domenica 26 aprile 2015

Gli anni Sessanta. Materiali per tesina di Storia - A cura di Claudio Di Scalzo



GLI ANNI SESSANTA 
materiali per tesina di Storia 
a cura di Claudio Di Scalzo

Con l’avvento della società industriale, la sempre maggiore facilità di produzione e disponibilità di tutti gli oggetti ha modificato il rapporto con le cose. Lo sviluppo illimitato è divenuto la sola regola dell’economia e ha dato luogo ad un rapporto immediato tra la produzione degli oggetti, il loro consumo e la loro distribuzione.
Si è venuta così a costituire una società nella quale, a partire dai primi decenni del Novecento, si è assistito a un estendersi quantitativo e a un farsi progressivamente indistinto di strati sociali medi e inferiori, che sono venuti assumendo tratti culturali e modelli comportamentali tipici delle masse. La loro affermazione è stata favorita dal forte aumento demografico, dalla concentrazione della popolazione in territori urbano-metropolitani, dalla diffusione della scolarità in strati sociali prima esclusi, dall'accesso universale al voto e dall'estendersi della partecipazione politica, da una produzione industriale standardizzata e alla ricerca di vasti mercati di consumo, dall'avvento infine di sistemi di comunicazione di massa.
In Italia abbiamo avuto due svolte fondamentali in direzione dello sviluppo del consumismo:
- alla fine dell’800, quando si passa nella distribuzione dei beni dalla bottega artigiana al negozio;
- la seconda svolta è costituita dal boom economico degli anni 1958-1963, che fa diventare l’Italia uno dei 10 paesi più industrializzati del mondo. Esce dal primato dell’agricoltura, dove ancora dominavano valori come autoconsumo, spirito di sacrificio, etica del risparmio, ed entriamo nel primato dei consumi di massa, dove la struttura familiare è urbana e con pluriredditi.

Dalla fine della guerra agli inizi degli anni settanta tutti i paesi industrializzati, in particolare quelli inseriti nell’economia capitalistica di mercato, conobbero una crescita economica spettacolare; la produzione mondiale in termini reali (cioè senza tenere conto dell’aumento dei prezzi) si triplicò, mentre era solo raddoppiata nei cinquant’anni precedenti. Nei primi anni successivi alla fine dei conflitti, lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti. La guerra aveva dato un formidabile impulso all’economia statunitense, che ne uscì in una produzione di assoluto predominio. Con il 7% della popolazione mondiale, gli USA avevano un prodotto lordo pari a un terzo di quello dell’intero pianeta. Non da meno era il fatto che essi si trovavano nella posizione di paesi creditori a livello mondiale. I paesi europei, invece, vincitori e vinti che fossero, faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte dalla guerra; per combattere l’inflazione e la svalutazione della moneta, dovettero adottare politiche deflazionistiche (contenimento dei salari e dei consumi – riduzione delle importazioni) che rendevano difficile il rilancio della produzione.
Verso la fine degli anni ’50 il nostro Paese aveva senz’altro bisogno di cambiamenti politici, sociali, anche istituzionale che l’adeguassero alla silenziosa rivoluzione economica e strutturale degli anni precedenti. La ricostruzione era stata un prodigio ottenuto, anche grazie ai bassi salari e alla possibilità di attingere all’immenso serbatoi di mano d’opera meridionali.
«A metà degli anni cinquanta l’Italia era ancora per molti aspetti un paese sottosviluppato. L’industria poteva vantare un certo progresso nei settori dell’acciaio, dell’automobile dell’energia elettrica e delle fibre artificiali, ma era confinata principalmente nelle regioni nord- occidentali. La maggior parte degli italiani si guadagnava ancora da vivere nei settori tradizionali: piccole aziende tecnologicamente arretrate con sfruttamento intensivo degli operai, pubblica amministrazione, negozi e piccoli esercizi commerciali e soprattutto agricoltura che continuavano ad essere il più vasto settore di occupazione. Il tenore di vita rimaneva assai basso: solamente il 7,4% delle case italiane possedevano l’elementare combinazione di elettricità, acqua potabile, servizi igienici interni». Cosi lo storico britannico Paul Ginsborg presentava la situazione socioeconomica dell’Italia alla vigilia di un decennio di rapido sviluppo (passato alla storia con il nome di miracolo o boom economico) che, pur tra gravi squilibri e storture, avrebbe trasformato la nostra penisola in un paese industrializzato.
Nel periodo di tempo compreso tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’Italia fu protagonista di un record di crescita nella produzione nazionale tale da far parlare di “miracolo economico”. L’apice dello sviluppo di questo trend positivo fu raggiunto tra il 1958 e il 1963. Questo fenomeno caratterizzò anche molti altri Paesi europei, tra cui la Germania e la Francia, in cui si verificò un miglioramento dello stile di vita. In questi anni l’Italia riuscì a ridurre il divario economico con l’Inghilterra e la Germania e a eguagliare sistemi economici come quello belga, olandese e svedese.
Nonostante il fenomeno si riferisca a un evento principalmente economico, esso ebbe una forte ripercussione sulla vita degli Italiani che in pochi anni cambiò radicalmente, in positivo o in negativo e portò nel nostro Paese un livello di progresso e benessere mai conosciuto nei periodi precedenti.
I fattori che determinarono tale svolta sono molteplici e da ricercarsi in ambiti differenti. Uno di questi è senza dubbio la fine del protezionismo e l’adozione di un sistema di tipo liberista che rivitalizzò il sistema produttivo italiano, favorito anche dalla creazione del Mercato Comune Europeo a cui l’Italia aderì nel 1957. Inoltre fu importante il ruolo svolto dallo Stato, caratterizzato da un notevole interventismo nell’economia. Infatti finanziò la costruzione di un gran numero di infrastrutture, essenziali per lo sviluppo economico del Paese, tramite stanziamenti statali e prestiti a tasso agevolato che ammontarono a più di 714 miliardi di lire; anche la Banca d’Italia mantenne un tasso di sconto estremamente favorevole per le nuove industrie italiane che permisero un più facile accumulo di capitali, al fine di agevolare gli investimenti. Nel 1959 Antonio Segni, Presidente della Repubblica di quel periodo,in un discorso tenuto nel Consiglio dei Ministri, sottolineò l’importanza dei lavori pubblici che rappresentavano l’unico rimedio possibile alla crisi congiunturale e alla disoccupazione.
Affianco all’industria di stato e al sistema bancario pubblico, ereditato dal fascismo, vennero così costituiti nuovi istituti: l'ENI (Ente nazionale idrocarburi), creato da Mattei nel 1953 (il suo aereo precipito causandone la morte, che rimane tutt’ora ancora un mistero), a cui venne affidato lo sfruttamento del più grande giacimento di metano scoperto nel 1946 nella valle del Po. Mattei aveva dei piani ben chiari per quanto riguarda la nuova organizzazione; infatti l’Eni sarebbe diventato uno strumento dei popoli poveri contro i popoli ricchi. Egli sosteneva che l’Italia doveva diventare un appoggio per i nuovi movimenti nazionalistici (soprattutto africani e asiatici) ed acquistare così, spazio sul mercato mondiale; la STET, nel settore della telefonia; la RAI con il suo monopolio televisivo. Contemporaneamente accanto alla Fiat, l’Olivetti la Pirelli (assi portanti del miracolo economico italiano degli anni ’60, perché aveva esteso la sua presenza all’estero sino a diventare un gruppo multinazionale) e al ricco tessuto di medie e piccole imprese caratteristico del settore industriale italiano si affiancarono nuove grandi imprese (la Piaggio – l’Innocenti). In questi anni insomma, il sistema industriale italiano accentuò il suo carattere misto fra pubblico e privato. L’Italia riuscì ampiamente ad imporsi nel campo degli elettrodomestici, dell’automobilismo e delle manifatture; infatti in questi anni nascono le grandi industrie italiane la cui produttività aumentava progressivamente grazie alle nuove tecnologie da loro utilizzate. Fiat, Zanussi, Candy, Olivetti, sono solo degli esempi del passaggio di un’Italia fondamentalmente agricola ad un Paese dove l’industria ere il settore maggiormente produttivo.
L’alta tecnologia impiegata nei processi produttivi permise alle imprese di autofinanziarsi più facilmente, perché non era necessario assumere manodopera; inoltre la stabilità dei prezzi portò a un relativo contenimento dei salari, a un sempre maggior investimento produttivo e a una crescita dei consumi.
Una distorsione venne riscontrata a livello di consumi individuali, proprio a causa del diverso dinamismo e ritmo di crescita dell’economia. Infatti, i beni primari risultavano proporzionalmente più costosi rispetto a quelli secondari, proprio perché la volontà di emulare le ricche società europee aveva causato un salto troppo brusco per un Paese ancora provinciale e contadino, dove spesso l’auto era un necessario status-symbol e i servizi igienici solo una comodità di pochi.
Lo sviluppo industriale che si verificò in Italia fu sorprendente e contribuì a cambiare l’opinione pubblica mondiale, che era abituata a considerare gli Italiani come europei di secondo livello; questo soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Così una gran massa di italiani, che aveva in precedenza sperimentato i disastri della guerra e la povertà degli anni dell'immediato dopoguerra, scoprì per la prima volta il benessere e con esso l’abitudine a nuovi consumi. Nelle case fecero il loro ingresso frigoriferi e lavatrici, radio e televisori e dell’automobile; la società italiana, anche attraverso le nuove abitudini di consumo, sembrò incamminarsi verso una definitiva “modernizzazione”. Gli Stati Uniti d’America, che sin dall'inizio del secolo si erano caratterizzati per la presenza di un MERCATO DI MASSA per i prodotti di largo consumo, furono modello e principale termine di paragone: nel consumismo si individuava la radice stessa del successo del paese più ricco e industrializzato del mondo.
L’industria stava cambiando il concetto di tempo e di spazio;tutto ciò stava portando verso una società di massa e di consumi. Gli italiani a tavola potevano usufruire dei cibi in scatola o dei frigoriferi per conservare più a lungo le pietanze, grazie agli elettrodomestici avevano più tempo libero che veniva utilizzato consumando o per andare in vacanza grazie alla “lambretta”.
Inoltre su modello americano la RAI lancia programmi televisivi per intrattenere gli italiani nelle ore di riposo come “Lascia o raddoppia” condotto da Mike Bongiorno o “Carosello”. Entra così nelle case degli italiani il regno della pubblicità. Attraverso la televisioni si attua un processo di nazionalizzazione contro il conformismo ma nonostante ciò, vi sono diffuse resistenze a questo nuovo utensile da parte di intellettuali che accusavano fosse un sottoprodotto culturale e da parte della Chiesa, restia alla modernizzazione. Accanto alla TV si sviluppa il cinema, un periodo d’oro, con la produzione di Divorzio all’italiana e La dolce vita.
Nel periodo 1958-63 il PIL crebbe a un tasso medio annuo del 6,3%, un livello che mai era stato e mai più sarebbe stato ottenuto; ancora più elevato il tasso di crescita degli investimenti in macchine utensili e impianti industriali, questo grazie allo sviluppo delle reti di trasporto e di comunicazione e alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. Infatti, non è possibile produrre su larga scala se non si dispone di un mercato sufficientemente ampio di riferimento, creato a sua volta da un'efficace rete di trasporti e di comunicazioni. Ma se i potenziali consumatori vivono in luoghi geograficamente molto lontani rispetto a quelli nei quali si produce, deve esservi anche la possibilità di raggiungerli, informali, convincerli e persuaderli all'acquisto. Furono create proprio per questo, già a partire dalla seconda metà del secolo scorso, le moderne AGENZIE PUBBLICITARIE. Era anche indispensabile battere la concorrenza, imponendo il proprio "marchio" per far distinguere la propria produzione da quella altrui, e invogliare all'acquisto di prodotti nuovi, mai stati offerti prima sul mercato.
I modi di comunicare del mondo della pubblicità utilizzati nella prima metà del ‘900 apparvero del tutto inadeguati all'Italia degli anni ‘50 e ‘60, quando classi e ceti sociali, diversi per problemi, aspirazioni e modelli culturali di riferimento rispetto ai precedenti consumatori, costituirono per la prima volta un mercato di massa per i prodotti industriali.


QUALI CONDIZIONI RESERO POSSIBILE IL “MIRACOLO” ITALIANO?

FATTORI ESTERNI
L’Italia riuscì ad inserirsi nella ripresa dell’economia internazionale; l’elemento decisivo fu l’adesione al Mercato comune europeo, con i trattati di Roma del 1957 ( il 25 Marzo 2007 i capi di Stato hanno ricordato a Bellino l’anniversario). Di grande importanza fu anche il basso costo delle materie prime e delle risorse energetiche, per un’economia che ne era quasi del tutto sprovvista e ne abbisognava non solo per i consumi interni, ma anche per alimentare la produzione di beni da esportare.
FATTORI INTERNI
In primo luogo il basso costo della forza-lavoro, dovuto sia alla sua abbondante disponibilità sia alla debolezza sindacale. I bassi livelli salariale permisero alle imprese italiane di presentarsi in modo competitivo sui mercati internazionali. Un ruolo di rilievo ebbe anche il potere pubblico, che condusse una politica economica espansiva (finanziamenti alle imprese, basso costo del denaro) e diede impulso diretto, con le partecipazioni statali, allo sviluppo dell’industria di base.

Se pur marginale svolsero un ruolo importante le Olimpiadi del 1960 tenutesi a Roma solo dopo la guerra e la ricostruzione che a essa seguisse. Italia aveva a disposizione solo cinque anni di tempo per mettere assieme il grande rito-spettacolo. Furono anni spesi bene dai dirigenti italiani del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) immediatamente appoggiati dal potere politico. Si trattava, per prima cosa, di costruire le necessarie installazioni, in particolare per il Villaggio Olimpico, residenza degli atleti, dirigenti e tecnici, 33 fabbricati che dopo i Giochi sarebbero stati destinati a oltre mille appartamenti civili. Per tutte le costruzioni furono spesi in totale circa 18 miliardi di lire.

Anche se una quota rilevante del prodotto nazionale era destinato al mercato estero e i salari si mantenevano molto bassi, la crescita economica fu via via accompagnata dall’avvento di un benessere prima sconosciuto alla gran parte della popolazione italiana, e che giunse infine a interessare anche una parte dei ceti popolari. ’aumento del reddito si tradusse nella diffusione di nuovi stili di vita e di consumo:apparecchi televisivi e automobili furono i prodotti che più caratterizzarono questa nuova epoca di consumi nel nostro paese.
Cambiò anche il modo di vestirsi e, nei consumi alimentari, cominciarono ad assumere un peso maggiore le carni e i latticini. Accanto ai dati che indicano un miglioramento del tenore di vita medio della popolazione italiana, dobbiamo tuttavia soffermarci a considerare i limiti dello sviluppo di questi anni, che non solo non risolve ma per alcuni aspetti contribuì ad acuire gli squilibri di fondodelle nostra economia.
In primo luogo, nella stagione del miracolo economico, i settori industriali che conobbero il maggiore sviluppo furono quelli ad alta intensità di lavoro (meccanico – elettronico – tessile), cioè basati un largo impiego della manodopera disponibile a buon mercato più che sull’innovazione tecnologica. Questo fatto, insieme con i modesti interventi nella ricerca scientifica, approfondì la dipendenza tecnologica dell’ Italia dagli altri paese avanzati, soprattutto gli Stati Uniti.
In secondo luogo, una quota elevata dei redditi nazionali fu destinata ai consumi privati delle famiglie: i redditi medi e medio-alti potevano beneficiare di un sistema fiscale iniquo (non equo), lasciando largo spazio all’evasione contributiva, limitava le entrate dello stato e delle pubbliche amministrazioni e quindi la loro capacità d’intervento. La conseguenza fu che vennero trascurati i consumi pubblici o sociali (case, ospedali, scuole, trasporti).
In terzo luogo si assistette all’approfondirsi del divario economico sociale tra nord e sud del paese, essendosi lo sviluppo concentratosi soprattutto nelle regioni settentrionali: da questo fatto, tra l’altro, deriva il fenomeno dell’emigrazione. Il Meridione aveva un’industria scarsamente sviluppata e una tecnologia arretrata, la produttività del lavoro era molto bassa e un’alta percentuale della popolazione era dedita all’agricoltura. Inoltre vi era una scarsa capacità di accumulazione dei capitali, le infrastrutture erano insufficienti e la classe dirigente, priva di capacità imprenditoriale, non permetteva un rinnovamento politico e amministrativo. Neppure l’intervento dello stato valse a riequilibrare il dualismo dello sviluppo tra nord e sud: infatti le politiche di intervento privilegiarono la creazione di grandi poli industriali, pubblici e privata, nei settori strategici della petrolchimica e della siderurgica; industrie ad alta intensità di capitale, quindi a bassa assorbenza di lavoro. Al risanamento dell’economica del Sud contribuisce la Cassa del Mezzogiorno, nata con la legge dell’ottobre 1950. Essa operava in tre principali direzioni: politiche tese alla costruzione di infrastrutture, agevolazioni all’impresa privata, l’interveto diretto dello Stato. L’operato della Cassa del Mezzogiorno fu però un parziale fallimento: oltre a realizzare immensi insediamenti industriali, chiamati “cattedrali nel deserto”, in città come Siracusa, Taranto o Brindisi, non fu in grado di utilizzare e formare l’abbondante manodopera locale e creare una rete di piccole e medie imprese di fornitura, in modo da evitare che le grandi “cattedrali” si trovassero isolate quando avevano bisogno di servizi o prodotti esterni alla loro impresa. A pagarne le conseguenze, ovviamente, fu la popolazione del Sud, che tra il 1951 1974 dovette abbandonare in massa le proprie case in cerca di fortuna al Nord.
L’accelerazione dello sviluppo industriale provocò una parallela crescita della popolazione urbana e una rarefazione di quella rurale. Si intensificarono lemigrazioni interne, prima dall’est, poi dal sud del paese, già in atto nei decenni precedenti, specialmente verso le grandi città industriali del nord e i loro hinterland (triangolo industriale: Milano,Torino,Genova), che videro crescere in maniera vertiginosa la propria popolazione portando con se il problema dell’urbanizzazine. Alla base di questo fenomeno vi sono diversi fattori tra cui la necessità di maggiore denaro e di un lavoro stabile, il fascino delle nuove metropoli del Nord. Questo flusso di gente divenne così imponente che lo Stato, viste le ingenti e urgenti necessità, stabilì la creazione di un’ apposita linea ferroviaria, chiamata il “Treno del sole”, che attraversava l’Italia da nord a sud, in modo tale da favorire e permettere nel migliore dei modi il dispiegarsi di questi spostamenti.
Gli uomini trovarono lavoro come operai nelle numerose di fabbriche che nascevano in gran numero in quegli anni, oppure nei cantieri edili; le donne al contrario erano occupate in lavori a domicilio, nel campo della È necessario sottolineare che in quel periodo era ancora in vigore la legge fascista del 1939 sull’emigrazione, che prevedeva il trasferimento in un altro comune solo se si era in possesso di un contratto di lavoro.
Le motivazioni principali che spingevano gli uomini del Sud ad emigrare al Nord erano la grave sottoccupazione, un alto livello di povertà, la scarsa fertilità delle terre e frammentazione della proprietà, che caratterizzavano il Meridione italiano, maglieria, del filato e della sartoria, oppure anch’esse nelle fabbriche. La grande mobilità di quegli anni non era solo a carattere definitivo, ma anche giornaliero. Infatti ogni giorno un gran numero di pendolari giungeva nelle metropoli dai paesi limitrofi. Il cospicuo movimento migratorio non poteva non creare ampi e diversi sconvolgimenti a livello sociale. Infatti molti problemi si crearono per gran parte della gente immigrata dal Sud. Innanzitutto una situazione di disagio causato dalle diverse condizioni climatiche, dai problemi riguardanti la lingua, perché erano abituati a parlare solamente il dialetto, e dalla difficoltà a trovare un’abitazione. Questo ha causato inefficienze non solo sul luogo di lavoro di operai o manovali, ma anche per i figli di queste famiglie che dovettero affrontare la situazione quando iniziarono la nuova scuola al fianco dei bambini del luogo. Inoltre per loro era anche difficile adattarsi alla vita di città, estremamente diversa da quella a cui erano abituati. Tutte queste difficoltà spesso ebbero delle ripercussioni negative sul loro inasprimento nel posto di lavoro e determinarono una certa insofferenza in questa gente nei confronti della società, che veniva additata come la causa dei loro problemi.
In questi anni contemporaneamente allo sviluppo dell’industria si verifica una diminuzione dell’importanza del settore agricolo infatti in meno di dieci anni quasi tre milioni di occupati nelle campagne si trasferiscono nelle città, determinando così la fine di quei mondi rurali che caratterizzavano il Paese. Senza dubbio il miracolo economico colpì anche il settore agricolo permettendo un suo rapido ampliamento. Gli investimenti statali, che nel 1960 costituivano il 73% dei fondi, ebbero un ruolo fondamentale infatti Fanfani, Ministro dell’Agricoltura, disse infatti che l’unico modo di impostare le condizioni per uno stato moderno era quello di incentivare e sviluppare il settore agricolo. Così lo stato intervenne con agevolazioni fiscali, agevolazioni creditizie, mutui bancari con il concorso dello Stato. Tutto ciò fece diventare le campagne italiane come delle grande aziende interamente meccanizzate che non avevano bisogno di manodopera. Per questo i campi rimasero in rapido tempo abbandonati, rimanendo spettatori di un vero e proprio esodo.
Una delle più gravi conseguenze dello sviluppo italiano e della crescita incontrollata delle città fu la speculazione edilizia. Il mancato rispetto delle norme sull’edilizia e dei piani regolatori cittadini determinavano un profondo cambiamento: l’Italia da Paese rurale e contadino divenne una distesa di grandi sobborghi di cemento. Inevitabilmente parte di costa, piccoli villaggi, lagune, boschi vennero trasformati in centri abitati o centri turistici per soddisfare la crescente domanda di nuove case e servizi per la villeggiatura. La massima libertà lasciata alle iniziative nel settore dell’edilizia permise a imprenditori edili poco scrupolosi di costruire nuovi edifici praticamente ovunque, senza considerare le norme antisismiche e le misure di sicurezza. Il periodo compreso tra il 1953 e il 1963 fu spesso caratterizzato da conflitti di potere tra le autorità municipali e gli speculatori edili, che spesse volte sfociavano in corruzione o clientelismo. Un esempio significativo fu il cosiddetto “sacco di Roma”, in base al quale alle grandi imprese edili fu concesso di costruire su tutti gli spazi disponibili della città senza alcuna limitazione.


LA NUOVA SOCIETÀ

In seguito alla fase economica positiva di cui l’Italia fu protagonista, la società cambiò radicalmente e le condizioni di vita subirono un notevole miglioramento dovuto all’aumento del reddito medio della popolazione, che permise a volte l’acquisto di beni di lusso, prima assolutamente fuori portata.
I consumi aumentano con una rapidità mai vista e le possibilità finanziarie delle famiglie erano tali da permettersi un’alimentazione sana e ricca, vistiti, un’abitazione e perfino l’automobile. Quest’ultima è sicuramente, assieme alla televisione, ciò che più rappresenta la nuova società del tempo e il simbolo del boom. Il modello della Fiat Seicento del 1955 e Cinquecento del 1957 lanciano questo prodotto sul mercato come bene di massa.
In molte case italiane erano presenti gli elettrodomestici di ultima generazione: fon, orologio, frigorifero, stufette elettriche, frullatori, lavatrici, che cambiarono le abitudini degli Italiani.
Un altro aspetto significativo è lo sviluppo dell’editoria, la diffusione dei quotidiani, i settimanali e le riviste. Nascono le prime collane di libri delle grandi case editrici italiane: Mondatori, Feltrinelli, Einaudi. Molti romanzi pubblicati in questi anni hanno un grande successo. Tra i settimanali, citiamoL’Espresso e Panorama, i quali proponevano molte inchieste sulle grandi trasformazioni sociali della nuova Italia.
Per quanto concerne i ceti professionali, si verificò un aumento dei laureati anche presso le grandi università straniere che poi diventarono i dirigenti delle varie industrie italiane. Aumentarono anche gli ingegneri, gli architetti, idesigners, gli esperti nelle pubbliche relazioni: tutti professionisti che cercavano di soddisfare il nascente gusto artistico e culturale degli italiani.
Cambiati i lineamenti caratterizzanti della società non poteva non modificarsi quello che era ritenuto il cuore, l’unità elementare di questa: la famiglia. Il numero dei componenti andava man mano diminuendo, soprattutto al nord, determinando un alto numero di famiglie formate solo da un figlio oppure, addirittura, da marito e moglie, cosa quasi inconcepibile allora. I nuclei famigliari quindi diventano sempre meno numerosi e più appartati. Tutto questo è sentito soprattutto dai meridionali immigrati al nord, che, trasferiti nelle grandi città del Nord, non riscontravano più i ritrovi nelle piazze e il grande affiatamento tra i vicini di casa a cui erano abituati. La nuova famiglia è quindi all’insegna della privacy.
Per quanto riguarda i giovani, essi hanno molta più libertà e passatempi a disposizione: domenica allo stadio, bar, sale da ballo, shopping in centro, juke box, Lambretta.
Le donne invece diventano quasi tutte casalinghe, dedicandosi interamente al marito, ai figli e alla casa; per questo motivo l’occupazione femminile diminuisce vertiginosamente. Questa situazione allontana progressivamente le Italiane dalla società produttiva e dalla politica, “segregate” all’interno della casa tra montagne di riviste femminili che incontrano grande successo.
Si assiste infine ad un declino della religiosità, che portò inevitabilmente ad un calo dell’influenza della Chiesa nella vita dei cittadini, oltre ad un calo delle vocazioni sacerdotali.


L’EPOCA DEL CENTRO-SINISTRA

Nel frattempo in politica…
Dopo la sconfitta della legge di riforma elettorale (la cosiddetta “legge-truffa”) e la caduta di De Gasperi (morì nel 1954), all’interno della Democrazia Cristiana1 avevano acquistato maggiore forza le correnti interne che si battevano per una più equa distribuzione del reddito, per la realizzazione diriforme sociali, resi a loro giudizio indispensabili dallo sviluppo economico e dalle trasformazioni sociali che investivano il paese. Per realizzare questi obiettivi e per ottenere, con un allargamento della maggioranza, quella stabilità che non si era conseguita con la mancata riforma elettorale, la DC, sotto la guida di Aldo Moro (destinato ad essere assassinato vent’anni più tardi dai terroristi) e Amintore Fanfani, dopo la morte del papa Pio XII, si orientò verso un’alleanza di governo con i socialisti. L’apertura a sinistra divenne possibile in conseguenza dei nuovi orientamenti assunti dalla Chiesacon il concilio Vaticano II (11 ottobre 1962) presieduto da Giovanni XXIII(detto il “Papa buono”).
È bene ricordare che influirono notevolmente i fatti di Ungheria del 1956, in quanto produssero una profonda frattura nella sinistra italiana, allontanando i socialisti dai comunisti. In questo modo il Partito socialista trova spazio per una politica autonoma.
Dunque, Moro e Fanfani si battevano per attrarre i socialisti nell’orbita governativa. Purtroppo, falliti alcuni tentativi, il Presidente della RepubblicaGiovanni Gronchi affidò l’incarico di formare un nuovo governo al DcFernando Tambroni che, con una totale inversione storica di tendenza, accettò, per governare, l’appoggio dei neofascisti. Con questa maggioranza Trambroni governo per alcuni mesi, finché fu costretto alle dimissioni dalle vivaci proteste della sinistra e degli antifascisti. Il Paese tirò un sospiro di sollievo: il pericolo di un’ipoteca di tipo neofascista sullo Stato era scongiurato.
Fanfani assunse la presidenza del nuovo governo, il primo governo “aperto” a sinistra. Questo governo realizzò alcune delle più importanti riforme della stagione del centro-sinistra: la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma della scuola media inferiore.


NAZIONALIZZAZIONE DELL’ENERGIA ELETTRICA

Le grandi nazioni industriali moderne hanno una terribili fame di energia, che è l’elemento fondamentale del loro progresso e, in definitiva, della loro stessa potenza globale. Nel secolo scorso, furono i privati a scoprire e a produrre l’elettricità, così in Italia esistevano circa 1.200 dighe private che distribuivano energia elettrica ad altrettante reti, con criteri e prezzi di vendita che si erano a mano a mano uniformati nel tempo. Alla nazionalizzazione si arrivò soltanto quando mutarono quelle condizioni politiche che avevano fino ad ora permesso di evitarla. Fanfani presentò la legge che venne approvata nel dicembre del 1962 e, il 1° gennaio 1963, nasceva ufficialmente, dalle ceneri delle vecchie società private, l’Enel (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), il nuovo gigante che avrebbe dovuto produrre e distribuire energia agli italiani in forma più moderna e, come si disse, «più equa», il che significava, in termini semplici, meno cara.


RIFORMA DELLA SCUOLA MEDIA INFERIORE

Il 31 dicembre 1962, proprio alla scadenza dell’anno, come a sottolineare l’inizio di una vita nuova, viene varata la riforma della scuola media inferiore. La legge che la istituiva fu definita, più che di riforma scolastica, una legge di riforma sociale, in quanto avrebbe dovuto trasformare a fondo la società. Le intenzioni erano buone: la nuova scuola media, tutta gratuita, era obbligatoria per tutti e ci si accedeva senza il vecchio esame d’ammissione. Vennero introdotti i Consigli di classe per coordinare i vari insegnanti e i piani li lavoro e di valutazione, il tutto doveva servire a delineare un quadro completo delle attitudini degli alunni. Inoltre per le famiglie più disagiate il comune doveva mettere a disposizione in modo gratuito libri di testo, contributi, materiale didattico refezioni e mezzi di trasporto.


DAL SESSANTOTTO ALLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

Il ’68 è l’anno della rivolta giovanile: i figli rompono con i padri e con gli insegnanti, i “maestri”. L’Italia diventa un campo di battaglia e l’opinione pubblica è costretta a prendere coscienza di un fenomeno che, fino a quel momento, ha sottovalutato: la rabbia giovanile. Osservo lo storico Denis Mack Smith: «Con una furia dissacrante che non ha precedenti, gli studenti tumultuano, occupano gli atenei, processano e insolentiscono i professori, stilano documenti rivoluzionari, erigono barricate, si scontrano nelle strade e nelle piazze con la polizia, formulano richieste a cui le vecchie generazioni non sanno cosa rispondere. Allo scatenarsi di questa rabbia contribuisce senz’altro l’esempio proveniente da oltre Atlantico, dove è già stata vissuta l’esperienza esaltante della rivoluzione studentesca». La scuola era la grande malata della nostra società.
La presenza di giovani operai a fianco degli studenti fu la caratteristica anche del Sessantotto italiano, il più intenso e ampio tra tutti quelli dell'Europa occidentale. In Italia la contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato negli anni '60, dovuto al fatto che lo sviluppo economico non era stato accompagnato da un adeguato aumento del livello di vita delle classi più disagiate.
L'esplosione degli scioperi degli operai in fabbrica si saldò con il movimento degli studenti che contestavano la grave situazione delle università, in cui al grande aumento della popolazione studentesca non era stato corrisposto alcun ammodernamento delle strutture e dei metodi d’insegnamento e rivendicavano l'estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione economica disagiata. Accanto a ciò ci fu il desiderio di valorizzare la partecipazione alle scelte, la libertà e l’originalità de espressione individuale e collettiva, un radicale egualitarismo.
I prodromi di quello che diverrà il sessantotto inizieranno a palesarsi nel 1966. La contestazione fu attuata con forme di protesta fino ad allora sconosciute: vennero occupate scuole e università e vennero organizzate manifestazioni che in molti casi portarono scontri con le forze dell'ordine.
Il 24 gennaio 1966 avvenne a Trento la prima occupazione di una università italiana ad opera degli studenti che occuparono la facoltà di Sociologia.
La contestazione studentesca e giovanile contribuì a rendere più moderni diversi aspetti della vita del paese. Ne derivarono un forte stimolo allo svecchiamento della cultura italiana e una profonda trasformazione nella sfera dei rapporti familiari. Tra i giovani si affermarono comportamenti più franchi ed emancipati, cui corrisponde sul piano affettivo e sessuale una maggiore libertà e anche un più acuto senso di responsabilità. Le ragazze e le donne cominciarono a riflettere e a discutere sui temi collegati alla condizione femminile, ponendo le promesse dei movimenti femministi degli anni settanta e ottanta. La percezione esatta di quanto profondi fossero i cambiamenti intervenuti in questo campo si sarebbe avuta nel 1974, quando una consistente maggioranza degli italiani, pari quasi il 60% dell’elettorato, si espresse contro l’abrogazione della legge sul divorzio e, nel 1981, per l’abrogazione della legge sull’interruzione della gravidanza (aborto). Questo cambiamento affondava, in realtà, le sue radici in un processo di laicizzazione della società italiana, iniziato con il miracolo economico e proceduto negli anni successivi, affermando così un nuovo sistema di valori, più attento all’autonomia dell’individuo e alla libertà di espressione e di scelta, ma anche più sensibile ai modelli consumistici diffusi dai vari mezzi di comunicazione di massa.
Come già accennato, accanto alle manifestazioni studentesche si affiancò la stagione di lotte operaie. Il suo momento culminate si ebbe nell’autunno del 1969, chiamato “autunno caldo” a causa del clima di acceso conflitto sociale. Dopo decenni di sviluppo basato sui bassi salar la piena occupazione ormai raggiunta( almeno nelle regioni industrializzate) e il conseguente ridursi della concorrenza dei senza lavoro, metteva il movimento operaio nelle condizioni di rivendicare salari più dignitosi e migliori condizioni di lavoro. Le organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil che nel frattempo avevano avviato un processo di riavvicinamento, che condusse, nel 1972, alla creazione della Federazione sindacale unitaria), dopo le incertezze iniziali rispetto a questi movimenti, assunsero progressivamente la guida del movimento, movimento che portò all’affermazione di nuovi strumenti di democrazia sindacale: l’assemblea dei lavoratori e i consigli di fabbrica. Queste rivendicazioni si ampliarono a richiesta di più ampie riforme sociali e civili che il potere aveva disatteso: la casa, i servizi sociali, i trasporti, le pensioni. Nonostante alcune importanti realizzazioni legislative, come l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, il quadro politico di quegli anni fu caratterizzato da un sostanziale immobilismo.
In questo scontro, con il chiaro intento di porre un argine al movimento dei lavoratori, alimentando nell’opinione pubblica sentimenti di paura e un riflesso d’ordine, si inserì l’attentato milanese alla Banca Nazionale dell’agricoltura dipiazza Fontana, che il 12 dicembre 1969 causò 16 morti e un centinaio di feriti. Lunghe indagini della magistratura hanno permesso di accertare che l’attentato- la cui responsabilità venne subito attribuita a un gruppo di anarchici, poi risultati assolutamente estranei al fatto- era maturato in ambienti neofascisti. La bomba di Piazza Fontana segnò l’inizio della strategia della tensione, che per molti anni avrebbe insanguinato l’Italia, con lo scopo di indebolire le istituzioni democratiche e di favorire soluzioni politiche autoritarie.

Benedetta Ravo



1 Precedentemente questi anni il governo della DC fu definito una “dittatura”. In realtà i metodi e i sistemi della democrazia parlamentare erano rispettati, ma lo strapotere della DC sulla scena politica e l’influenza della Chiesa nel Paese, sommati insieme, creavano una certa confusione tra poteri di Stato e i dettati della religione cattolica. Naturalmente la DC, in quanto partito, trasferiva sul piano politico quello che il Vaticano veniva come indicazione “religiosa”. Quando Pio XII aveva scomunicato i comunisti e i marxisti in generale, quindi anche molti socialisti, la DC aveva usato quell’arma per emarginare le sinistre italiane. Così durante il suo pontificato fu impossibile un dialogo con il Partito Comunista.

sabato 25 aprile 2015

Italo Calvino. Vita e tre romanzi brevi - Materiali per tesine - A cura di Claudio Di Scalzo



Italo Calvino. Vita e tre romanzi brevi -
 materiale per tesine - 
a cura di Claudio Di Scalzo


Italo Calvino nasce il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, presso l'Avana. Il padre, Mario, è un agronomo di origine sanremese, che si trova a Cuba per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola agraria dopo venti anni passati in Messico. La madre, Evelina Mameli, di Sassari è laureata in scienze naturali e lavora come assistente di botanica all'Università di Pavia. Dal padre agronomo e dalla madre botanica riceve un'educazione rigorosamente laica.
Nel 1927 nasce suo fratello Floriano, futuro geologo di fama internazionale, mentre nel 1929 frequenta le scuole Valdesi, una volta che la famiglia si trasferisce definitivamente in Italia stabilendosi a San Remo, nella Villa Meridiana che ospita la direzione della Stazione Sperimentale di Floricoltura, dove Calvino vive «fino a vent'anni in un giardino pieno di piante rare ed esotiche». Nel 1934 supera l'esame per il ginnasio-liceo “G. D. Cassini” e completa la prima parte del suo percorso scolastico.
Il primo contatto con la letteratura avviene all'età di dodici anni, quando gli capita fra le mani il primo ed il secondo Libro della giungla di Kipling. È un amore al primo colpo, una fulminea infatuazione per i mondi esotici, le avventure e per le sensazioni fantastiche che può dare la lettura solitaria di testi trascinanti. Si diletta anche a leggere riviste umoristiche, cosa che lo spinge a disegnare lui stesso vignette e fumetti. In quegli anni si appassiona al cinema, un amore che durerà per tutta la sua adolescenza.
Intanto scoppia la guerra, un evento che segna la fine della sua giovinezza, così come il declino della cosiddetta belle epoque in versione sanremese. La sua posizione ideologica è incerta, tra il recupero di una identità locale ed un confuso anarchismo. Tra i sedici ed i venti anni scrive brevi racconti, opere teatrali ed anche poesie ispirandosi a Montale suo poeta prediletto per tutta la vita. È nei rapporti personali e nell'amicizia con il compagno di liceo Eugenio Scalfari, futuro direttore de La Repubblica, invece, che cominciamo a crescere in lui interessi più specificatamente e politici. Attraverso un intenso rapporto epistolare con Scalfari seguì il risveglio dell'antifascismo clandestino ed una sorta di orientamento rispetto ai libri da leggere: Huizinga, Montale, Vittorini, Pisacane e così via.
Nel 1941, conseguita la licenza liceale, Italo Calvino viene avviato dai genitori agli studi di Agraria, che non porta a compimento. Per quanto, infatti, tenti di seguire la tradizione scientifica familiare, ha già «la testa alla letteratura». Inoltre, a interrompere gli studi si intromette la guerra. Dopo l'8 settembre 1943, Calvino si sottrae all'arruolamento forzato nell'esercito fascista, e assecondando un sentimento che nutriva fin dall'adolescenza, si aggrega ai partigiani della Brigata Garibaldi, e fa così «la prima scoperta del lancinante mondo umano». È opinione della critica più accreditata che la sua scelta di aderire al partito comunista non derivò da ideologie personali, ma dal fatto che in quel periodo era la forza più attiva ed organizzata.
Dopo la liberazione, aderisce al Partito Comunista Italiano, collabora a giornali e riviste, e si iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino, dove nel 1947 si laurea con una tesi su Joseph Conrad.
Nel 1946 comincia a gravitare attorno alla casa editrice Einaudi, vendendo libri a rate. In quell'ambiente «interdisciplinare, aperto alla cultura mondiale», matura la sua vocazione a «scrivere pensando ad uno scaffale di libri non solo di letteratura».
Nel 1947 esordisce come scrittore, pubblicando, grazie a Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno (una ricognizione appunto del periodo bellico e del mondo partigiano). A questo romanzo, con cui si rivela il più giovane e dotato tra gli scrittori neorealisti, segue il volume di racconti Ultimo viene il corvo (1949).
Negli anni Cinquanta e Sessanta svolge le funzioni di dirigente nella casa editrice Einaudi e intensifica sempre più la sua attività culturale e il suo impegno nel dibattito politico-intellettuale, collaborando a numerose riviste.
Inoltre si impone nel panorama letterario italiano, come il più originale tra i giovani scrittori, in seguito alla pubblicazione della raccolta dei Racconti(1958), e soprattutto del volume I nostri antenati (1960), che comprende la trilogia di romanzi fantastici e allegorici sull'uomo contemporaneo: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), e Il cavaliere inesistente (1959). In questi anni pubblica anche l'importante saggio Il midollo del leone (1955), e raccoglie e traduce Le fiabe Italiane che pubblica nel 1956 Il '56, però, è assai importante per un altro fatto significativo e cruciale nella vita di Calvino: i fatti di Ungheria, l'invasione della Russia Comunista nell'inquieta Praga, provocano il distacco dello scrittore dal PCI e lo conducono progressivamente a rinunciare ad un diretto impegno politico.
La sua creatività è invece sempre feconda ed inarrestabile, tanto che non si contano le sue collaborazioni su riviste, i suoi scritti e racconti (vince in quegli anni anche il Premio “Bagutta”), nonché la stesura di alcune canzoni o libretti per opere musicali d'avanguardia come Allez-hop dell'amico e sodale Luciano Berio. Insomma, un'attività culturale e artistica a tutto campo.
Alla fine degli anni cinquanta risale anche il soggiorno di sei mesi negli Stati Uniti, coincidenti con la pubblicazione della trilogia “Nostri antenati”, mentre appare sull’importante rivista culturale letteraria Il Menabò, che dirige insieme a Vittoriani, Il mare dell'oggettività (1959) e La sfida del labirinto (1962). Nel 1963, anno della Neoavanguardia, pubblica, oltre a Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, il racconto costruito ancora su schemi di tipo tradizionale La giornata di uno scrutatore, con cui si chiude il ciclo apertosi all'incirca un decennio prima.
Nel 1964 avviene una svolta fondamentale nella vita privata dello scrittore: si sposa con un'argentina e si trasferisce a Parigi, pur continuando a collaborare con Einaudi. L'anno dopo nasce la sua prima figlia Giovannea, che gli infonde un senso di personale rinascita ed energia. Nel 1965 nasce la figlia Abigail, ed esce il volume Le Cosmicomiche, a cui segue nel 1967 Ti con zero, in cui si rivela la sua passione giovanile per le teorie astronomiche e cosmologiche. Il nuovo interesse per le problematiche della semiotica e per i processi combinatori della narrativa trova espressione anche ne Le città invisibili (1972), e ne Il castello dei destini incrociati (1973). Intanto cresce il suo successo e il suo prestigio in tutto il mondo.
Negli anni Settanta – anni in cui nutre una residua speranza nella ragione, pur avvertendo un degradarsi generale della vita civile italiana e mondiale – Calvino pubblica numerosi interventi, prefazioni e traduzioni in molte lingue, e collabora prima al Corriere della Sera, con racconti,resoconti di viaggio ed articoli sulla realtà politica e sociale del Paese poi alla Repubblica.
Nel 1976 tiene conferenze in molte università degli Stati Uniti, mentre i viaggi in Messico e Giappone gli danno spunti per alcuni articoli, che verranno poi ripresi in Collezioni di sabbia.
Nel 1979 esce il romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore, che diviene subito un best seller.
Si trasferisce a Roma nel 1980 in piazza Campo Marzio ad un passo dal Pantheon. Raccoglie nel volume Una pietra sopra gli scritti di “Discorsi di letteratura e società” la parte più significativa dei suoi interventi saggistici dal 1955 in poi.
Nel 1982 alla Scala di Milano viene rappresentata La vera storia, opera scritta insieme al già ricordato compositore Luciano Berio. Di quest'anno è anche l'azione musicale Duo, primo nucleo del futuro Un re in ascolto, sempre composta in collaborazione con Berio.
Nel 1985, avendo ricevuto l'incarico di tenere una serie di conferenze negli Stati Uniti (nella prestigiosa Harvard University), prepara le ormai celeberrime “Lezioni Americane”, che tuttavia rimarranno incompiute, e saranno edite solo postume nel 1988.
Durante il 1984 in seguito alla crisi aziendale dell'Einaudi decide di passare alla Garzanti presso la quale appaiono Collezione di sabbia e Cosmicomiche vecchie e nuove. Compie dei viaggi in Argentina e a Siviglia dove partecipa ad un convegno sulla letteratura fantastica. Il 6 settembre del 1985 viene colto da ictus a Castiglione della Pescaia. Ricoverato all'ospedale Santa Maria della Scala di Siena, muore il 19 settembre colpito da un'emorragia celebrale.



Lo Stile di Calvino. Analisi dei seguenti romanzi:
La giornata di uno scrutatore, Marcovaldo, le stagioni in città

“Eleganza”, “leggerezza”, “misura”, “chiarezza”, “razionalità” sono i concetti a cui più usualmente si fa ricorso per definire l'opera di Calvino; in effetti, essi individuano aspetti reali della personalità dello scrittore anche se, al tempo stesso, rischiano di sottovalutarne altri, ugualmente presenti e decisivi.
L'inclinazione fantastica, costante di tutta l'opera di Calvino, rappresenta comunque la corda più autentica dello scrittore. In molte delle sue opere, infatti, egli infrange una regola ferrea della vita (e di gran parte della letteratura) che vuole da una parte la realtà, dall'altra la finzione. Calvino, invece, spesso mescola i due piani, facendo accadere cose straordinarie e spesso impossibili all'interno di un contesto realistico, senza perdere colpi né sull'uno né sull'altro versante. Una delle sue caratteristiche, infatti, è quella di saper mantenere, nei confronti della materia trattata, un approccio leggero, trattenuto dall'umorismo, smussandone gli aspetti più sconcertanti con un atteggiamento quasi di serena saggezza.
Italo Calvino tenne, nell’anno accademico 1985-1986, una serie di sei conferenze per l’università di Harvard, Cambridge, nel Massachussets, che si sarebbero rivelate una dichiarazione di fiducia nei mezzi della letteratura e un tentativo di situare, nella prospettiva del nuovo millennio, alcune virtù.
Calvino, in queste conferenze, si riallaccia alla realtà contemporanea, che si rivela come un rappresentazione della realtà attraverso la ricerca del significato dell’essere, che si scoprirà poi consistere nella chiara affermazione della pesantezza del vivere, incatenati come si è da milioni di costrizioni, alle quali può sottrarsi, secondo Calvino, solo l’intelligenza pronta ed agile, dalle quali ci si può salvare solo imparando ad assumere una molteplicità di punti di vista, cambiando, quando è necessario, il proprio punto di osservazione del mondo.
Calvino ci avverte che siamo noi a determinare il peso effettivo di ciò che circonda, poiché tutto quello che esiste, esiste in rapporto a noi che lo viviamo: dal modo in cui interagiamo col mondo esterno, deriva la qualità della nostra vita. Ora tutto ciò che ci circonda si rivela di una pesantezza insopportabile, se ogni cosa ci lega e ci invischia impedendoci di vivere liberamente, è perché nell’interazione tra noi e le cose, il rapporto si è invertito: non siamo più noi ad assumere una posizione, a scegliere il nostro punto di vista, ma sono le cose che ci assalgono e ci tolgono la facoltà di esprimere un giudizio, di pensare. Ci lasciamo semplicemente sopraffare, senza sfruttare la nostra capacità più alta, ossia l’intelligenza, intesa come mobilità, come agilità, come esercizio continuo di verifica ed analisi della realtà.
Come Perseo sconfigge la Medusa evitando di guardarla negli occhi direttamente, ma non le sfugge, guarda il riflesso del suo viso in uno specchio e così la vince: ossia, cambia punto di vista; fino a quel momento, nessuno era potuto risultare vincitore del mostro, perché tutti avevano, prima o poi, sollevato lo sguardo per fissarla: nessuno aveva cambiato il suo punto di vista, e tutti erano stati trasformati in pietra. Poi, ecco Perseo, che per combattere si serve dei venti, delle nuvole e, alla fine, vince il simbolo della pesantezza usando l’astuzia, evitando l’esempio di tutti quelli che l’avevano preceduto, usando un altro metodo.


LA GIORNATA D’UNO SCRUTATORE (1963)
L'opera è stata concepita nel 1953 ed è stata pubblicata nel 1963; l'autore ha dunque impiegato ben 10 anni a scrivere questo breve libro parzialmente autobiografico (Calvino fece davvero lo scrutatore al Cottolengo nelle elezioni, però, del ’61): un dato che può far riflettere sulla complessità e sull'importanza degli argomenti da lui trattati.
Il racconto lungo di Calvino descrive appunto la giornata di Amerigo, dal mattino piovoso in cui si reca al seggio alla conclusione delle operazioni di voto e il suo incontro con quell'umanità desolata e con i religiosi, che con ammirevole e talvolta muto spirito di servizio, li assistono. Non succedono accadimenti particolari; il disbrigo delle operazioni di voto assume il suo andamento normale, sonnacchioso, burocratico.
L’opera è ambientata a Torino, quasi esclusivamente in due luoghi: l'edificio del “Cottolengo” nel quale si svolge la maggior parte della storia e l'abitazione di Amerigo Ormea che svolge però un ruolo più marginale. Nonostante gli spazi ristretti in cui la storia si svolge le descrizioni dell'ambiente sono piuttosto numerose e dettagliate. Le descrizioni più significative sono quelle che riguardano il “mondo-Cottolengo” mentre l'abitazione di Amerigo è descritta in maniera piuttosto sommaria. Questo perché grazie alla descrizione dell'ambiente e dei pazienti Calvino vuole farci entrare in questo mondo a noi nascosto e difficile da comprendere che è il mondo del Cottolengo. Si hanno descrizioni molto significative soprattutto nella parte finale del libro, dal momento in cui Amerigo entra a far parte del "seggio distaccato" che viene mandato nelle parti più nascoste dell'edificio, tra le persone più deformi e nelle più gravi condizioni; qui le descrizioni sono significative in quanto il libro in questa parte acquista il suo maggiore significato simbolico. (aveva la sensazione d’inoltrarsi al di là delle frontiere del suo mondo)
La storia si svolge durante le elezioni, svoltesi nel 1953, nelle quali si votava per l'approvazione della cosiddetta “legge truffa”.
Il tempo è comunicato dall'autore all'inizio del libro ed anche i luoghi sono descritti dallo stesso autore non appena il protagonista li raggiunge.
Non si hanno, all'interno del testo, numerose varianti di linguaggio; si può comunque riscontrare un linguaggio lievemente formale che viene usato dal presidente ma non dagli scrutatori i quali usano invece un linguaggio informale e più colorito sebbene nei limiti dell'educazione. Nei discorsi di Amerigo con Lia si ha un linguaggio diverso che può essere definito come “parlato familiare”. E' presente il linguaggio dialettale (quello torinese) solo per quanto riguarda l'aggettivo cutu che deriva dal nome del “Cottolengo” e col quale sono indicate a Torino le persone menomate. Nel racconto si ha la presenza di un tono drammatico usato (anche se soltanto in alcuni casi) per descrivere i pazienti, mentre le considerazioni di Amerigo contengono notevoli sfumature di tipo ironico ed in alcuni casi sarcastico riguardanti soprattutto il mondo della politica ed i collaboratori di Amerigo.
Il protagonista della storia è lo scrutatore comunista Amerigo Ormea che si ritrova nelle elezioni del 1953 (quelle della cosiddetta “legge truffa"), a fare lo scrutatore per conto di un partito della sinistra che poi si rivelerà essere quello comunista. (l'avevano fatto scrutatore: un compito modesto, ma necessario e anche d'impegno)
L'oggetto del desiderio consiste nella vittoria delle elezioni. Ad una più attenta lettura si nota, però, che Amerigo non risulta così interessato al successo politico (essendo poi così scarsa la possibilità di vittoria nel contesto del “Cottolengo”) ma piuttosto ai suoi problemi di uomo. Il libro è costituito dalla descrizione minuziosa degli oggetti e delle persone che si avvicendano davanti allo sguardo attento dello scrutatore e dalle riflessioni che i minimi avvenimenti della giornata determinano in lui. E così il protagonista prende spunto da fatti minimali, in apparenza insignificanti, per dare il via a una serie di interessanti e originali meditazioni sui più svariati argomenti: la democrazia, le istituzioni, la sofferenza, l'emancipazione femminile, la politica, l'amore, la metafisica, la religione, la bellezza, l'evoluzione della specie, la beatitudine, il potere, la donna, la lettura, la responsabilità della procreazione, la giustizia.
«A tutto ci si abitua (…) anche a veder votare i ricoverati del “ Cottolengo”. Dopo un poco, già sembrava la vista più usuale e monotona, per quelli di qua dal tavolo: ma di là,nei votanti, continuava a serpeggiare il fermento dell’eccezione, della rottura della norma. (…) C’era dunque in questa finzione di libertà che era stata loro imposta – si domandava Amerigo – un barlume, un presagio di libertà vera? O era solo l’illusione, per un momento e basta, d’esserci, di mostrarsi, d’avere un nome?»
Non conosciamo molto sulla sua occupazione, sappiamo soltanto che, nella professione, all'affermarsi preferiva il confermarsi persona giusta. Sappiamo, inoltre, che, il suo carattere lo portava verso una vita più raccolta, piuttosto che all'attivismo professionale e politico. Un personaggio piuttosto pacato e che adempie sempre ai propri doveri seppure in alcuni casi senza troppa motivazione. Americo è un personaggio che, pur essendo il protagonista non ci viene descritto dall'autore in maniera molto dettagliata, soprattutto dal punto di vista fisiognomico. Dalle sue riflessioni si può notare una conoscenza culturale molto vasta che spazia su vari campi: da quello storico a quello politico, da quello letterario a quello filosofico. La sua fede religiosa, seppur non dichiarata dall'autore non sembra particolarmente forte in quanto la sua fiducia nei membri della chiesa è molto limitata: egli ha il sospetto che tali ecclesiastici offrano un ricovero ai loro ospiti per ricavarne in cambio dei voti a votare del partito di governo, la Democrazia Cristiana, l'unico che gli è fatto credere tuteli i loro interessi. Amerigo può simboleggiare un uomo qualsiasi che, a contatto con qualcosa di più grande di lui, come il dolore e la menomazione che affliggono i ricoverati nel Cottolengo, perde ogni propria convinzione; questo a dimostrare che tutti i grandi ideali umani sono in realtà molto esigui se posti in relazione con ciò che ci circonda e che non riusciamo a spiegarci.
Il ruolo degli altri personaggi è difficilmente comprensibile, infatti nessuno di essi è descritto con molta precisione. Si può comunque fare una divisione tra antagonisti e aiutanti del protagonista limitandoci a tener conto del loro rispettivo schieramento politico e quindi rifacendosi solamente all'interpretazione più letterale del racconto. Così facendo risulta che Amerigo è aiutato unicamente dalla scrutatrice col golfino arancione, mentre ha come antagonisti lo smilzo, la scrutatrice con la blusa bianca, il prete, la monaca ed anche il presidente.All'introduzione di un nuovo personaggio, l'autore ci comunica soltanto i pochi elementi, riguardanti il fisico o l'abbigliamento, che sono necessari per distinguere un personaggio dall'altro. In seguito, osservando il loro comportamento il lettore può capire qualche altro elemento a loro riguardo anche se l'interesse dell'autore è molto incentrato sul percorso del protagonista. La descrizione risulta dunque una combinazione tra descrizioni dirette e indirette dei personaggi. Non sono comunicati i nomi dei personaggi se non quelli di Amerigo e di Lia.
A metà giornata fa un breve rientro nella sua spoglia abitazione di scapolo maturo e telefona alla sua ragazza, Lia, con la quale gli riesce più facile intrattenere rapporti quando se la raffigura nella sua fantasia che quando interagisce direttamente con lei. Lia gli comunica, telefonicamente, quasi con noncuranza, di essere incinta, disorientandolo e facendogli perdere la sua assorta concentrazione. Lia è una ragazza che il protagonista definisce "prelogica", naturale ed immediata, poco incline alle speculazioni del pensiero «Ecco... per lei non conta la logica della ragione ma solo la logica della fisiologia». Riesce difficile ad Amerigo coinvolgerla nel suo mondo interiore dominato dal pensiero e dalla riflessione.
Si ha la presenza di un solo narratore, esterno alla storia anche se la sua affinità ideologica con Amerigo si può notare in più di un frangente. Questo pur essendo esterno alla storia non è onnisciente in quanto ignora fatti che hanno un'importanza, seppure piuttosto marginale, all'interno del racconto. Egli non conosce i nomi di alcuni dei personaggi, come anche altri elementi che li riguardano. Nella descrizione dei componenti del seggio (come anche in altre occasioni) il narratore si limita infatti a fare delle supposizioni riguardo all'età, al mestiere e ad altri particolari che riguardano gli scrutatori: ipotizza, ad esempio, che la scrutatrice vestita di bianco sia vedova, osservando il ritratto che essa porta sul petto. Ciò che il narratore conosce ricalca molto da vicino ciò che conosce anche Amerigo con il vantaggio però di aver narrato la vicenda dopo la sua conclusione e conoscendo per cui alcuni particolari con maggior precisione. Si può dunque dire che, per quanto riguarda strettamente la vicenda, il narratore conosce più degli altri personaggi.
Il punto culminante della narrazione è quello in cui Amerigo, ormai membro del "seggio distaccato", constatando le condizioni delle persone ricoverate nelle più nascoste zone dell'edificio, si dimostra un uomo diverso rispetto all’Amerigo uscito di casa alle cinque e mezzo del mattino, denotando una personalità molto meno distaccata da ciò che lo circonda e ponendosi problemi di maggiore importanza rispetto a quelli più "pratici" da lui avuti in precedenza.
«Nel mondo-Cottolengo Amerigo non riusciva più a seguire la linea delle sue scelte morali o estetiche. Costretto per un giorno della sua vita a tener conto di quanto è estesa quella che viene detta la miseria della natura sentiva aprirsi sotto ai suoi piedi la vanità di tutto».
Il tema centrale riguarda l'idea dell'autore dell'assurdità dell'aspetto della democrazia che permette il voto ai deficienti ed ai paralitici i quali secondo lui appartengono ad un mondo a se stante. Questo è dichiarato esplicitamente dall'autore in una presentazione del libro, scritta in occasione dell'uscita della sua opera. In tale presentazione, l'autore afferma però di non trattare per intero questi temi così impegnativi bensì di sfiorarli soltanto.


MARCOVALDO, LE STAGIONI IN CITTÀ (1963)

Marcovaldo è un neologismo che nasce dalla fusione di due nomi, così come nasce il libro stesso di Calvino, frutto di unione tra realtà e immaginazione, vero e verosimile, satira e sarcasmo.
I racconti dedicati al personaggio di Marcovaldo hanno una storia particolare, ma non infrequente in Calvino: dieci testi escono nel 1958 (nella raccolta Gli amori difficili), altri dieci escono nel 1963 (nella raccolta Marcovaldo) assieme ai precedenti, che però vengono ora collocati in un ordine diverso e rifusi in una struttura che ha caratteristiche diverse da quella originaria.
Questo libro di Calvino non è un racconto unico; si articola infatti in 20 novelle, in cui il ciclo delle stagioni si ripete per cinque volte. Esse, raccontate da un narratore onnisciente, hanno sempre un finale comico e ironico, che fa sorridere da una parte ma piangere dall’altra. In esse si parla della vita del protagonista in un anno; una vita banale e fatta di stenti ambientata in una città industriale degli anni 60 durante il boom economico.
Marcovaldo è un operaio addetto al carico e scarico delle merci in una ditta che si chiama S.B.A.V, venuto dalla campagna in città per trovare lavoro, ha una moglie, Domitilla che mette a freno tutte le idee del marito, e quattro figli pestiferi da mantenere ed è sempre senza un soldo. È un personaggio “buffo e melanconico”, molto ingenuo infatti “smemorato com’era svitava sempre il coperchio con curiosità e ghiottoneria”. È però un uomo forte, che affronta mille disavventure senza disperarsi, con coraggio, si sa adattare e sa godere anche di piccole cose, come i bambini. È un personaggio a tutto tondo che rappresenta l’uomo medio dell’epoca che era appena uscito dal dramma della seconda guerra mondiale. Trasferitosi in città Marcovaldo vi cerca la natura, l’unico in realtà ad accorgersene, ma può solo sognarla immerso com’è tra l’inquinamento urbano.
Cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, anche se studiati per cogliere l’attenzione, non riescono a colpire il suo sguardo, però una foglia che ingiallisce su un ramo, una piuma che si impiglia ad una tegola non gli sfuggono mai. In mezzo al cemento e all’asfalto della città inquinata, egli crede ogni tanto di rivedere un po’ della campagna lontana, ma si tratta di una illusione e i suoi entusiasmi vengono sempre mortificati. Infatti la natura, in città, sembra essere deformata, alterata, compromessa con la vita artificiale, non è la natura che ha forse conosciuto da bambino e che vorrebbe far amare anche ai suoi figli.
Egli cerca di mantenere dignitosamente la sua famiglia, ma tutti i suoi tentativi di trovare un po’ di fortuna e di stare un po’ meglio, finiscono sempre per prendere una piega bizzarra e ironica. Come ad esempio nella prima novella “Funghi in città”. Marcovaldo scopre e raccoglie dei funghi cresciuti sulla striscia d'aiola d'un corso cittadino. È tutto eccitato dalla sua scoperta e gli parve che il mondo grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’ a un tratto generoso di ricchezze nascoste. I funghi furono ben presto notati anche da Amadigi, l’operatore ecologico già antipatico a Marcovaldo per il suo lavoro di “cancellatore” di tracce naturali. Ma quando è finalmente arrivato il momento di farsi una bella mangiata di funghi, essi si rivelano velenosi e tutta la famiglia si ritrovano in ospedale.
O come nell’episodio in cui ruba un coniglio e scopre che è contaminato da un virus, e così in tutti gli episodi, dove ogni volta si illude di aver ottenuto qualcosa ma poi si accorge che non è cambiato nulla.
Il libro narra di una storia molto originale e più profonda di quello che appare. È un romanzo realista e sociale che ritrae una fetta di società di quegli anni: la classe sociale a cui appartiene Marcovaldo, quella degli operai, degli spazzini, dei portieri. Tutte persone che dovevano lottare per vivere dignitosamente ma che comunque apprezzavano la vita e, dopo i tragici anni della guerra, la consideravano un paradiso.
Il libro mette anche in evidenza i numerosi problemi e le contraddizioni della società moderna industriale e la comicità delle novelle non fa altro che da sfondo alla critica di questa nuova società e di questo modo di vivere frenetico e monotono.

Marcovaldo rappresenta quella parte di noi che vuole evadere dallo stress cittadino e che cerca ancora in città le piccole cose che gli fanno sorridere, anche se non sempre le trova. Infatti come Marcovaldo voleva cercare la Natura nella sua città, così il lupo voleva addentare il coniglio. Entrambi però riuscirono soltanto a vedere i propri desideri ma non riuscirono a prenderli.



Lavoro e cultura nel ‘900 italiano 5 (Valchiavenna e lavoro) - A cura di Claudio Di Scalzo


Lavoro e cultura nel ‘900 italiano 5 
(Valchiavenna e lavoro) 
a cura di Claudio Di Scalzo



LO SVILUPPO INDUSTRIALE DELLA VALCHIAVENNA
INDUSTRIA

Collocata in ottima posizione per gli scambi tra le valli dell'Adda, del Ticino, del Reno e dell'Inni Chiavenna fu per secoli un fiorente centro commerciale.
Agli inizi del XIX secolo, la costruzione della strada carreggiabile dello Spluga2, all'epoca la più importante arteria commerciale tra Milano e la Germania, accrebbe notevolmente il volume delle merci che transitavano dalla cittadina, ultima tappa prima di valicare le Alpi. Nello stesso tempo l'aumento della velocità dei trasporti provocò la decadenza della Valle Spluga (o Val S. Giacomo), che per secoli era vissuta dei servizi al transi¬to.
La costruzione della rete ferroviaria attraverso le Alpi, nella seconda metà dell'ottocent03, trasferì le sedi commerciali presso i nodi ferroviari ed azzerò l'importanza strategica dei valichi. Chiavenna perse definitiva¬mente il ruolo di “emporio” al piede delle Alpi, pur mantenendo per lungo tempo i tratti culturali dei luoghi di passaggio.
In città esisteva una sola fabbrica di grandi dimensioni: il cotonificio diChiavenna fondato da azionisti svizzeri.
Nella seconda metà del secolo, mentre l'emigrazione verso le Americhe e l'Europa spopolava i paesi della Valle, lungo il fiume Mera cominciaro¬no a collocarsi, accanto ai capannoni del cotonificio, altri stabilimenti.
Nel 1922 Chiavenna è una cittadina industriale.
Il cotonificio, che all'inizio del 1923 cambierà padrone e nome,4 occupa poco meno di 500 operai che lavorano in tre stabilimenti: Poiatengo, Convitto e Tanno (o Reguscio).
Nel settore tessile operano anche l'ovattificio Fratelli Dolci (già Steinauer), con più di trenta dipendenti ed il piccolo lanificio Buzzetti.
Il birrificio Spluga, sorto dalla fusione dei birrifici preesistenti, è in continua espansione produttiva occupando,nel periodo estivo, più di 300 operai.
Nel settore alimentare operano: il pastificio e mulino Fratelli Moro, la fabbrica di caramelle Scaramellini, con dieci dipendenti, ed il piccolo salu¬mificio dei Fratelli Pozzoli.
La ditta Confalonieri, sorta agli inizi del secolo come fabbrica di ges¬setti da lavagna, si sviluppa nei settori dei pastelli e di altri articoli sco¬lastici.
La ditta Raimondo Persenico, prima fabbrica di sci in Italia, produce anche botti, mobili ed oggetti di cancelleria.
Dal 1910 la ditta Conca costruisce stufe. Ci sono anche segherie e nego¬zi di legname (Rota, Giuriani, Buzzetti); ed antiche ditte che commer¬ciano all'ingrosso vino (De Giacomi, Sterlocchi, Perego).
Nel settore dell'energia opera la Società per l'Illuminazione elettrica (S.I.E.C.) e si presenta sulla scena della valle la Società Idroelettrica Cisalpina.
Il settore edile è rappresentato dalla ditta Ploncher-Morani e dalla Società Lombarda di Costruzioni Edili D.E. Peduzzi
Nel settore creditizio, in città, sono aperti quattro sportelli:
- la Banca Privata Ponti, Dell'Orto, Pasini e C.;
- la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde;
- la Banca Piccolo Credito Valtellinese.
Nel 1923 nascerà il Banco Fagioli ed aprirà uno sportello la Banca Agricola Italiana di Torino.
Le attività estrattive, ormai scomparsa la lavorazione della pietra olla¬re, sono concentrate a Novate Mezzola, dove le cave di granito "S. Fedelino" hanno procurato, fino al 1915, un discreto lavoro agli scalpelli.
Nel 1922 però le cave sono ferme. La promettente produzione... «del nuovo secolo fu bruscamente interrotta dallo scoppiare della prima guer¬ra mondiale che fermò quasi completamente, per oltre un quinquennio, l'attività delle cave...»
Nel settembre del '22 una cooperativa di scalpellini, sorta su impulso della sezione socialista, dopo «quasi un anno di disoccupazione, riceve una prima ordinazione».
A partire dal 1923 riprende la lavorazione del granito «… con un'inten¬sità quale mai s'era vista per l'innanzi. La spinta venne nuovamente da Milano in conseguenza del vasto rinnovamento urbanistico del dopoguer¬ra e dei grandi lavori stradali...»
L'avvento della ferrovia e la buona percorribilità della strada dello Spluga danno, a partire dal primo novecento, un certo impulso al turismo. Chiavenna è attrezzata per rispondere ai flussi in transito da o verso la Svizzera; Campodolcino e, soprattutto, Madesimo, che può sfruttare la notorietà data alla località dai soggiorni estivi di Giosuè Carducci nei primi anni del secolo, vedono aumentare le presenze turistiche in albergo ed in case private. Si calcola che, nell'estate del 1921, siano presenti in Vallespluga circa duemila villeggianti.
Alcune applicazioni tecnologiche hanno consentito all'industria chia¬vennasca di mantenersi competitiva nel primo ventennio del secolo.
La prima centrale termoelettrica italiana viene inaugurata il 28 giu¬gno1883 in Via S. Radegonda a Milano con l'illuminazione del teatro Manzoni.
Pochi mesi dopo, nel settembre 1883, nel Cotonificio Amman di Chiavenna, l'ing. Lorenzo Vanossi installa un generatore elettrico, azio¬nato idraulicamente, in grado di accendere trenta lampade ad incande¬scenza che sostituiscono i lucignoli a petrolio.
«Dall'Alpe Retica rileviamo che nello stabilimento Amman di Chiavenna fu messa in opera... l'illuminazione elettrica con 30 fiamme... Le nostre congratulazioni al distinto ingegnere ed all'ardito industria¬le».
Nei primi anni del Novecento, migliorata la tecnica di produzione di energia idroelettrica con l'applicazione dell'alternatore, sorgono a Chiavenna cinque centraline: tre muovono le macchine del cotonificio Amman, una muove quelle del birrificio, la quinta è installata nel mulino e pastificio Moro.
Un'ulteriore centralina al servizio dell'industria chiavennasca sarà inaugurata nel 1924, alla Molinanca, per far funzionare i motori di alcu¬ni piccoli stabilimenti.


AGRICOLTURA

Nel 1922 solo a Chiavenna e, in misura molto minore, a Novate Mez¬ zola è presente un nucleo di proletariato urbano.
Nella valle quasi tutte le famiglie possiedono almeno un pezzo di terra. La piccola proprietà fondiaria diffusa costituisce il tratto prevalente nella struttura socio-economica.
Il nucleo produttivo è formato dalla famiglia. All'interno di essa con¬corrono alla formazione del reddito: la donna e i bambini che, spesso, si accollano i lavori nella stalla e nei campi; il lavoratore dell'industria o del¬l'artigianato che, nelle ore libere, dà una mano in campagna; l'emigrante stagionale che si reca, prevalentemente in Svizzera, a fare il pastore, il famiglio, il falciatore o il boscaiolo; l'emigrante nelle Americhe, che man¬tiene i legami con la famiglia e la proprietà con le rimesse pecuniarie.
Tutti lavorano per il sostentamento e per il miglioramento delle condi¬zioni famigliari. Se non intervengono disgrazie (incidenti, pestilenze, guerre, moria di bestiame...) si investiranno i guadagni nell'adeguamen¬to o nell'ampliamento dell'azienda.
Da tempo il salario industriale ed il ricavo delle “stagioni” sono diven¬tati economicamente più consistenti rispetto al reddito agrario, ma la pro¬prietà della terra mantiene ancora un ruolo fondamentale: sono l'orto, il campo e la stalla che sfamano nei momenti di crisi, o quando le cose vanno male.
Nel fondovalle e nella mezza costa montana il terreno è spezzettato in piccole proprietà; nel piano del Mera ci sono consistenti lotti di proprietà comunale; gli alpeggi sono a proprietà comune o consortile.
L'alimentazione dei contadini e degli operai è piuttosto scarsa, costi¬tuita in gran parte da polenta, minestra, patate, fagioli e latticini. Le abi¬tazioni sono piccole, male arieggiate, umide ed insufficienti al bisogno delle famiglie. .
L'elettrificazione dei paesi (vedi Tav. 1) ha migliorato la situazione: in parecchie case si installa qualche lampadina che aiuta a rendere meno lunghe le sere invernali. Ci sono ancora, specialmente sui maggenghi, ma non solo, abitazioni senza vetri e senza camino, tanto che l'abitudine di riunirsi nelle stalle per passare le lunghe serate invernali è ancora usua¬le nei paesi della valle.

TAV. 1
Diffusione dell'illuminazione elettrica

ANNO   CENTRALINA     CORSO D'ACQUA            LOCALITÀ ILLUMINATA
1895      S. Giacomo Filippo          Liro        Chiavenna
1896      Campo Mezzola               Codera Novate Mezzola
1901      Villa di Chiavenna            Vertura                Villa di Chiavenna
901/10*               S. Giacomo Filippo          Liro        Prata Camportaccio,Mese, Coloredo, Castanedi, S. Pietro, S. Cassiano
1912      Prosto  Mera     Prosto
1912      Savogno              Acqua Fragia      Savogno
1917      Borgonuovo      ?             Borgonuovo, S.Croce
1920      S. Giacomo Filippo          Liro (SIEC)           S. Giacomo Centro,Gallivaggio
1923** Sorico   ?             Era, Gordona, Verceia
1924      Loc. Siberia         Meretta              Somaggia

* Agli inizi del secolo la S.I.E.C. sostituisce la dinamo con l'alternatore aumentando la potenza della centra¬le di S. Giacomo.
** La Società Cisalpina utilizza la linea elettrica a 20.000 volt, costruita per i suoi lavori in valle Spluga, per illuminare i paesi della valle.



Maurizio Quadrio: pioniere
del Movimento operaio a Chiavenna
La Società Democratica Operaia di Chiavenna celebra un secolo di fedeltà agli ideali di Maurizio Quadrio

Nella cartelletta 1877 dell'archivio della Società democratica operaia di mutuo soccorso di Chiavenna si conservano, nello scrupoloso ordine come vi furono lasciate un secolo fa, le carte documentarie della prima commemorazione di Maurizio Quadrio. Ci è parso necessario ricollegarci con le intenzioni e le decisioni dei nostri con soci di tre-quattro generazioni fa anzitutto per veri¬ficare la nostra coerenza con i loro ideali e quindi per impegnarci, secondo tradizione, in un programma di onoranze che, lontane dal fastigio retorico, ci ponesse in grado di riaffermare il valore democratico della solidarietà e dell'unità dei lavoratori del braccio e del pensiero.
Maurizio Quadrio era nato il 6 settembre 1800 a Chiavenna, dove suo padre Carlo, che esercitava la professione medica, aveva sposato la chiavennasca Angelica Pestalozzi. I Quadrio erano originari di Chiuro in Valtellina. Quando il dotto Carlo, appena alcuni anni dopo, lo poté, fece ritorno al borgo natio, portando con sé la famiglia, arricchitasi nel frattempo di ben altri cinque rampolli.
A Chiavenna di Maurizio Quadrio non rimase forse nulla, se si eccettua l'annotazione del suo battesimo sui registri parrocchiali di San Lorenzo.
C'è notizia che da parte di qualcuno si pose in dubbio in qualche momento la sua nascita nella città della Mera. Tuttavia la verità anagrafica fu ripresa e consolidata con l'affermarsi della sua perso¬nalità politica. Fu lo stesso Maurizio Quadrio, nell'unica lettera inviata al neo costituito Circolo repubblicanoPensiero e Azio¬ne di Chiavenna nel giugno o luglio 1872, a ricordare il suo borgo natale: «l'annunzio che me ne date è riuscito gratissimo a me che nacqui fra i nostri monti ». Non solo dunque simpatia e gratitudine per la comune fede repubblicana dovevano animare i promotori delle celebrazioni chiavennasche del Quadrio nel 1877 (l'anno successivo alla sua morte), ma anche il doveroso impegno ad onorare il concittadino, che aveva visto la luce lungo le rive della sonante Mera.
Il primo cenno di proposta «per la prossima festa commemora¬tiva di inaugurare una lapide a Maurizio Quadrio nella casa in Chiavenna ove ebbe nascimento» appare nel verbale della seduta del Consiglio di amministrazione della Società operaja del 9 ago¬sto 1877, firmato da Carlo Pedretti, G. Crottogini e G. Redaelli. Gli stessi inviano una lettera in data 2 settembre 1877 ai signori Carlo Moro e Fioramonte Peverelli con il seguente testo: «Sa¬rebbe intendimento di questa Società di ricordare con una modesta pietra il virtuoso e forte patriota Maurizio Quadrio, che ebbe i natali in Chiavenna, precisamente nella casa di proprietà della S.V. A tale scopo la scrivente Direzione prega di voler concedere a questa Società il collocamento della pietra sulla facciata di detta casa, in posizione da destinarsi di comune accordo».
Tanto il signor Peverelli quanto il signor Moro rispondevano quasi immediatamente, precisamente il 5 settembre, indirizzando rispettivamente alla lodevole Società democratica operaja e alla onorevole Società operaja di mutuo soccorso. Il signor Fioramonte Peverelli, «applaudendo alla determinazione di ricor¬dare il patriota Maurizio Quadrio», scrive: «acconsento, da mia parte, di buon grado acché sia collocata [...] una pietra sulla facciata della casa in contrada della fabbrica, salvo gli opportuni concerti sulla prevista posizione». Similmente il signor Moro, «per gli eredi di Antonio Perlongher», aderisce «pienamente al desiderio di codesta Società per il collocamento in questa casa della pietra ricordante Maurizio Quadrio; sempre però faccia adesione l'altro comproprietario sig. Peverelli Fioramonte».
Quattro giorni dopo, il 9 settembre, si riunisce in generale adu¬nanza la direzione della Società democratica operaja per delibe¬rare, al primo punto dell'ordine del giorno, sulla «proposta di fare la festa commemorativa nel mese di ottobre p.v., inauguran¬do in tale occasione una lapide a Maurizio Quadrio». «Dopo breve discussione», riferisce il verbale, «l'Assemblea unanime delibera di fare la proposta festa commemorativa possibilmente il 30 and. mese [...] ed all'uopo nomina per acclamazione una commissione composta dai soci Ploncher Enrico [che non accet¬tò], Pighetti Enrico, Del Grosso Andrea, Oldrini Luigi, Pollavini Bartolomeo, Mella Ercole».
In un piccolo foglio inserito nel fascicolo del verbale si riporta il testo della lapide: «In questa casa / nacque / MAURIZIO QUADRIO / il 6 settembre 1800 / La Società Democratica Ope¬raja / ottobre 1877».
La Commissione per la festa commemorativa fu convocata per il 21 settembre, ore 8 di sera. Poiché però dei sei membri soltanto due (Bartolomeo Pollavini e Andrea Del Grosso) risultarono pre¬senti, non si poté procedere alla discussione, mancando il numero legale. Riconvocata la Commissione per il 27 settembre, sempre alle 8 di sera, risultarono presenti tre membri (Bartolomeo Pol¬lavini, Ercole Mella e Luigi Oldrini). Essendovi il numero legale, si poté alfine deliberare. Oggetto della discussione fu però la scelta di un fondo, in località Pizzo 4, ove fare svolgere la festa sociale. Nessun accenno alle celebrazioni in onore di Maurizio Quadrio. Gioverà in proposito ricordare come «ogni anno, in ottobre, la Società celebrava con una festa campestre, a Prata, a Prosto, a Santa Croce, a Villa la ricorrenza della propria fonda¬zione. Erano feste indimenticabili per lo spirito di fratellanza che le animava, allietate dagli inni della patria e dai canti del l5 repertorio popolare».
In quell'anno 1877, come si legge nel successivo verbale del 7 ottobre, relativo all'adunanza generale del Consiglio, «a 1 ora e mezzo pomeridiana [...] si prendono le disposizioni per la Festa, concernenti semplicemente l'inaugurazione della lapide a Maurizio Quadrio [...] ed il concerto da darsi dalla banda della Società 6 alle ore 4 pomeridiane».
La domenica pomeriggio, 14 ottobre, si svolse la cerimonia com¬memorativa. Di essa tratta il verbale dell'adunanza riunitasi nella stessa giornata, steso e firmato da Carlo Pedretti per la direzione. Al primo punto esso reca: «Inaugurazione della lapide a Mauri¬zio Quadrio». L'estensore annota: «Presente numeroso stuolo di soci, la Società parte dalla sede sociale 7 colla bandiera e il corpo musicale in testa e, percorrendo le contrade del paese, giunge in bell'ordine alle ore 2 pomo sul luogo dell'inaugurazione, ove la cerimonia del collocamento della lapide a Maurizio Qua¬drio si compie nei modi descritti nel numero 42 dell' Alpe Reti¬ca [...]. La Società fa quindi ritorno in massa nella sala sociale, ove si procede all'esaurimento degli altri articoli dell'ordine del giorno».
Allegato al foglio del verbale si trova, con l'esemplare precisione degli antichi amministratori della Società operaja, il numero del settimanale Alpe Retica,foglietto popolare valtellinese, datato Chiavenna 20 ottobre 1877, che in prima pagina, sotto il semplice titolo “Maurizio Quadrio”, su una sola colonna, presenta con stile sottilmente polemico la descrizione della cerimonia. Essa corri¬sponde al tono del settimanale, creato proprio per muovere le acque dinanzi alla «così detta gente seria che posa a reggitrice della cosa pubblica e a moderatrice del borgo», di quella gente che, approfittando del tempo magnifico e invitante a «godersela fra le valli», aveva preferito «lasciare da un canto la miseria di una lapide, incastrata in un muro, a ricordo d'un individuo che non ebbe neppure la gloria di vantare uno straccetto di nastro all'occhiello dell'abito». La cerimonia, scrive l'articolista, riuscì «cerimonia schiettamente democratica. Né poteva essere altri¬menti», continua. Infatti «l'iniziativa partì dal popolo, e l'uomo, la cui memoria si onorò con un modesto marmo, ebbe cuore di popolo e lottò col senno e colla mano per la libertà del popolo».
Le onoranze ebbero dunque, come protagonista, «l'elemento operajo ».
La cronaca annota che «alle due pomeridiane la nostra Società operaia, preceduta dal Corpo musicale e a bandiere spiegate, mosse in bell'ordine dalla sede sociale, fece un giro nel paese e quindi si avviò alla casa che raccolse i primi vagiti dell'immortale repubblicano, situata in via della fabbrica, e che d'ora innanzi dovrebbe essere chiamata via Maurizio Quadrio. Là giunta, ri¬suonò l'armonioso inno delle battaglie popolari e un bravo ope¬rajo collocò la lapide presso l'angolo di quella parte della casa che prospetta il grandioso opificio Amman li, Dopo breve pausa, il signor Redaelli 12 diede lettura dei telegrammi e delle lettere pervenute alla Società ed alla Redazione dell'Alpe Redica 13. Quin¬di prese la parola il degno presidente della Società operaia, signor Carlo Pedretti; egli pronunciò un discorso breve, ma caloroso e pieno di forti e patriottici pensieri, che venne salutato da applau¬si». Tra l'altro il Pedretti sviluppò il concetto, velato di lontani influssi della Riforma e robustamente essenziale, come essenziale è lo spirito della gente di montagna, secondo cui «i monumenti sontuosi denotano decadenza di un popolo, mentre i modesti ricordi [...] significano un progresso morale e sono indizi che la coscienza del popolo ne segue gli esempi».
«Riecheggiarono», continua la cronaca, «le note pur sempre elettrizzanti dell'inno garibaldino» e poscia il segretario della Società operaia e direttore diAlpe Retica, Giovanni Redaelli, pronunciò il discorso ufficiale, che viene riportato dal giornale per esteso. Di esso noi ci limitiamo a riferire il passo, che rite¬niamo centrale.
«Inaugurando una lapide alla memoria di quel sommo Valtelli¬nese, il nostro concetto fu quello di ricordare alla generazione che sorge un nome che fu la personificazione del “dovere” e della “virtù”, e di porgere ad essa un esempio vivo e luminoso del modo con cui si debba compiere il dovere e praticare la virtù come uomo e come cittadino; un nome che Garibaldi chiamò “luminare benefico in tempi di tristissima corruzione”, e che noi vorremmo le servisse di bandiera sulle vie della libertà. Inaugu¬randola oggi noi intendiamo pure di fare una protesta solenne contro l'ipocrisia politica, contro la corruttela serpeggiante nei meandri sociali, contro il voltafaccia coonestato col passaporto “modificazioni d'opinione”; ipocrisia, corruttela e voltafaccia do¬minanti nella nostra Italia, cominciando dall'alto ». La cronaca conclude scrivendo che, «ultimata la patriottica cerimonia, la Società operaja, fra i lieti suoni del suo bravo Corpo filarmonico, rientrò alla propria sede, colla coscienza d'aver compiuto un do¬vere in faccia alla democrazia e a sé stessa, onorando la santa memoria di Maurizio Quadrio».
Allegato al fascicolo delle celebrazioni si conserva un foglietto, datato 15 ottobre 1877 e firmato dal segretario Redaelli, da cui si deduce il costo della lapide: «Pagate a Pollavini Bartolomeo per la spesa lapide e condotta da Varenna Lire 20.50». La lapide era stata dunque preparata a Varenna, dove fiorivano le cave del marmo locale. La spesa era stata totalmente coperta con la vendita di dieci ritratti del Mazzini e di quindici del Quadrio, «spediti dal fotografo signor Eugenio Martinucci da Londra a favore della lapide a Maurizio Quadrio».
A distanza di un secolo la nostra Società democratica operaja di mutuo soccorso ha promosso le manifestazioni commemorative del patriota concittadino, in collaborazione con l'Associazione mazzi¬niana italiana, il cui presidente nazionale, prof. Giuseppe Trama¬rollo, già in occasione delle celebrazioni secolari della morte di Giuseppe Mazzini (1972), ci aveva impegnato a dare la dovuta attenzione, nella continuità culturale e civica del nostro sodalizio, all'anniversario del Quadrio.
Nell'incontro svolto si a Milano presso la sede dell'A.M.I., dome¬nica 11 gennaio 1976, tra il nostro presidente, Luigi Festorazzi, e il segretario, Sergio Consonni, ed il presidente e dirigenti del¬l'A.M.I., Giuseppe Tramarollo, Arturo Colombo e Roberto Bran¬di, si posero le basi programmatiche delle manifestazioni. Esse comprendono:

1) un convegno di studi sulla figura di Maurizio Quadrio con la partecipazione di relatori di vari Paesi europei. Sono annun¬ciate pure alcune comunicazioni di soci chiavennaschi della Società operaja;
2) lo scoprimento ed inaugurazione di una lapide, murata sulla parete esterna dell'edificio della Società operaja (lato gioco bocce) con la seguente epigrafe:
«AL CONCITTADINO / MAURI¬ZIO QUADRIO / PIONIERE DEL MOVIMENTO OPERAIO / NEL CENTENARIO DELLA MORTE / LA SOC. DEMOCRATICA OPE¬RAJA DI M.S. / DI CHIAVENNA / DEDICÒ / 11 APRILE 1976»;
3) un corteo con partecipazione dei soci, autorità ed ospiti pre¬senti, dei Garibaldini reduci dalle Argonne e della Banda cittadina, che eseguirà inni risorgimentali. Esso muoverà dalla sede sociale in via Cappuccini, percorrerà via Dolzino, piazza Pestalozzi, ancora via Dolzino, piazza Castello sino in via M. Quadrio. Deposizione di fiori sulla casa natale. Ritorno in piazza Castello. Deposizione di una corona dinanzi alla stele di M. Quadrio. Discorso ufficiale del prof. Giuseppe Tramarollo;
4) ricevimento in municipio degli ospiti convenuti.
Alle manifestazioni sono stati invitati soci, autorità, amici e per¬sonalità della Valchiavenna e dell'intera provincia di Sondrio, in particolare le Società operaje di Sondrio e Colico, che sono le due con sorelle sopravvissute, insieme con la nostra, alle alterne vicende di un secolo e con cui intratteniamo cordiali rapporti.
La nostra Società operaja ha chiesto ed ottenuto la collaborazione nell'organizzazione delle manifestazioni del Comune di Chiaven¬na, della Comunità montana della Valchiavenna, del Centro di studi storici valchiavennaschi, del museo A VIS-Paradiso, della Pro Chiavenna.
È stato affisso in Chiavenna e in valle il seguente manifesto.

SOCIETÀ DEMOCRATICA OPERAJA DI MUTUO SOCCORSO CHIAVENNA
MAURIZIO QUADRIO 1800/1876

Un secolo fa si spegneva in Roma Maurizio Quadrio, intrepido patriota mazziniano, al quale Chiavenna aveva dato i natali nel 1800.
I nostri antenati ebbero da lui ammaestramento coerente ed in¬citamento fermo ad operare con rettitudine nella nuova Italia risorgimentale, che con Mazzini egli aveva desiderato repubbli¬cana settant'anni prima che la storia lo decretasse.
La nostra Società operaia, fondata e guidata con coraggio ed entusiasmo da Carlo Pedretti, contava più di 500 soci nella Chia¬venna d'allora, che aveva colto negli ideali del mutuo soccorso e della giustizia sociale le valide ragioni dell'unione solidale dei cittadini.
L'esempio di quei nostri lontani padri, operai del braccio e della mente, si è tramandato nel borgo e nella valle come richiamo costante ai valori del reciproco rispetto, della tolleranza e della libertà. Per questo, assieme a Maurizio Quadrio, noi li onoriamo tutti, dall'umile operaio delle dodici ore quotidiane al generoso maestro delle poche decine di lire mensili, grati a loro per la splendida eredità morale lasciataci, anche se amaramente consa¬pevoli che l'Italia, forse umile ma onesta da loro voluta, resta tuttora un impegno da compiere.

Il Consiglio direttivo

Anche l'Associazione mazziniana italiana ha fatto affiggere in tutta la provincia di Sondrio un manifesto con il seguente testo.

ASSOCIAZIONE MAZZINIANA ITALIANA
CENTENARIO DELLA MORTE DI MAURIZIO QUADRIO

Cittadini,
nel trentesimo anniversario della proclamazione della Repubblica una ed indivisibile si compiono cent' anni dalla scomparsa del più fedele discepolo di Giuseppe Mazzini, che ne condivise tenace¬mente gli ideali di indipendenza nazionale e di fratellanza dei popoli, di libertà e di emancipazione sociale: Maurizio Quadrio. Tutta la Valtellina, memore del!' eroismo dei combattenti mazzi¬niani di Verceja, ricorda alle regioni consorelle della patria italiana
la figura del grande chiavennasco, semplice e rude) cospiratore e combattente) giornalista e organizzatore, che raccolse l'eredità spirituale di Mazzini e guidò con mano ferma fino alla morte in Roma nel 1876 la prima organizzazione nazionale dei lavoratori italiani.
L'integrità della vita, l'intransigenza repubblicana, la fierezza del carattere, il rifiuto della demagogia fanno di Maurizio Quadrio una figura esemplare dell'Italia moderna: nella sua montanara modestia
Egli può ancora insegnare agli Italiani che nessun pro¬gresso è possibile senza libertà.

Milano, via Pantano 17

La direzione Nazionale