Lavoro e cultura nel ‘900
italiano 2
(Paolo Volponi-Romano Bilenchi)
a cura di Claudio Di Scalzo
PAOLO VOLPONI
Paolo Volponi narra la condizione
operaia e contadina del lavoro, la malattia della fabbrica e l’alienazione
dalla natura: e la fine dell’uomo nell’utopia anti-borghese. La scheda
biografica di Paolo Volponi dice che egli è nato a Urbino il 6 febbraio 1924, e
che lì è rimasto fino all’età di ventisei anni. Si laurea in giurisprudenza nel
1947, e sempre a Urbino, nel 1948 pubblica il suo primo libro di versi, “Il
ramarro”. Nel 1950 avviene l’incontro con Adriano Olivetti: incontro decisivo
per Volponi, nel senso che il comunitarismo olivettiano, assorbito per pratica
più che per vie soltanto intellettuali, decantò e sistemò il suo populismo di
fondo, lo convogliò ad una visione organica e positiva della società che egli
espone ogni volta che il caso gliene offre il destro. Assunto da Adriano
Olivetti, Volponi veniva distaccato presso la UNRRA-CASAS (Comitato
Amministrativo di soccorso ai senza tetto), per la quale condusse una serie di
inchieste lungo il dorsale appenninico meridionale, dall’Abruzzo alla Calabria,
fino ij Sicilia. Nel 1953 si trasferisce a Roma, dove continua il suo lavoro di
assistenza sociale; il 1955 è la data di pubblicazione del suo secondo libro di
versi, “L’antica moneta”, nel 1956 si
trasferisce a Ivrea con l’incarico di direttore dei servizi sociali della
Olivetti. La terza raccolta di poesie, “Le porte dell’ Appennino”, viene
stampata nel 1960 che gli permette di vincere il premio Viareggio , e si
dedica, nel 1961, alla stesura del romanzo “Repubblica borghese”, che darà alle
stampe solo nel 1991 con il titolo “La strada per Roma”. Nel 1962 con il
romanzo Memoriale, tradotto in undici lingue, ottiene il premio dei Librai
milanesi e neI 1963 il premio Marzotto
Oltre a rappresentare però, il
libro più più noto di Volponi,
Memoriale, è sicuramente un libro che affronta in pieno le problematiche
connesse al rapporto fra l'individuo e la fabbrica, e in questo senso fa
continuo riferimento alla situazione storica, economica e politica degli anni
Cinquanta e dei primi anni Sessanta, all'inurbamento contadino e ai traumi ad
esso collegati, all'adattamento ai ritmi della società industriale, allo stato
di alienazione che viene a determinarsi nell'operaio della grande industria.
Questa interpretazione di Memoriale, però, costituisce solo un primo livello di
lettura dell'opera, svolto in chiave sociologica. Infatti, come Volponi stesso
spiega nella nota che precede il romanzo, la "città industriale" non
ha identità e non si deve attribuire soltanto a questa le cose narrate. Il
romanzo, che ha una struttura diaristica, pur svolgendosi nell'ambientazione
della fabbrica, si configura anche come storia di una nevrosi, di una
"malattia", cioè, non solo fisica ma soprattutto psicologica, che
consente al protagonista di rimanere estraneo, non integrato rispetto al mondo
produttivo, ma di essere, proprio per questo, in grado di rivelarne i limiti e
la disumanità.
Da quanto detto risulta chiaro
che Volponi propone di fatto una realtà simbolica, attribuendo alle vicende
dell'operaio Albino un valore paradigmatico, universale: il memoriale del
protagonista rappresenta la meta foro dell'uomo contemporaneo, oppresso da
un'Autorità incomprensibile e schiacciato dal conformismo, e si configura non
come vagheggiamento del mondo preindustriale, rimpianto della civiltà
contadina, rifiuto del progresso, ma come ricerca di un'adesione critica e
consapevole alla società moderna. In questo senso anche il linguaggio, pur
caricandosi di immagini liriche, poetiche ed evocative, diventa il vero
strumento critico d'intervento sulla realtà. Seguono i romanzi “La macchina
mondiale” (1965) che vince il premio Strega, “Corporale” (1974), “Foglia
mortale” (1974), “Il sipario ducale”
(1975), uno dei rari testi contemporanei in cui trova posto la rappresentazione
dell'Italia lacerata dal terrorismo. In
Corporale (1974) si trova una suggestiva realizzazione del protagonista, il
professore Girolamo Aspri: farneticante e, nel contempo, lucido nell'esame e
nel rifiuto della società contemporanea, perennemente lacerato fra utopistica
prospettiva di rinnovamento e critica corrosiva, Aspri risulta una polisensa e
problematica incarnazione del disagio di vivere nella società odierna, ma è
anche l'espressione di un'indefessa volontà di rigenerazione, di totale
rinnovamento dell'uomo: la sua lucida nevrosi fa tutt'uno con la profonda e
ostinata aspirazione alla realizzazione di un "nuovo Adamo",
"vivo, vivo, vivo, diverso, diverso, diverso".
Nel 1966 Volponi fu incaricato
presso la Olivetti della direzione delle Relazioni aziendali (fra l’altro, la
direzione del personale, servizi sociali e culturali, istruzione e
addestramento professionali, rapporti con i sindacati). Egli ha lasciato questo
incarico alla fine del 1971. Dal 1972 a Torino si è dedicato a studiare per la
Fiat i rapporti fra città e fabbrica. Insomma, il suo interesse attivo per i
problemi sociali non si è attenuato: e certamente si tratta di più che un puro
e semplice interesse, perché, tutto sommato, si riversa per strade indirette
nella sua produzione narrativa, come si vedrà. È costretto, nel 1975, a
dimettersi dalla Fiat per aver dichiarato il suo voto a favore del Pci; dal
1977 lavora alla Rizzoli, pubblica “Il pianeta irritabile” (1979) e “Il
lanciatore di giavellotto” ( 198 I). Nel 1983 viene eletto senatore come
indipendente nelle liste del Pci ma nel 1991, alla fondazione del Pds, aderisce
al gruppo parlamentare di Rifondazione comunista. In questi anni vive fra Roma
e Urbino e partecipa alla direzione della rivista "Alfabeta"; nel
1986 pubblica la raccolta poetica “Con testo a fronte” e nel 1989 il romanzo
“Le mosche del capitale”. Perde tragicamente proprio in questo anno il figlio
Roberto in un disastro aereo a Cuba. L'anno successivo appare la raccolta di
versi “Nel silenzio campa” e nel 1991 con “La strada per Roma” ottiene per la
seconda volta il premio Strega.
Dopo essere stato eletto
nuovamente senatore nel 1992, è costretto, nel 1993, ad abbandonare l'attività
parlamentare per motivi di salute. Muore ad Ancona il 23 agosto 1994. Esce
postumo, nello stesso anno, “Il leone e la volpe”, dialogo scritto a quattro
mani con Franco Fortini.
I VERSI GIOVANILI E I POEMETTI
DELLA MATURITA’
Volponi ha sempre parlato, di
“modi stilistici post-ermetici” che avrebbero dettato i primi suoi versi.
L’osservazione è esatta nel senso che Volponi, si è trovato a scrivere versi
che possono essere rubricati in prospettiva come post-ermetici. La sua poesia
giovanile, già espressivamente matura, già distinguibile per ferma impostazione
di timbri e immagini, in anni di faticoso mutamento come potevano essere quelli
dell’immediato dopoguerra, pare sia riuscita ad evitare polemiche a livello
esclusivamente culturale (ermetismo no, ermetismo si.) per conquistarsi
un’aerea del tutto nuova denominata da Franco Fortini, sul “Menabò ”, neoclassicismo
novecentesco. Un verismo di tono crepuscolare di Pascoli, o quello eloquente di
D’Annunzio prendono piede nelle “Novelle della Pescara” per poi passare ad una
decorazione fauve, freschissima per macchie di colore e modernamente
espressionista nei versi ricavati da “L’antica moneta” o “Ramarro”. Ma la
prima vera esperienza culturale di Volponi, sul terreno propriamente
letterario, quasi un’uscita allo scoperto, avviene nel momento in cui l o
scrittore si trova a partecipare, in una posizione di personalissimo distacco,
all’équipe della rivista “Officina”, formata da Pier Paolo Pasolini, Francesco
Leonetti, Roberto Roversi, Franco Fortini, Gianni Scalia. La direzione di
lavoro di “Officina” era di opposizione novecentesca, era anti-ermetica. La
rivista si mosse, e sul terreno dell’indagine critica, e nella raccolta dei
testi creativi, verso una letteratura realisticamente e dialetticamente
credibile, svalutando tanto l’ermetismo alessandrino degli anni Trenta, quando
il post-ermetismo rappresentato nel dopoguerra dal neorealismo, stimato una
forma di ermetismo refoulé, “Officina” rimetteva in discussione il rapporto
arte-vita integrando alla visione dell’istituto letterario il marxismo, la
linguistica o primi germi di antropologia, puntando su una articolazione più
ricca del linguaggio poetico, ed esigendo altresì un’estensione nel campo dei
contenuti. La risultante dell’esperienza di “Officina”, in parallelo a quella
Olivettiana, portò la poesia di Paolo Volponi a confrontarsi con la società e
con la storia, senza alienarsi da un radicato, sensibilissimo soggettivismo.
Nascono i poemetti di "“e porte dell' “Appennino” dove l'esigenza
dell'ascolto di un mondo arcaicamente fisso e premorale si sposa a una
necessità meditativa, così che il poeta si sente vivere sull’orlo di una
irrimediabile, perpetua crisi. A seguito della “scuola letteraria di Officina”
(è Volponi stesso ad averla definita così) esce da questo poeta, tecnicamente
maturo, e ancora più raffinato nell’uso dei timbri e consonanze metriche, il narratore.
Ma certo non fu soltanto “Officina” a condurlo al romanzo, c’erano state le
inchieste sociali al sud, o il lavoro di assistentato sociale a Ivrea: il
contatto, insomma, al vivo, con una realtà italiana più che mai mutante.
Probabilmente il poeta sentì la necessità di rendere più duttile o obiettivo il
proprio strumento espressivo. Egli dovette sentire il fascino d’un uso
oggettivo della lingua: fascino che sta alla radice di ogni ricreazione
romanzesca.
MEMORIALE E IL PROBLEMATICO
RAPPORTO FRA INDIVIDUO E INDUSTRIA
Memoriale, nasce dall’esperienza
di lavoro di Volponi, ma va collegato, nel contempo, al dibattito su
letteratura e industria aperto da Vittorini proprio agli inizi degli anni
Sessanta e all’esigenza largamente sentita di sperimentare tematiche e modalità
narrative nuove. Memoriale è la storia, raccontata in prima persona, di un
contadino del canavese, Albino Saluggia, che assunto come operaio in una grande
fabbrica torinese vive drammaticamente lo sradicamento dalle sue abitudini e dal
suo mondo, viene travolto dall’ingranaggio oppressivo e totalizzante della
fabbrica, scopre angosciosamente un volto nemico in ogni aspetto del mondo che
lo circonda e approda così ad una irrimediabile nevrosi. Questo approdo del
protagonista, però non è che un
paradigma di quel processo di alienazione di perdita della propria
individualità al quale la civiltà industriale sottopone l’uomo, nel caso
specifico, l’operaio. Di conseguenza la vicenda del protagonista che si
configura come caso clinico “funge come lente di ingrandimento” serve ad
esemplificare vistosamente un rapporto fra singolo e contesto sociale: la sua
alienazione (nell’accezione clinico-medica del termine, cioè come nevrosi e
paranoia) è figura emblema dell’alienazione che riguarda un’intera società. E’
proprio questo che rende particolarmente convincenti, nel panorama della
produzione collegata al dibattito su “Industria e letteratura”, i risultati di
Volponi; il quale non si limita ad una descrizione naturalistica della vita di
fabbrica ma ne rappresenta l’immane forza nell’intimo dell’uomo cui non resta
altro scampo che la malattia. Sul piano espressivo solo raramente Volponi
ricorre alla mimesi di un linguaggio subalterno che sarebbe proprio specifico
del protagonista (le soluzioni che avrebbe adottato un narratore neorealista);
le soluzioni adottate in Memoriale sono altre:
o una prosa di lucida analisi, o una prosa lirica ricca di ardite
analogie(vedi esperienza poetica di Volponi) attraverso la quale si esprime la
sensibilità nevrotica del protagonista, la sua ottica visionaria, la sua
angosciosa mania di persecuzione.
Albino Saluggia, il protagonista
di memoriale è il primo esemplare, la
prima incarnazione di una tipologia umana che sarà ricorrente nella narrativa
di Volponi: quella dell’uomo che sente con lacerante intensità la dissonanza
col mondo in cui vive, lo sente estraneo , nemico e conseguentemente diventa
estraneo alle cose, alla realtà, a se stesso: si “aliena”. Essa è una tipologia
che ritorna, con arricchimenti e varietà di prospettive, nei due romanzi che
seguono Memoriale.
Albino Saluggia, è un malato che
si muove nel mondo dell’industria. Il problema del libro è la sua malattia in rapporto a questo mondo. Guido Piovone ne
ha tracciato questo profilo: “Davanti a una civiltà industriale rivolta contro
gli uomini, perché piegata ai fini di una società cattiva, i più infelici sono
proprio gli indenni, i vittoriosi che consentono a perdervi l’anima, ed i più
fortunati proprio gli sfortunati, i malati, gli espulsi. La malattia appare nel
libro un estremo rifugio della persona e l’unica realtà veramente umana”.
Saluggia dunque, ossessionato dalla propria tubercolosi, di cui comprende
oscuramente l’origine psicosomatica, esprime attraverso la sua angoscia un
giudizio morale, il cui fine sfugge a lui stesso. Ma non sfugge al lettore:
cioè non è sfuggito allo stesso scrittore.
In Memoriale (essendo scritto in
prima persona) vediamo che è lo stesso
Saluggia che parla dei suoi mali. Attraverso una lirica, positiva e negativa,
Volponi ha spiato se stesso in Saluggia: ha arricchito, cioè l’invenzione
dell’operaio monomaniaco di tutto ciò che la sua poesia, in precedenza, aveva
sperimentato. In un certo senso si può dire che Volponi proceda in modo inverso
ai romanzieri classici: deliberatamente e in maniera diretta inventa il proprio
personaggio all’interno dell’orizzonte linguistico che è più suo, quello dei
propri versi; non fa di Saluggia la propria Emma Bovary, e neppure lo distanzia
in un gergo qualsiasi. Potremmo ricordare alcuni versi di Volponi: “la paura
ridiscende nel mio cuore/e ricompone il gioco diletto del male/la libertà della
contraddizione/che porta al dolore le parole”. E sentiremmo Saluggia fare eco:
“ Io ho questa sorte del silenzio”. Comprendiamo allora che il destino
dell’operaio, fortunato perché distrutto dalla malattia sociale e perciò
simbolo del rifugio estremo dell’umano in un mondo che gli si nega, per la sua
vocazione al silenzio, si protrae nei versi di Volponi nel dolore,
nell’angoscia, nel silenzio conoscitivo. Non a caso Alberto Moravia, a
proposito della scrittura di Memoriale, ha parlato di “imprevedibilità”,
insistendo sul fatto che in essa non si riscontrano “quegli elementi
intellettualistici e schematici e prefabbricati così frequenti nella prosa degli
scrittori d’oggi”. (testo contenuto in un opuscolo pubblicitario edito da
Garzanti nel 1963). Volponi ci dice che Saluggia è reduce dai campi di lavoro
nazisti: contro la vitrea eleganza della fabbrica esibisce le proprie ferite.
La vicenda ha uno sviluppo temporale affatto interiorizzato. Il tempo è
struttura della coscienza umana, e Saluggia non può averla conquistata se la
sua esistenza rispecchia un conflitto che si radica proprio nella lontananza
precostituita dell’umano.
Primo momento: la visita al
medico Tortora e la denunzia dell’incipiente pericolo di tbc. Seguono i
contatti con gli altri operai in fabbrica: unicamente umani negli spogliatoi
(“lì ritrovavo il segreto di quel
contatto con gli altri eccitante e commovente, che in passato avevo avuto nei
dormitori del collegio o nelle caserme, anche se sempre in silenzio e senza che
mai riuscisse a farmi stabilire dei rapporti continui….”).
Infine la scoperta di un amico
che intende il valore del silenzio: è Grosset, il
capo-reparto (“Passandomi una
mano sulla spalla, mi disse: Vai calmo, Saluggia. Lui capiva la condizione in
cui mi trovavo. Non prendere il lavoro come un nemico, soggiunse o non durerai
a lungo”). Grosset sa che un modo per salvarsi è di conservare nel lavoro, una
segreta disponibilità ad altro: è un modo di essere amici. Saluggia invece nel
cuore del suo cuore, non riesce ad avere rapporti d’amicizia con se stesso. Non
progetta la propria esistenza: si sente in esilio. Non ha riserve dove
scaricare il proprio furore. Di spirito è altrove: al lago di Candia che si
stende davanti a casa sua e al suo orto. Il lago torna di frequente nei suoi
pensieri, si direbbe immotivatamente. Ed è il contrario. Scrive Marx in uno dei
suoi Manoscritti del 1844:”l’operaio non può nulla senza la natura, senza il
mondo esterno sensibile. La natura è il materiale su cui il suo lavoro si
realizza, in cui esso è attivo, in cui e mediante esso produce”. Albino
presenta questa necessità come nostalgia. Il bisogno ingenuo di sentirsi al
mondo, fra le cose, nella condizione però di
non essere che cosa o merce. Ma è in questa nostalgia che il suo
discorso si fa umano, e recupera il tempo come dimensione della coscienza.
La tbc esplode per suo conto;
toccato dalla malattia, comincia a credere che i medici l’osservino per
toglierli ogni speranza di vita. Lui è sano, ma non ci sono radioscopie che
tengano: la realtà è diversa. La sua solitudine, la desolazione in cui sente
scorrere la propria vita, il ripetersi di
alcune sensazioni tutto ha avuto
il suo effetto naturale. Albino, che è cattolico, è spinto a infliggersi una
punizione, tale che coinvolgesse al suo caso anche gli altri. Ogni attenzione
che gli si possa prestare, è riprova di una persecuzione. Nell’inferno in cui
si è cacciato, Saluggia non può perdonare a nessuno l’amore, vero o falso, che
gli porta. Non sono i focolai dei suoi polmoni che vanno curati, ma il
dissociarsi della sua mente solo debolmente riflesso nel suo male fisico. Il
sanatorio coltiverà il suo silenzio. Lungo il malanno gli corre il pizzicorino
della nostalgia per il lago, e per una cugina che doveva venire ospite in casa
sua. Lo spettacolo che offrono gli altri ammalati, poco lo interessano. Al
massimo ne spierà le mosse, per avere conferma di un vizio che è quello della
fabbrica: l’usarsi, l’avvilirsi dell’uomo a strumento. La bellezza struggente
del libro sta nell’essere costruito di tanti tableaux che vanno a legarsi, compenetrandosi fra
loro, ad un unico significato, e lo ripropongono ogni volta rinnovato, non
mutato; lo sottolineano; lo rendono ossessivo. C’è nella follia di questo
operaio il rabbioso puntiglio per la verità che anima gli eroi di Dostoevskij.
Così come il suo amore per la propria pelle, per il proprio letto, la viscerale
concitazione dei suoi pensieri. E’ la verità, la propria, egli sa scoprirla, e
atrocemente fissarla. Il sanatorio non lo ha curato del tutto. L’assedio dei
medici prosegue in fabbrica: per sventarlo, chiede la “qualifica”. Non
l’otterrà: “La fabbrica non perdona; non perdona chi è solo, chi non si arrende
al suo potere, chi crede alla giustizia umana e invoca la sua clemenza; la
fabbrica non perdona gli ultimi”. Cominciano ad accorgersi che è folle. Entrano
in campo gli assistenti sociali, sua madre, che gli assistenti hanno
segretamente avvicinata per conoscere il segreto della vita di lui. Albino ama
tutto questo: là sta la molla della sua
logica. La verità, dunque, è che la fabbrica “invece di essere un mezzo per
stare bene su questa terra, potrà essere il fine di starci male o il mezzo di
uscirne”. Importante è soffermarci sul senso di questo “Fine”, in quanto esso
discende dall’intimo della condizione dello stesso Albino . “Fine” significa un
punto “di approdo” attraverso il quale il protagonista annulla la propria
esistenza, il vivere serenamente, per inoltrarsi in una buia e totale assenza
dell’ Io. Le stagioni passano. Albino comincia a credere che una coppia di
maghi potrà guarirlo. Si tratta di due fanfaroni che gli spillano solo il
denaro. Un uomo e una donna: la donna provoca sessualmente, per quanto può
Albino. L’episodio ,rende a questo punto
fragile il succedersi dei fatti. Ma resta in piedi il senso ideale del
personaggio, per cui se egli ha un progresso, lo ha per una graduale perdita di
presenza, nel dissiparsi, nell’accrescersi dei suoi turbamenti, e delle sue
visioni. Albino spia, oltre che la fabbrica, due che fanno l’amore dietro i
cespugli. Un caporeparto gli chiede di mettersi a fare il confidente della
proprietà: Albino rifiuta. I modi reali di comunicazione, l’amore e il linguaggio,
in lui subiscono progressivamente una sclerosi letale. Derubato della sua
stessa vita umana, che si ridimensiona nel lavoro, non possiede più mezzi per
percepire la realtà: crede che conoscerla sia avere con essa contatti furtivi,
di spia. La parola , dunque, comincia a morirgli in bocca. Eccolo nell’ufficio
del personale : sta denunciando il medico; è colui che lo vuole malato per
eliminarlo dal gioco, dal lavoro (cioè dalla vita), avvilirlo ecc.. Gli
rispondono di stare tranquillo, che esamineranno il suo caso, e così via. Si
tratta di una follia a doppio taglio: per un verso è istinto al rifiuto, è
crisi, è verità; per l’altro è incapacità di distacco, è vizio. Ma la fabbrica
(Saluggia lo sente) è “come una chiesa”, “un tribunale”. Saluggia si sente “murato
vivo”, non libero , ma il problema che
gli sorge da ultimo è: da chi dipendere, a chi sentirsi ombelicamente
attaccato? La sua dignità di uomo sta nel possedere un mito da cui nutrirsi. La
fabbrica la risposta più ovvia. Insomma la tbc di Albino è appena un’ alibi, ma
nell’attimo in ciu viene riconosciuta, esige che l’attenzione che gli si è
prestata, sia distolta in altro, alla sua crisi d’affetti, al suo essere orfano
di mondo, e viziosamente tale, con la prospettiva che nulla riuscirà a farlo rivivere.
Unico ristoro sarà il lago, e le stagioni che su di esso scorrono tingendolo di
luci diverse. Poi di nuovo la clinica. Il suo silenzio raggiunge il culmine.
Comincia a scrivere una serie di versi lunga e noiosa, con l’enfasi infantile e
programmatica di chi crede che l’accentuazione ritmica dei pensieri scongiuri
ciò che si maledice. Uno sforzo che non vi troverà sollievo e soddisfazione:
uno spasimo della stessa tubercolosi, i bronchi si accendono e il respiro
affanna, nella speranza che l’organismo ritrovi il ritmo regolare delle
inspirazioni. Tutto inutile. Albino ne esce in parte risanato, ma viene
allontanato dalle fresatrici. Ormai è un uomo senza più contenuti. Sembra solo,
abbandonato, lasciato solo al suo destino. Fa da galoppino, per sua scelta
deliberata, tra un gruppo di scioperanti che dimostrano fuori dalla fabbrica, e
gli addetti alla mensa nell’interno dell’edificio. Successivamente gli verrà
consegnata, dall’Ufficio del Personale, una diffida di licenziamento. Non gli
resta che lanciare disperate occhiate alla campagna, agli ultimi sprazzi di
nebbia sulle siepi, alle code bianche e nere degli amici uccelli sui paletti di
confine. Ancora uno sguardo al lago: “A quel punto ho capito che nessuno può
arrivare a me con il suo aiuto”. La presenza di Saluggia è del tutto essiccata.
Volponi conclude così il suo Memoriale , imprigionando quasi il suo personaggio
in una vecchia parabola: “LA SOLITUDINE PUO’ DARE FORSE UNA MISTICA PACE”. Con
un efferato amore che ha uno scrittore per la realtà, Volponi ha scelto di
abbandonare il suo personaggio in un assoluto silenzio strappandogli ogni
possibile parola. Questa scelta da parte dello scrittore è stata più che
determinante per raggiungere una conclusione al di fuori dei classici schemi
della narrativa italiana, lasciando un
enigmatico finale con mille prospettive per il futuro di Saluggia concesse
deliberatamente alla interpretazione psicologica del lettore. Difatti per
quanto riguarda la tecnica narrativa che Volponi ha usato in Memoriale, a mio parere,
l’elemento più saliente e intrigante, capace di coinvolgere l’attenzione del
lettore esterno è stato proprio la presentazione del protagonista non solo
sotto delle vesti oggettive bensì sotto una veste introspettiva molto curiosa.
Con lo scopo di rappresentare l’insufficienza e le contraddizioni del
neocapitalismo, denunciare il grado il grado reale di disumanizzazione della
moderna società, Volponi introduce un’ottica nuova, adoperando misure
conoscitive di segno patologico: la paranoia, la mania di persecuzione,
l’ingenuo, schizofrenico utopismo. Albino Saluggia, operaio-contadino del
Canavese, reduce dalla prigionia in un lager nazista e ancora sofferente, tenta
di salvarsi dai suoi mali di “debole”, di “disadattato” , cerca di ricostruire
affetti e pensieri affidandosi alla concreta, “perfetta” realtà della fabbrica.
Ma le strutture “efficienti” e razionali dell’azienda, man mano che ne viene a
contatto, gli appaiono ostili, costruite a suo danno. Nei compagni di lavoro,
nei capi reparto, nei dirigenti come nei sindacalisti, nei medici (che gli
scoprono la tubercolosi e vorrebbero guarirlo) e nelle infermiere, vede, con lo
sguardo stravolto e deformante del diverso, del paranoico, altrettanti nemici
congiurati a perseguitarlo, in nome di
un “bene” che non è il suo ma della fabbrica. Analizzato in particolar modo dal
punto di vista psicologico, Saluggia è in grado di rappresentare ciò che Karl
Marx intendeva come un vera e propria alienazione dell’uomo, in particolare
dell’operaio. “Il lavoratore, oltre ad essere espropriato del lavoro prodotto,
viene ad essere ridotto a merce, cioè a “cosa” poiché l’operaio nel sistema
capitalistico conta solo come macchina per la produzione del plusvalore”.
Passo tratto dal pensiero di Karl
Marx
Un totale annullamento dell’ Io,
della propria personalità, della propria capacità di assumersi responsabilità e
di cogliere i veri valori della vita.
La fabbrica ha coinvolto
inizialmente la parte esteriore del personaggio, la forza lavoro, le capacità fisiche e intellettuali
per poi avanzare lentamente in un buio e totale coinvolgimento psichico,
portandolo alla totale dipendenza, e racchiudendolo in un tunnel senza ritorno
che si è poi rivelata come pazzia. In questo modo anche la parte interiore di
Saluggia ne è rimasta inevitabilmente coinvolta, trasportata in una globale e
illimitata erosione dei propri sensi, dei propri diritti. La perdita della
parola, della capacità di comunicare, di relazionarsi con altri è stato il
culmine della pazzia e dell’alienazione del protagonista. Memoriale ha
rappresentato, rappresenta e
rappresenterà una affascinate guida della cruda realtà della vita di fabbrica,
e l’importanza di cogliere il vero significato di ciò che rappresenta tutt’oggi
per noi i lavoro.
ALTRE OPERE DI PAOLO VOLPONI
Ne La macchina mondiale strutturato anch’esso come una confessione,
il contadino Anteo Crociani, profeta visionario inventore, ha elaborato un suo
sistema pseudoscientifico che concepisce l’universo come una grande macchina:
gli uomini, macchine anche loro, perfezionandosi possono arrivare alla
realizzazione di tutte le loro valenze, ad un sereno rapporto con la natura, a
riorganizzare il mondo che attualmente è “vera sede di pazzia”. Al disagio di
vivere in questa “sede” il narratore contrappone delle credenze popolari, e
arcaici miti contadini. Il romanzo in sintesi è rappresentazione del disagio del protagonista a vivere in
questa “sede di pazzia” e, nel contempo, della sua utopia di cambiamento, della
sua fiducia che le macchine prodotte dall’uomo migliorino l’uomo stesso.
Un utopista è anche il
protagonista di Corporale (1974) , il
professore Gerolamo Aspri, intellettuale che ha lasciato il PCI, impiegato
nell’industria, emarginato per il suo rivoluzionarismo utopistico. Inquieto,
complicato, ossessionato dalla paura atomica ma anche dal dibattito politico
(il PCI, i movimenti extraparlamentari), il professore Aspri si butta anima e
corpo alla progettazione di un rifugio atomico sull’Appennino. Ma il romanzo si
conclude ambiguamente con la sua scomparsa. Va a questo punto sottolineato che
siamo di fronte ad un’opera narrativa tutta particolare, un’opera “aperta”,
senza azione, proliferante di situazioni, incontri, e innumerevoli riferimenti
ad avvenimenti contemporanei ( Togliatti, il Vietnam, la TV ecc..); il tutto
con i più diversi registri linguistici, passando da un puntiglioso realismo ad
una presa in giro della società stessa: l’obbiettivo è quello di trascrivere
sul piano formale il caos della quotidianità. Ma a questa quotidianità priva di
senso e caotica Aspri oppone come sfida la sua corporalità, la sua istintuale
vocazione a vivere “come un cannibale” questa realtà, a possederla mediante il
continuo tentativo di provare ogni possibilità di esperienza fisica, corporea,
con sensualità sfrenata e onnivora. La fisicità, la corporalità
rappresenterebbe così una vera e propria opposizione alla società portandoci
così ad una diversa forma di utopia: dominare il mondo e le cose col possesso,
e se non è possibile con il cambiamento.
Lucido nell’esame e nel rifiuto
della società contemporanea, perennemente lacerato fra utopia e prospettiva di
rinnovamento di una società priva di valori. Aspri risulta una problematica
incarnazione del disagio di vivere nella società odierna, ma anche
l’espressione di una indifesa volontà di rigenerazione e di rinnovamento dell’uomo; L’utopica aspirazione di realizzare un nuovo
“Adamo” vivo e diverso!!!
A La macchina mondiale e a
Corporale seguono altri romanzi come Il sipario ducale, del 1975, uno dei pochi
romanzi contemporanei in cui troviamo eco le vicende del terrorismo, Il
lanciatore di giavellotto, del 1981 e Le mosche del capitale (1989), che
conclude con la lucida coscienza della sconfitta dei progetti riformistici
affidati nei romanzi precedenti al delirio utopico, alla follia. Qui la
vocazione riformistica, il progetto di un’industria, di una fabbrica per l’uomo
a misura di uomo è affidato a un dirigente che non coltiva le utopie di
macchine mondiali né conta sulle gratificazioni che si può trarre dalla
corporalità. Qui la progettualità riformatrice è identificata in un dirigente
illuminato, democratico, colto.
Le mosche del capitale , in modo
mediato, contiene riferimenti alle esperienze biografiche dell’autore e a
situazioni del mondo industriale contemporaneo. Questo romanzo narra la
carriera, in ultima analisi fallimentare, del professor Bruno Saraccini,
giovane e brillante dirigente aperto alle riforme, che concepisce l’industria
come luogo e strumento di crescita democratica. Il presidente del complesso
industriale dove egli lavora, l’astuto e cinico Nasapeti, lo nomina
amministratore delegato, ma gli affianca, per controllarlo e frenarne le
iniziative, una specie di “colonnello” pronto ad eseguire gli ordini. Va a
finire che Saraccini lascia l’azienda. Passato a Bovino (il toro di Torino è
diventato bove…)a un’altra grande industria, uno dei cui proprietari sembra
avere idee “aperte” , Saraccini si scontra con
il gruppo dirigenziale interno, che alle sue concezioni di un’industria
come avanguardia di un’opera di incivilimento complessivo del paese, pone
invece scelte mediocri, banalità ..Anche stavolta Saraccini si dimette.
Ai temi scelti sin dal suo primo
romanzo pubblicato, la fabbrica, il complesso rapporto fra industria e società,
Volponi è rimasto fedele in quasi tutta la sua produzione con una coerenza e un
impegno di approfondimento non usuali. E' significativo che la progettualità
democratica, avanzata , “umana” del professore Saraccini –nel quale parecchi
pensano sia adombrato Adriano Olivetti - venga sconfitta. Attraverso questa
analisi quasi identificata dallo stesso Volponi come una vera e propria
“sentenza” si può cogliere il messaggio che l’autore ha voluto trasmetterci
attraverso i suoi capolavori. Nella visione del mondo del lavoro, identificato
in particolar modo nella figura emblematica della fabbrica, non vi si può
trovare soluzione, salvezza per l’operaio, in quanto egli è costretto a
sottostare alle dure regole del mercato capitalistico che non prevede in alcun modo un possibile
riscatto della figura del lavoratore ma bensì ne auspica solo la visione di
macchina lavoratrice.
ROMAMO BILENCHI E IL CAPOFABBRICA
Romano Bilenchi è nato a
Colle-di-Val-d'Elsa (Siena) nel 1909. Collaborò al "Selvaggio" di
Mino Maccari. Fu direttore nel 1948-1956 del quotidiano "Il Nuovo
Corriere".
Si è imposto come narratore rigoroso e di
stile limpido. Oltrepassando i moduli della prosa d'arte, le sue esemplari
storie di paese e di periferia sono in equilibrio tra ricordo, fantasia e
attenta osservazione delle cose: Il capofabbrica (1935), Anna e Bruno, e altri
racconti (1938), Conservatorio di Santa Teresa (1940), La siccità (1941), Dino
e altri racconti (1942), Mio cugino Andrea (1943), Racconti (1958), Il bottone
di Stalingrado (1972), Il gelo (1982).
Romano Bilenchi - Amici -
Rizzoli, Milano 2002
Bilenchi ha sempre ricordato la
sua esperienza di autodidatta di talento che si forma una coscienza di classe
attraverso la frequentazione della classe operaia della sua Colle Val D'Elsa.
Lo scrittore non ha mai nascosto l'iscrizione al partito fascista, guardato
sempre e comunque da un punto di vista eccentrico, secondo le modalità di quel
fascismo di sinistra che ebbe quali organi di diffusione riviste genialmente
strapaesane quali "Il Selvaggio" di Mino Maccari (che fu praticamente
il pigmalione di Bilenchi) o "istituzionali", come
"Primato", diretta da Giuseppe Bottai e il "Bargello",
organo ufficiale del Partito fascista fiorentino (su cui scriveva anche
Vittorini).
Bilenchi fascista di sinistra, si
guadagnò, nel 1934, l'ingresso come redattore alla Nazione di Firenze grazie
all'interessamento di Galeazzo Ciano. Lì, in un ambiente relativamente
favorevole maturò una posizione sempre più critica nei confronti del fascismo,
posizione che lo portò ad un'uscita semiufficiale dal partito all'epoca della
Guerra di Spagna (venne espulso ufficialmente nel 1940).
Da lì in poi Bilenchi diventò un
comunista a tutti gli effetti, prima attivo nella lotta clandestina contro
l'occupazione tedesca, esperienza resa nel libro attraverso prose molto belle
come "I due ucraini", "La pistola di Salò", "Un
comunista", poi un uomo di partito aperto alle influenze più disparate.
Ampiamente critico nei confronti dello stalinismo (ed è difficile ora capire fino
in fondo quanto fosse il credito che il massacratore osseto riscuoteva in
quegli anni di dopoguerra nelle sezioni del partito), "apriva" ai
cattolici dell'allora sindaco DC Giorgio La Pira, da lui convinto ad
organizzare in Firenze un confronto tra i sindaci delle città del Patto di
Varsavia e quelle americane. Ed erano anni di guerra fredda, anzi freddissima.
Infine l'esperienza del
"Nuovo Corriere", quotidiano comunista fiorentino di cui Bilenchi fu
direttore e che in otto anni di vita rappresentò una voce di non-allineamento
intelligente alle principali correnti del comunismo italiano. L'esperienza si
concluse con i fatti d'Ungheria, nel 1956, dopo un duro editoriale nel quale
Bilenchi stigmatizzava la repressione sovietica, e al quale seguivano le dimissioni
dal PCI.
Ne Il capofabbrica del 1935, e
bisogna ricordare che rientra nella categoria delle prove d’esordio, compaiono
le future tematiche caratteristiche dello scrittore: la provincia, le storie
semplici di paese e di periferia; ma serve ricordare che questa provincia non è
né quella sanguigna dei naturalisti o espressionista alla Tozzi né quella
decadente dei crepuscolari, bensì una provincia ridotta come scenario
all’essenziale che propone protagonisti che sembrano emanati dalla poetica della
semplicità del Flaubert di Un coeur simple. Dunque Bilenchi supera rapidamente
il bozzettismo di maniera e comincia a porre adolescenti e giovani al centro
del punto di vista. E sullo sfondo il lavoro, il rapporto con le leggi
dell’economia, le sofferenze dei proletari.
DIBATTITO TRA LETTERATURA E
INDUSTRIA
Inizialmente l’attenzione della
letteratura del primo Novecento, non fu attirata da un nuovo sfondo tecnologico
che stava sempre più prendendo piede nei primi anni del XX secolo; se infatti,
nelle pagine di alcune riviste si esaltava la potenza della macchina,
contemporaneamente, nella produzione letteraria comparivano ancora i
tradizionali temi della contemplazione della natura, comune a produzioni con
sfondo provinciale, talvolta con una vena folkloristica o dialettale. Essa però
non era in grado di aprire né un nuovo sfondo letterario, né un valido
dibattito in difesa dei valori della natura contro quelli della tecnologia.
Nonostante il paesaggio stesse cambiando, coinvolgendone l’intero ambito
sociale, permane per tutta la prima metà del secolo, la tendenza a porre come
sfondo alle vicende di novelle e romanzi il tradizionale paesaggio naturale,
ricorrendo ai soliti espedienti stilistici e retorici.
Orientata sulle basi tecnologiche
che caratterizzano il secondo Novecento, in reazione al passato, la narrativa
degli anni Sessanta/Settanta presenta
nuove, aggiornate motivazioni: inchieste e polemiche sul romanzo, compreso
ildibattito letteratura-industria ; fine dell’esperienza neorealista,
fallimento della poetica dell’ ”impegno” , mentre esplode il boom editoriale
dei romanzi di successo; contro gli ultimi strascichi del naturalismo, la
Neoavanguardiapredica il “disimpegno” liberando per il romanzo ipotesi di di
rinnovamento sia sul piano stilistico, sia sul piano dei contenuti.
Con estesa vivacità, superiore
alle discussioni che si ebbero nel 1929-1930 sulla crisi del romanzo , il
periodo 1956-1960 registra una seconda serie di interventi, interrogativi,
inchieste sulle sorti del romanzo. Ricordiamo l’inchiesta riguardante il valore
e il destino del romanzo promossa dalle riviste “Ulisse” (autunno-inverno
1956-’57) e “Nuovi Argomenti” (maggio-agosto 1959); la polemica sul realismo
avviata da “Europa letteraria” (marzo 1960); l’inchiesta dl “Corriere della
Sera” (cfr. l’articolo Romanzo e racconto di E. Montale, 25 giugno 1960) ; il
numero speciale de “Il Verri” (febbraio 1960) dedicato a Il Romanzo e le nuove
tecniche narrative. Ci si domanda se sita o meno una crisi del romanzo come
specifico genere letterario quando tutte le arti stanno visibilmente declinando;
se il romanzo moderno possa ancora riconoscersi negli esemplari della grande
stagione ottocentesca; se convenga al romanzo saggistico e a quello visivo
occupare il posto dl tradizionale romanzo di costume; se sia lecito al nouveau
roman rompere le normali strutture, dissolvere il personaggio e rifiutare la
psicologia; se la struttura linguistica del romanzo debba affidarsi alla prosa
letteraria o ricorrere piuttosto al linguaggio parlato, dialettale. Tra le
risposte nel fascicolo di “Ulisse”, intitolato appunto
Le sorti del romanzo , Calvino
auspica un tempo di “bei libri pieni di intelligenza nuova”; ma non pensa
saranno romanzi.. Sulla rivista “Nuovi Argomenti” di Moravia-Carocci spicca
l’intervento di Bassani, oltre che narratore in proprio, responsabile
editoriale della collana Feltrinelli in cui era apparso Il Gattopardo; di
fronte al dilemma saggio/romanzo, Bassani conferma lo specifico letterario come
qualificativo del genere romanzo:” dubito che possa nascere nulla di veramente
utile, oggi, nel campo della narrativa, al di fuori della letteratura”. Nel
quadro culturale del momento, si sviluppa un dibattito sul tema “letteratura e
Industria”: ci si rende conto della nuova condizione dell’uomo, connessa allo
sviluppo economico e tecnologico e caratterizzato dall’alienazione, ovvero
dalla riduzione dell’uomo a cosa e dall’impossibilità di qualunque rapporto
autentico con il reale. I letterati avvertono che non è più possibile
rappresentare la realtà, secondo i canoni tradizionali, ma che bisogna sostituire
alla descrizione di aspetti o eventi della natura, i temi della realtà
industriale: la fabbrica, le strutture aziendali, l’alienazione e i problemi di
chi lavora nell’industria. Tale dibattito affronta questioni tematiche urgenti:
il neocapitalismo che, con una produzione sempre più organizzata e accelerata,
artificializza la realtà, condizionando le scelte e i tempi del vivere ( si va
in vacanza quando le fabbriche chiudono); la natura e l’ambiente, la campagna e
le spiagge invase dagli “oggetti”, divorate da “cose fabbricate”, da
costruzioni in cemento. Vittorini mise a fuoco tale disputa sul “Menabò
4”,1961. Egli affermava che bisogna prendere atto della “trasformazione
grandiosa e terribile che avviene intorno a noi”, per cui la letteratura deve
abbandonare la dimensione melodica di rappresentazione di una natura ormai
stravolta dall’opera dell’uomo e con la quale è stato infranto ogni genere di
rapporto. L’ambiente, in realtà, in poco più di mezzo secolo si era modificato
più di quanto si fosse generalmente consapevoli , a causa di un graduale
processo di cambiamenti avvenutosi negli ultimi anni. La gente, troppo
assuefatta dallo stupore per le nuove scoperte e ai vantaggi offerti dal
progresso, non aveva fatto molto caso alle modificazioni ambientali. Due grandi
e devastanti guerre, svoltesi nel primo arco del secolo, con il loro strascico
di dolore, avevano fatto sì che non fosse possibile l’instaurarsi di una
questione ecologica ed ambientale. Gli scrittori degli anni ’60, forse per la
prima volta, posero l’attenzione dell’opinione pubblica sulla gravità di tale
problema. Il paesaggio industriale non aveva ancora inglobato del tutto quello
naturale, ma aveva già creato quel paesaggio “sociale” caratteristico della
nostra epoca e di cui purtroppo ne subisce l’influenza anche il comportamento e
la psicologia degli uomini: il traffico intenso e caotico con il conseguente
inquinamento atmosferico e acustico, i ritmi di vita incalzanti, la
concentrazionalità dei luoghi di lavoro e degli spazi abitativi, con il
diffondersi di situazioni di stress ed emarginazione.
E’ doveroso però citare scrittori
antecedenti agli anni ’60, in quanto attraverso le proprie opere hanno cercato
di riportare fino a noi la dura vita di fabbrica, l’aspro lavorare, o semplicemente
la vita di un operaio.
Per quanto riguarda gli Anni
Trenta, possiamo citare Carlo Bernari, con il suo romanzo “Tre operai” o il poeta Cesare Pavese con la poesia
“Lavorare Stanca”.
Anni Sessanta, ricordiamo
Vittorio Sereni con “ Una visita in fabbrica”, da “Gli strumenti umani”. Infine
voglio porre l’attenzione su uno scrittore che convoglierà la maggior parte
delle sue opere nei famigerati anni di “piombo” ossia Anni Settanta. Stiamo
parlando di Paolo Volponi il quale dichiara di aver scritto il romanzo
Memoriale, mosso da “profonda cosciente simpatia” per tutti coloro che vivono
nelle fabbriche; una simpatia che si rivolge soprattutto “verso quelli più
deboli, i disadattati, i ribelli, gli isolati che aggiungono alle condizioni
oggettive di fatica e alienazione, altre condizioni individuali, ancora più
dolorose”.
… CONTINUA
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