolgono l’insegnamento kantiano, convinti che attingere l’infinito sia azione legittima: ne consegue inevitabilmente che, essendo legittimo l’uso sia dell’intelletto sia della ragione, si preferirà la ragione, in grado di mettere l’uomo in contatto con l’infinito. Tuttavia, se buona parte dei Romantici (Hegel in primis) si schiererà a favore della ragione intesa come facoltà dell’infinito e contro l’intelletto inteso come facoltà del finito, un’altra grande fetta di intellettuali dell’epoca si lascerà troppo prendere dalla foga contro l’intelletto e finirà per polemizzare contro le facoltà razionali in generale (compresa la ragione): ora, è evidente che se ci si allontana dall’intelletto ma si resta fedeli alla ragione si può pur sempre elaborare un sistema filosofico, e non a caso Hegel, acerrimo nemico dell’intelletto, darà vita alla più grande elaborazione filosofica razionale mai esistita. Se però, accanto all’intelletto, si respinge anche la ragione, si esce dalla sfera filosofica e si sfocia in ambiti mistici. Se l’idealismo, nel complesso, tendeva a travolgere l’intelletto nella sua polemica ma riconosceva la validità della ragione, i Romantici, per lo più, si scaglieranno sia contro l’intelletto sia contro la ragione , decretando, paradossalmente, l’impossibilità di una filosofia romantica: ecco perché il più grande filosofo dell’età romantica, Hegel, sarà nemico del Romanticismo. Della triade idealista, i due più strettamente romantici sono proprio Fichte e Schelling, il cui pensiero giunge a staccarsi completamente dalle facoltà razionali, mentre il meno romantico (Hegel) è quello che resta più razionale. Forse l’elemento più comune ai pensatori romantici è l’accesa polemica contro il razionalismo . Alla ragione, dichiarata incapace di cogliere l’essenza più profonda della realtà e della natura umana, vengono contrapposti il sentimento, l’istinto e la passione. Si è spesso detto che la contrapposizione tra Illuminismo e Romanticismo risiede proprio nella riscoperta romantica della passione e del sentimento in antitesi alla fredda e rigorosa ragione illuministica: in realtà, con i Romantici vengono approfonditi e portati alle estreme conseguenze la passione e il sentimento, che però erano già stati scoperti e valutati positivamente da Illuministi quali Rousseau (La nuova Eloisa). Una differenza forse meno lampante ma senz’altro più corretta sta nella tendenza romantica a rivendicare la spiritualità a discapito del materialismo illuministico. Già Kant aveva timidamente aperto spiragli verso l’interiorità e la soggettività attuando la rivoluzione copernicana del pensiero; ora, i Romantici approfondiscono la questione e portano a compimento la progressiva attenzione alla soggettività avviata da Petrarca. Va però precisato che per soggettività bisogna intendere l’interiorità, il cuore delle passioni, e che l’esaltazione di tale componente della natura umana porta ad una rilevante rivalutazione dell’individualità. L’Illuminismo tendeva a far prevalere (perfino in ambito politico) ciò che era uguale, universale e valido ovunque, nella convinzione che vi fossero cose buone o cattive, giuste o sbagliate, in assoluto, a prescindere dalla specificità delle condizioni: secondo gli Illuministi si trattava di scegliere sempre e ovunque il giusto seguendo i dettami della ragione, senza tener conto della realtà o del periodo storico in cui si fosse. Il Romanticismo, invece, esalta la dimensione dell’individualità, facendo però delle distinzioni: ci sarà l’individualità singola, e da essa nascerà l’idea, tipicamente romantica, del genio , ovvero la convinzione che vi siano individui privilegiati e superiori agli altri (da cui spesso non vengono compresi) poiché capaci di cogliere l’essenza più intima della realtà. Non a caso sorge il desiderio di originalità e sempre più frequente diventa l’accusa di plagio, fino ad allora pressochè sconosciuta, in un clima in cui si vuole reagire all’incipiente massificazione avviata dall’appiattimento borghese della Rivoluzione Francese. Va poi ricordato che, dopo il 1815, siamo negli anni della Restaurazione ed è forte la delusione per il fallimento del progetto napoleonico, sicchè alcuni spiriti più sensibili sentono il desiderio di ribellarsi al clima soffocante della Restaurazione e lo fanno con opere d’arte fuori dal comune, degne di un genio. Vi è poi anche esaltazione dell’individualità collettiva : in reazione all’universalismo propugnato dagli Illuministi, si rivalutano le unità collettive, le distinzioni tra popoli e tra culture. Nasce l’idea che ciò che è giusto a Parigi può non esserlo a Napoli, sostiene Vincenzo Cuoco, a sottolineare che è assurda l’universalità astratta degli Illuministi. Non è vero che ciò che la ragione addita come giusto sia giusto ovunque e comunque, senza tener conto delle condizioni materiali effettive: ciò che è giusto a Parigi può esserlo anche a Napoli a patto che lo si cali nella concretezza della situazione, tenendo conto delle differenze effettive che intercorrono tra le due città. Connesso alla soggettività è anche il concetto di infinito , uno dei più Romantici: venendo meno la cosa in sé kantiana, il soggetto può legittimamente aspirare ad attingere l’infinito attraverso la ragione, la quale assurge così in posizione dominante rispetto all’intelletto. Perché però si predilige proprio in età romantica la ragione, ovvero la facoltà dell'infinito? Finché ritengo, sulle orme di Kant, che vi siano due princìpi della realtà (soggetto e oggetto) e due della conoscenza (forma e contenuto) radicalmente separati, tale ammissione comporterà che la mia conoscenza sia finita (privilegiamento dell'intelletto) perché vi sarà pur sempre qualcosa fuori di me e che non potrò mai del tutto riassorbire nella mia testa: se conoscere significa, per così dire, introdurre l'oggetto dentro di sé, inquadrarlo, per Kant possiamo solo conoscere ciò che abbiamo messo noi, con le leggi del nostro pensiero, nel mondo, con l'inevitabile conseguenza che di ciò che non ho messo io nel mondo non potrò avere conoscenza certa. Ne consegue che sarà possibile solo un conoscenza finita e l'intelletto sarà lo strumento più adatto. Se però ammetto che tutto deriva dal soggetto, come fa l'idealismo, ovvero se ammetto che il soggetto non costruisce (cioè non organizza con le forme materiale che riceve dall'esterno), allora il mondo che vedo è un prodotto del soggetto e, proprio in quanto sono io stesso a produrlo, potrò conoscerlo perfettamente, totalmente, assolutamente, senza limite alcuno, con la conseguenza che la ragione (non l'intelletto) diviene lo strumento gnoseologico più adatto. L’uomo può e deve tendere all’infinito: eppure vi saranno pensatori che riterranno impossibile il raggiungimento dell’infinito, con la conseguenza che la loro filosofia sarà venata di pessimismo. Ci sarà dunque un Romanticismo pessimista , nato dall’aspirazione non realizzata all’infinito, e un Romanticismo ottimista poiché convinto che l’uomo possa raggiungere l’infinito. Le ultime lettere di Jacopo Ortis rappresentano un fulgido esempio di Romanticismo pessimista, in cui il protagonista perviene al suicidio dopo essersi capacitato dell’impossibilità di cogliere l’Infinito. Il pessimismo cosmico di Leopardi poggia su basi analoghe: l’uomo aspira all’infinito, eppure non può mai spingersi oltre al finito, dunque la sua vita è tormentata dal dolore e dalla sofferenza per non potersi spingere laddove vorrebbe. Hegel rappresenta invece il caso più lampante di Romanticismo ottimista: egli è convinto che l’uomo possa, avvalendosi della ragione, raggiungere l’infinito ed è uno dei filosofi più ottimisti della storia, tanto da arrivare a dire che "ogni negativo è anche positivo". Anche pensatori quali Fichte e Schelling sono fortemente ottimisti, sebbene per essi l’Infinito sia raggiungibile esclusivamente con strumenti extra-razionali (religione e arte). Ecco dunque che in alcuni pensatori prevale la fede come rapporto immediato (non mediato dalla ragione) con l’Assoluto; Schelling, per dirne uno, troverà un rapporto immediato e diretto con l’Assoluto nell’arte, tramite il genio creativo. Altri due concetti tipicamente romantici su cui spesso si è voluta costruire la contrapposizione con l’Illuminismo sono la storia e la natura.

In età illuministica era prevalso il meccanicismo materialista e la sua visione del mondo come grande macchina costituita da singoli ingranaggi, per cui a prevalere sul tutto erano appunto questi ultimi (in fisica gli atomi, in politica i singoli individui); questo modello appare sorpassato ai Romantici, i quali ad esso preferiscono l’ organicismo , ossia la concezione secondo la quale a contare non sono le singole parti (come era per gli Illuministi), ma il tutto preso nel suo insieme. Era stato, ancora una volta, Kant ad aprire spiragli verso questa prospettiva, quando, nella Critica del Giudizio , aveva ammesso che un essere vivente, per quanto semplice possa essere, non potrà mai essere spiegato fino in fondo dalle leggi meccanicistiche. Se il meccanicismo, poi, tendeva a concepire come macchina anche ciò che macchina non era (gli esseri viventi), l’organicismo spinge nella direzione opposta, tendendo a concepire come organismo anche ciò che organismo non è. La natura non è più, dunque, una grande macchina che si muove secondo le leggi di Newton, bensì si connota come enorme essere vivente, essa stessa riflesso di una qualche spiritualità. E così, in campo letterario, viene esaltata la corrispondenza dello stato interiore dell’uomo e della natura, strettamente connessi tra loro. A questa interpretazione ha portato l’idealismo: nel momento in cui la natura è filosoficamente dichiarata prodotto del soggetto, Io capovolto, allora è evidente che anch’essa è spirituale, basta saperlo coglierlo (e proprio qui sta la difficoltà): a cogliere la verità riusciranno di più il poeta e l’artista che non lo scienziato. La natura assume una coloritura spirituale e vitalistica: in questo panorama, tornano in auge pensatori quali Giordano Bruno (riscoperto da Schelling) e Spinoza, accomunati dalla concezione panteista della natura. Rispetto all’età razionalista e illuminista vi è un radicale capovolgimento: la scienza stessa assume una nuova veste. Se Cartesio, nella sua foga meccanicistica, era arrivato a interpretare il cuore umano come un motore a scoppio, in età romantica la natura diventa viva e divina, come l’avevano intesa Bruno e Spinoza. Gli scienziati di quest’epoca (tra cui Volta), dunque, non si interesseranno tanto di meccanica (come invece avevano fatto gli scienziati del Seicento e del settecento) quanto di magnetismo e di elettricismo, i campi meno facilmente riducibili alla meccanica, aborrita in quanto emblema del meccanicismo. Il magnetismo e l’elettricismo, poi, sono accomunati dal fatto che entrambi suggeriscono una sorta di quella vitalità della natura ricercata dai Romantici: da Talete in poi, del resto, il magnete, con la sua capacità di attirare il ferro, era spesso stato concepito come vivente e animato. Si tende con insistenza a ricercare una polarità nella natura che corrisponda a quella ravvisata da Fichte tra Io e non-Io, con la pretesa di trovare una corrispondenza tra pluralità dell’attività spirituale e pluralità della natura. Gli interessi dei Romantici si concentrano anche sulla storia , particolarmente cara anche agli Illuministi: tuttavia, come nella concezione della natura, anche in quella della storia vi sono differenze. Gli Illuministi guardavano alla storia come storia degli errori umani del passato, nella convinzione che vi fossero modi razionali e naturali per vivere e che nel passato essi fossero stati compromessi da superstizioni e credenze: la storia si configurava allora come la progressiva liberazione dell’uomo dalle superstizioni e imperava la convinzione che nel passato stesse il male, nel futuro il bene e che il presente altro non fosse se non una tappa verso il bene. Sempre gli Illuministi vedevano come attore della storia l’umanità, concepita però, sulla scia del modello meccanicistico, come somma dei singoli individui e non come tutto organico. Per i Romantici non è vero né che la storia sia una sfilza di errori a cui guardare per non commetterli nuovamente né che l’umanità, l’attore della storia, sia una pura e semplice somma di individui. Vige la convinzione che l’attore della storia è uno solo e, in merito, Hegel parlerà di spirito del mondo e dirà di averlo visto a cavallo quando scorgerà Napoleone. L’attore della storia è qualcosa di più complesso rispetto alla sommatoria degli individui, è lo spirito del mondo: la storia è dunque governata non già dai singoli, bensì da un’entità superiore e su questi presupposti fioriranno le interpretazioni provvidenzialistiche (ad esempio, Manzoni ne I promessi sposi). Resta però da chiarire se tale attore della storia sia trascendente o immanente: per i Cristiani sarà trascendente, starà cioè al di là del mondo (e per Manzoni è così), per molti altri sarà immanente, ovvero governerà la storia dell’umanità dall’interno. Da questa concezione emerge la superiorità dello spirito del mondo rispetto agli individui singoli (uomini) e collettivi (stati), sebbene resti vero che gli Stati valgono più dei singoli (in antitesi alla concezione meccanicistica). Per quel che riguarda la religione e la politica, gli Illuministi erano convinti che vi fosse in assoluto qualcosa di buono e di giusto (la religione naturale e lo stato giusto) rispetto a cui le realtà storiche erano tentativi mal riusciti: per lo più gli Illuministi erano deisti e consideravano le religioni storiche come tentativo mal riuscito di riprodurre l’unica vera religione, quella razionale, che dimostrava l’esistenza di Dio ricorrendo esclusivamente alla ragione. Allo stesso modo vi era a loro avviso un modello razionale di stato giusto che bisognava applicare ugualmente in tutte le realtà. I Romantici, dal canto loro, sono del parere che a contare sia solo l’unico attore della storia, che si realizza sempre e soltanto attraverso gli individui: Hegel, ad esempio, respingerà la distinzione tra religione applicata e religione ideale, convinto che una religione è quella che è nella sua applicazione concreta, non ve n’è una ideale. Sempre Hegel parla di spirito del mondo ma anche di spirito del popolo , che sono poi la stessa cosa: infatti lo spirito del mondo, di volta in volta, si realizza in un determinato spirito del popolo. All’epoca di Pericle lo spirito del popolo greco era l’incarnazione dello spirito del mondo, come Napoleone, a suo tempo, era l’incarnazione dello spirito del mondo. Tutto questo mette in evidenza che non può esservi uno spirito del mondo ideale, staccato dalla realtà. Dunque la religione esiste sempre e solo nelle singole realizzazioni storiche, sicché non ha senso alcuno parlare di Cristianesimo ideale a sottolineare la distinzione tra la teoria del Cristianesimo e la sua concreta applicazione: il Cristianesimo è quello che è e che è stato nella prassi, nella sua applicazione. Lo stesso vale anche per gli individui: Napoleone ha incarnato in quel preciso momento lo spirito del mondo; esso era tutto lì, in Napoleone. Se ogni popolo rappresenta in un dato momento lo spirito del mondo, ciò significa che quel che la Grecia ha fatto l’ha fatto per se stessa ma soprattutto per lo spirito del mondo intero. Ecco perché in età romantica affiora l’idea che i popoli abbiano una missione: Mazzini credeva di poter riconoscere una missione dell’Italia, investita di valore universale. La tendenza di Mazzini era democratica e tale sarà anche quella di Fichte e di Schelling, mentre quella di Hegel sarà più aggressiva e poggerà sulla convinzione che il popolo che incarna lo spirito del mondo ha anche il compito di schiacciare gli altri popoli. Se gli Illuministi non nutrivano grande simpatia verso il passato, l’atteggiamento dei Romantici oscilla tra due diverse posizioni, aventi corollari politici differenti (il che spiega, tra l’altro, perché potevano essere romantici sia i progressisti sia i reazionari). Vi furono pensatori che provarono esplicita nostalgia verso il passato : in un’epoca in cui regna l’organicismo, è normale che si guardi con simpatia a quelle epoche in cui sono nate le collettività, i popoli, nella fatti specie al medioevo, che torna così in auge dopo la svalutazione rinascimentale e illuministica. Il medioevo gode delle simpatie di molti Romantici un po’ perché è l’epoca in cui son nati i popoli e le nazioni, un po’ perché la società stessa era vissuta come un tutto organico e non come un luogo in cui gli egoismi personali trovavano equilibri (come era la società illuministica), e un po’ anche perché i più reazionari guardavano con simpatia e rimpianto al feudalesimo medievale, ormai definitivamente scalzato dalla Rivoluzione Francese. Ci furono anche Romantici che ebbero un atteggiamento progressista e talvolta rivoluzionario nei confronti del passato : in un’epoca in cui è sempre più sentita l’idea di nazione, si guarda al passato medievale in cui le nazioni eran nate e c’è volontà di far parte di una nazione in chiave progressista, spesso dandosi alle rivoluzioni (il Risorgimento). Una dimensione rivoluzionaria è anche presente sul piano psicologico: non potendo essere per molti soddisfatto il naturale desiderio di raggiungere l’infinito, ci si sente spiazzati nella realtà circostante e ci si ribella. In questa prospettiva, possiamo citare ancora Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo: vi si trova il tema dell’esilio politico ed esistenziale al tempo stesso. Il protagonista, Jacopo Ortis, aspira all’Assoluto ma è relegato a realtà piuttosto modeste, sicchè opta per la rivolta e si toglie la vita. Si può essere progressisti anche per altra via, in modo connesso all’organicismo: se ammettiamo, come fa Hegel, l’esistenza di uno spirito del mondo, finiremo inevitabilmente per applicare un modello antropomorfo della storia, ovvero concepiremo le fasi storiche compiute dallo spirito del mondo come la vita di un individuo, caratterizzata da una nascita, da una crescita e da una morte. Non solo: la storia dell’individuo può anche essere vista in chiave finalistica (come faceva Aristotele) e ciò influirà sull’educazione che si impartirà ai bambini. Infatti, in chiave finalistica il bambino viene concepito in vista dell’uomo, cosicché, propriamente, ad avere un valore è solo l’uomo compiuto. Ma se la storia può essere vista come la vita di una persona e se la vita di una persona è vista finalisticamente, allora anche la storia può essere vista finalisticamente. E proprio per questo la maggior parte dei Romantici non nega che vi sia finalismo nella storia: Hegel è convinto che vi sia un fine ultimo immanente ed intrinseco dell’umanità generale, presente embrionalmente fin dagli albori della storia e destinato ad essere, prima o poi, realizzato. A contare, però, in questa prospettiva, così come nella vita finalisticamente intesa non è il bambino ma l’uomo, dovrebbe essere il futuro, recante la realizzazione della finalità, e il passato dovrebbe avere minor valore, come credevano gli Illuministi. E invece i Romantici vivono nella convinzione che tutte le tappe della storia siano importanti: Hegel, non a caso, dirà che il vero è l’intero , a sottolineare che la verità c’è solo alla fine e risiede nella storia presa nella sua interezza. Certo, anche per Hegel e per altri Romantici come per gli Illuministi la situazione storica attuale è migliore rispetto alle precedenti, che però, seppur inferiori, non sono errori bensì sono tutte tappe necessarie, gestite provvidenzialmente dallo spirito del mondo. Ecco perché ‘ ogni negativo è sempre anche positivo ‘ (Hegel): anche le guerre, le rivoluzioni, le violenze e tutte le altre cose negative sono positive perché estrinsecazione necessaria e provvidenziale dello spirito del mondo; non ci sono errori nella storia perché tutto rientra nella finalità. Proprio per questo motivo in età romantica pullulano i romanzi storici, in cui gli smarrimenti del protagonista sono necessari e giusti. Questa concezione hegeliana è per alcuni versi progressista (perché legge la storia come processo che tende verso un fine), per altri conservatrice (ciò che è successo e che succede è sempre giusto perché tappa necessaria dell’umanità: non ha senso essere rivoluzionari), ma non è mai reazionaria (non ha senso guardare con nostalgia al passato). Ecco che affiora un’altra diversità: per gli Illuministi il progresso non andava verso un fine retto da un attore divino e a farlo erano i singoli e non l'umanità come tutto organico. Ad aprire la strada al Romanticismo è lo Sturm Und Drang, una forma di proto-romanticismo estremistico, che spesso sfiora il titanismo: l’individuo si innalza da solo contro la realtà. Ed è nello Sturm Und Drang che affiora per la prima volta il panteismo, l’identificazione della natura con Dio. Il processo che porta al panteismo prende il via con Fichte: spiritualizzata la natura, il passaggio all’identificazione con Dio è dietro all’angolo. In età romantica fioriscono dunque principalmente due atteggiamenti, il panteismo e il fideismo; resta escluso il deismo, che troppo puzzava di Illuminismo. Il panteismo troverà in Goethe uno dei suoi massimi esponenti e sarà caratterizzato dall’idea che a reggere la storia sia uno spirito immanente, all’interno del mondo. Il fideismo troverà invece in Jacobi e Hamann i suoi baluardi e rivendicherà la priorità della fede su tutto, nella convinzione che non vi sia altro strumento per entrare in contatto con l’assoluto. È bene ricordare la vivace polemica sul panteismo che nacque in età romantica: si rinvengono dei documenti in cui il filosofo illuminista Lessing confessava di essersi convertito allo spinozismo. Da qui scaturisce il dibattito, che segna, tra l’altro, il ricomparire di Spinoza sulla scena filosofica, dopo circa un secolo di assenza per via del suo presunto ateismo. Ci sarà chi si schiererà al fianco di Spinoza e chi lo criticherà, ma, è interessante, tutti ne riconosceranno la grandezza e l’importanza. Chi vedrà in lui un puro e semplice meccanicista lo criticherà, ma chi scorgerà in lui un grande panteista (Goethe) come fu Giordano Bruno lo apprezzerà.

Con il filosofo HERDER e con HAMANN si stabilisce un’indisgiungibile connessione tra ragione e linguaggio. Hamann, in Metacritica del pluralismo della ragione (1784), critica la presunta purezza della ragione e finisce, come Herder, per sostenere l’inesistenza della ragion pura. Come lo spirito del mondo esiste sempre e solo incarnato, allo stesso modo non esiste una ragione che si incarna in singole manifestazioni linguistiche. Non è vero che c’è una ragione pura che effettua il ragionamento e poi esso viene meccanicamente tradotto in Italiano, in Francese e in Spagnolo. Parlare in una lingua significa, al contrario, pensare in una maniera. La ragione è, cioè, sempre calata nei suoi contenuti, proprio come la religione. E’ bene accennare a due vocaboli tipicamente romantici ed hegeliani, con significati diversi rispetto a quelli che siamo soliti attribuire noi: astratto (dal latino abstrahere ) significa ‘tirato via’, concreto (dal latino concresco ) significa ‘cresciuto insieme’. Saranno astratte cose concepite separatamente le une dalle altre; concrete saranno invece cose concepite le une in relazione alle altre. Ora, la ragione non esista mai separatamente dal linguaggio ed è dunque concreta, ovvero è concepita in relazione al linguaggio poiché è già operante in esso: 'senza il linguaggio l'uomo non ha ragione, e senza ragione non ha il linguaggio'. La ragione kantiana era astratta, poiché concepita scevra da legami con il resto. In questa prospettiva, il meccanicismo è astratto (i singoli pezzi sono concepiti separatamente) mentre l’organicismo è concreto (ogni pezzo non è concepibile se non in riferimento a tutti gli altri e, soprattutto, al tutto). È interessante notare che, accanto ad una posizione romantica in senso stretto, vi è anche, ad essa contrapposta, una posizione classicista che muove critiche formali al Romanticismo. Ad aderire a tale corrente di pensiero fu Goethe stesso, distaccatosi dallo Sturm Und Drang e dal Romanticismo, come anche, sul versante italiano, Foscolo. Tuttavia non è del tutto corretto scorgere una netta contrapposizione tra classicismo e Romanticismo, come se non avessero aspetti comuni. Infatti, se il classicismo guarda con grande simpatia al mondo classico, anche i Romantici, seppur in una maniera tutta loro, apprezzeranno il mondo della classicità.

La figura di GOETHE è interessante perché segna il passaggio dai movimenti culturali più disparati, partendo dallo Sturm Und Drang, passando per il Romanticismo e approdando al neoclassicismo. Molto interessante è la sua filosofia della natura, poichè rivela la piena adesione ai modelli organicisti allora in auge. Goethe spiega che tutte le espressioni della natura sono variazioni di un unico prototipo originario, una pianta ( Urplanz ) da cui tutti i vegetali derivano. È una concezione tipicamente romantica poiché rappresenta uno dei tanti tentativi di eliminare ogni dualismo, nella convinzione che tutto sia riconducibile ad un unico principio: con Fichte e l'idealismo si è superata la contrapposizione soggetto/oggetto, con il panteismo quella natura/Dio e Goethe, panteista convinto, tenta addirittura di ricondurre ogni vegetale ad una pianta originaria. Goethe, fra le altre cose, scrive anche un opuscolo sulla teoria dei colori, in cui contesta l'interpretazione newtoniana secondo la quale i colori sono tanti e, se mescolati, danno la luce bianca: ad essa contrappone la teoria secondo la quale, viceversa, all'origine vi è la luce bianca, vista non come il risultato di una composizione; al contrario, sono i colori che derivano dalla scomposizione di essa. Sembra una diatriba puramente scientifica, ma in realtà riveste un ruolo importantissimo in ambito filosofico: si tratta infatti del sistema meccanicistico (Newton), secondo cui a contare effettivamente sono i singoli (i colori), contrapposto a quello organicistico (Goethe), secondo cui il parziale, dotato di esistenza depotenziata, è mera manifestazione particolare della totalità.

Nel contesto classicista si inquadra perfettamente anche SCHILLER, che elabora il concetto di anima bella , riprendendo un atteggiamento grecizzante verso la morale. Noi siamo abituati all'idea che un'anima possa essere buona o cattiva, ma Schiller asserisce che può anche essere bella. Questa sua presa di posizione è riconducibile ad un una netta contestazione della morale kantiana all'epoca imperante, secondo la quale non poteva essere moralmente valutata la bontà naturale. Una persona a cui venga spontaneo essere buono, secondo Kant, non è moralmente valutabile, dal momento che non risponde alla legge morale ma all'istinto. Nell'ottica kantiana è invece passibile di giudizio morale chi, in contrasto alla propria natura di essere fisico che tende alle passioni, si rivolge alla parte di sé razionale e in base a ciò sceglie, magari contrapponendosi alla propria natura. Schiller non è affatto d'accordo e, proprio per questo, introduce il concetto di anima bella, alludendo a quelle anime che aderiscono spontaneamente al dovere morale, senza doversi sforzare. E' un'anima 'bella' nel senso che, nella terminologia kantiana, presenta un'armonia spontanea, priva di costrizioni. Da qui scaturisce la convinzione schilleriana che per creare un'anima bella sia indispensabile un'educazione di tipo estetico: l'etica, cioè, viene vissuta secondo un'interpretazione estetica e in un tale ambito trova un suo spazio anche il gioco, peraltro già rivalutato da Rousseau nell' Emilio . La valenza educativa del gioco, spiega Schiller, risiede nel fatto che in esso si manifesta la spontaneità, caratteristica peculiare dell'anima bella, e si abbattono i dualismi, secondo la migliore tradizione romantica, dal momento che nel gioco la spontaneità naturale è completamente fusa con la dimensione intellettuale: intelletto e sensibilità, proprio come nell'arte, fanno nel gioco un tutt'uno. Schiller contrappone poi, anticipando il Leopardi, la poesia ingenua alla poesia sentimentale: sarà ingenua quella poesia che fa appello alla natura, sentimentale quella che si richiama alla cultura. La poesia antica (Omero) era ingenua, mentre quella moderna è sentimentale: è tipicamente romantica l'idea che in ogni aspetto vi sia sempre una prima fase spontanea e immediata e che essa ad un certo punto vada irrimidiabilmente e necessariamente perduta. Per quanto ci si sforzi di recuperarla, il recupero non sarà più immediato, bensì sarà mediato, non vi sarà cioè più quella situazione originaria ma ve ne sarà una nuova. Ciononostante il recupero è necessario perchè non potrebbe non avvenire ed è anche positivo perché, sebbene certo Romanticismo esalti la spontaneità e l'intuizione, vi sono anche Romantici convinti che lo smarrimento e la mediazione siano fattori positivi, in quanto si instaura un processo di arricchimento che porta ad avere di più di quanto si avesse all'inizio. La storia stessa, come abbiamo visto, è per i Romantici di stampo finalistico: tutte le epoche hanno la loro dignità, anche se il pieno sviluppo del valore è nell'età adulta. Allo stesso modo, il recupero del punto di partenza assume più valore rispetto al punto di partenza stesso perché arricchisce. Non a caso, in ambito musicale, le sinfonie dell'età romantica cominciano spesso con un motivo appena accennato, che viene poi perso per alcuni movimenti per poi ricomparire sul finale, arricchito rispetto all'inizio: è una riproduzione della filosofia romantico-hegeliana, secondo la quale vi è una dimensione originaria che viene smarrita (il mondo classico) per poi venire riacquisita a seguito di un processo di recupero che l'ha perfino arricchita. Secondo la prospettiva di noi moderni, un vaso rotto e reincollato è peggiore rispetto a prima che si rompesse; secondo molti Romantici (Hegel compreso), invece, è migliore perché arricchito. Vi saranno Romantici ottimisti che diranno che il mondo classico è perfetto e deve e può essere imitato; ci saranno Romantici pessimisti che, pur riconoscendo la grandezza del mondo classico e la necessità di imitarlo, sosterranno che sia impossibile farlo. Infine, vi sarà chi dirà che il mondo classico è andato perduto e deve essere recuperato e tale recupero lo arricchirà perfino. Del resto secondo i Romantici vale più la virtù dell'innocenza: quest'ultima, infatti, altro non è se non l'ingenuità primordiale, il non aver ancora avuto l'opportunità di sbagliare e, non a caso, il suo rappresentante è Adamo che, non appena ne avrà l'occasione, sbaglierà. La virtù, invece, permette di recuperare l'innocenza, ma è anche stata intaccata dall'esperienza negativa: si tratta dunque di un recupero mediato del punto di partenza partendo però non dall'ingenuità primordiale, ma da esperienze negative che si trasformano in positive ( ogni negativo è anche positivo ). E lo stesso vale per il recupero del mondo classico.

A cavallo tra Romanticismo e classicismo, tra poesia e filosofia troviamo la personalità di HÖLDERLIN. Tipicamente romantica è la sua concezione del poeta come vate, nata dalla convinzione che più il poeta del filosofo possa cogliere a fondo l'intima essenza della realtà, il panteismo e, soprattutto, la tragicità della realtà, nella convinzione che il positivo possa nascere solo dallo smarrimento totale: è nei momenti più tragici, afferma Hölderlin, che può nascere una speranza di redenzione. Un concetto romantico che si afferma sempre più è quello dell'ironia, della dissimulazione, l'autodiminuirsi come faceva Socrate di fronte ai suoi interlocutori (ironia socratica): l'ironia è il tipico atteggiamento dell'uomo romantico che, presa coscienza del carattere non infinito delle cose in cui vive e che lui stesso crea, si accorge della propria limitatezza.

Più poeta che filosofo, come Hölderlin, è anche NOVALIS, panteista ed estimatore del Medioevo. Uno dei suoi contributi più rilevanti sul versante della filosofia romantica è senz'altro il cosiddetto idealismo magico , secondo il quale il soggetto produce l'oggetto ma non in modo inconscio (come sosteneva Fichte), bensì in modo conscio. Novalis, e in questo si capisce come sia più poeta che filosofo, non si fa alcuno scrupolo ad affermare che il mondo è una produzione conscia del soggetto, in particolare del poeta, inteso quindi come produttore di mondi.

Inquadrato nel contesto romantico è pure SCHLEIERMACHER, che vede la religione come sentimento di dipendenza verso l'infinito da parte del finito (l'uomo). La definisce anche sentimento trascendentale, a sottolineare che si tratta di un sentimento costitutivo della natura umana, un sentimento che si manifesta in tutti gli uomini. Egli elabora, inoltre, il concetto di ermeneutica, ovvero la teoria generale della comprensione: nel tradurre i testi di Platone, infatti, elaborò una chiave interpretativa (che resse per 150 anni circa) secondo la quale si doveva interpretare Platone basandosi esclusivamente sugli scritti (secondo il motto luterano del sola scriptura), sebbene il filosofo greco avesse dato maggior peso alla parte orale. E fu proprio dall'interpretazione di Platone che a Schleiermacher balenò l'idea dell'ermeneutica, già peraltro attuata dai Padri della Chiesa nell'interpretazione dei Testi Sacri: essi tenevano infatti conto del fatto che la Bibbia, nel suo complesso, è data dalla sommatoria dei significati dei singoli libri e che, al tempo stesso, si devono leggere i singoli libri guardando al tutto, con la conseguenza che, se si esamina la questione in termini meccanicistici, ci si trova di fronte ad un apparente circolo vizioso. In realtà, quando esamino una parte della Bibbia, un senso generale ce l'ho già e leggendo i singoli libri non faccio altro che approfondire lo studio del tutto. L'ermeneutica è applicabile, oltre che all'interpretazione dei testi, anche all'interpretazione della realtà, poiché mi permette di comprendere meglio le singole parti conoscendo in termini generali il tutto e, al tempo stesso, mi consente di approfondire lo studio del tutto esaminando le singole parti. È un processo di forte sapore romantico, che rientra a tutti gli effetti nell'organicismo in quanto, in fin dei conti, a contare non sono le singole parti, ma il tutto.