sabato 25 aprile 2015

Lavoro e cultura nel ‘900 italiano 2 - (Paolo Volponi-Romano Bilenchi) - A cura di Claudio Di Scalzo




Lavoro e cultura nel ‘900 italiano 2 
(Paolo Volponi-Romano Bilenchi)
a cura di Claudio Di Scalzo

PAOLO VOLPONI

Paolo Volponi narra la condizione operaia e contadina del lavoro, la malattia della fabbrica e l’alienazione dalla natura: e la fine dell’uomo nell’utopia anti-borghese. La scheda biografica di Paolo Volponi dice che egli è nato a Urbino il 6 febbraio 1924, e che lì è rimasto fino all’età di ventisei anni. Si laurea in giurisprudenza nel 1947, e sempre a Urbino, nel 1948 pubblica il suo primo libro di versi, “Il ramarro”. Nel 1950 avviene l’incontro con Adriano Olivetti: incontro decisivo per Volponi, nel senso che il comunitarismo olivettiano, assorbito per pratica più che per vie soltanto intellettuali, decantò e sistemò il suo populismo di fondo, lo convogliò ad una visione organica e positiva della società che egli espone ogni volta che il caso gliene offre il destro. Assunto da Adriano Olivetti, Volponi veniva distaccato presso la UNRRA-CASAS (Comitato Amministrativo di soccorso ai senza tetto), per la quale condusse una serie di inchieste lungo il dorsale appenninico meridionale, dall’Abruzzo alla Calabria, fino ij Sicilia. Nel 1953 si trasferisce a Roma, dove continua il suo lavoro di assistenza sociale; il 1955 è la data di pubblicazione del suo secondo libro di versi, “L’antica  moneta”, nel 1956 si trasferisce a Ivrea con l’incarico di direttore dei servizi sociali della Olivetti. La terza raccolta di poesie, “Le porte dell’ Appennino”, viene stampata nel 1960 che gli permette di vincere il premio Viareggio , e si dedica, nel 1961, alla stesura del romanzo “Repubblica borghese”, che darà alle stampe solo nel 1991 con il titolo “La strada per Roma”. Nel 1962 con il romanzo Memoriale, tradotto in undici lingue, ottiene il premio dei Librai milanesi e neI 1963 il premio Marzotto
Oltre a rappresentare però, il libro più più noto di Volponi,  Memoriale, è sicuramente un libro che affronta in pieno le problematiche connesse al rapporto fra l'individuo e la fabbrica, e in questo senso fa continuo riferimento alla situazione storica, economica e politica degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, all'inurbamento contadino e ai traumi ad esso collegati, all'adattamento ai ritmi della società industriale, allo stato di alienazione che viene a determinarsi nell'operaio della grande industria. Questa interpretazione di Memoriale, però, costituisce solo un primo livello di lettura dell'opera, svolto in chiave sociologica. Infatti, come Volponi stesso spiega nella nota che precede il romanzo, la "città industriale" non ha identità e non si deve attribuire soltanto a questa le cose narrate. Il romanzo, che ha una struttura diaristica, pur svolgendosi nell'ambientazione della fabbrica, si configura anche come storia di una nevrosi, di una "malattia", cioè, non solo fisica ma soprattutto psicologica, che consente al protagonista di rimanere estraneo, non integrato rispetto al mondo produttivo, ma di essere, proprio per questo, in grado di rivelarne i limiti e la disumanità.
Da quanto detto risulta chiaro che Volponi propone di fatto una realtà simbolica, attribuendo alle vicende dell'operaio Albino un valore paradigmatico, universale: il memoriale del protagonista rappresenta la meta foro dell'uomo contemporaneo, oppresso da un'Autorità incomprensibile e schiacciato dal conformismo, e si configura non come vagheggiamento del mondo preindustriale, rimpianto della civiltà contadina, rifiuto del progresso, ma come ricerca di un'adesione critica e consapevole alla società moderna. In questo senso anche il linguaggio, pur caricandosi di immagini liriche, poetiche ed evocative, diventa il vero strumento critico d'intervento sulla realtà. Seguono i romanzi “La macchina mondiale” (1965) che vince il premio Strega, “Corporale” (1974), “Foglia mortale” (1974),  “Il sipario ducale” (1975), uno dei rari testi contemporanei in cui trova posto la rappresentazione dell'Italia lacerata dal terrorismo.  In Corporale (1974) si trova una suggestiva realizzazione del protagonista, il professore Girolamo Aspri: farneticante e, nel contempo, lucido nell'esame e nel rifiuto della società contemporanea, perennemente lacerato fra utopistica prospettiva di rinnovamento e critica corrosiva, Aspri risulta una polisensa e problematica incarnazione del disagio di vivere nella società odierna, ma è anche l'espressione di un'indefessa volontà di rigenerazione, di totale rinnovamento dell'uomo: la sua lucida nevrosi fa tutt'uno con la profonda e ostinata aspirazione alla realizzazione di un "nuovo Adamo", "vivo, vivo, vivo, diverso, diverso, diverso".
Nel 1966 Volponi fu incaricato presso la Olivetti della direzione delle Relazioni aziendali (fra l’altro, la direzione del personale, servizi sociali e culturali, istruzione e addestramento professionali, rapporti con i sindacati). Egli ha lasciato questo incarico alla fine del 1971. Dal 1972 a Torino si è dedicato a studiare per la Fiat i rapporti fra città e fabbrica. Insomma, il suo interesse attivo per i problemi sociali non si è attenuato: e certamente si tratta di più che un puro e semplice interesse, perché, tutto sommato, si riversa per strade indirette nella sua produzione narrativa, come si vedrà. È costretto, nel 1975, a dimettersi dalla Fiat per aver dichiarato il suo voto a favore del Pci; dal 1977 lavora alla Rizzoli, pubblica “Il pianeta irritabile” (1979) e “Il lanciatore di giavellotto” ( 198 I). Nel 1983 viene eletto senatore come indipendente nelle liste del Pci ma nel 1991, alla fondazione del Pds, aderisce al gruppo parlamentare di Rifondazione comunista. In questi anni vive fra Roma e Urbino e partecipa alla direzione della rivista "Alfabeta"; nel 1986 pubblica la raccolta poetica “Con testo a fronte” e nel 1989 il romanzo “Le mosche del capitale”. Perde tragicamente proprio in questo anno il figlio Roberto in un disastro aereo a Cuba. L'anno successivo appare la raccolta di versi “Nel silenzio campa” e nel 1991 con “La strada per Roma” ottiene per la seconda volta il premio Strega.
Dopo essere stato eletto nuovamente senatore nel 1992, è costretto, nel 1993, ad abbandonare l'attività parlamentare per motivi di salute. Muore ad Ancona il 23 agosto 1994. Esce postumo, nello stesso anno, “Il leone e la volpe”, dialogo scritto a quattro mani con Franco Fortini.


I VERSI GIOVANILI E I POEMETTI DELLA MATURITA’


Volponi ha sempre parlato, di “modi stilistici post-ermetici” che avrebbero dettato i primi suoi versi. L’osservazione è esatta nel senso che Volponi, si è trovato a scrivere versi che possono essere rubricati in prospettiva come post-ermetici. La sua poesia giovanile, già espressivamente matura, già distinguibile per ferma impostazione di timbri e immagini, in anni di faticoso mutamento come potevano essere quelli dell’immediato dopoguerra, pare sia riuscita ad evitare polemiche a livello esclusivamente culturale (ermetismo no, ermetismo si.) per conquistarsi un’aerea del tutto nuova denominata da Franco Fortini, sul “Menabò ”, neoclassicismo novecentesco. Un verismo di tono crepuscolare di Pascoli, o quello eloquente di D’Annunzio prendono piede nelle “Novelle della Pescara” per poi passare ad una decorazione fauve, freschissima per macchie di colore e modernamente espressionista nei versi ricavati da “L’antica moneta” o “Ramarro”.  Ma la  prima vera esperienza culturale di Volponi, sul terreno propriamente letterario, quasi un’uscita allo scoperto, avviene nel momento in cui l o scrittore si trova a partecipare, in una posizione di personalissimo distacco, all’équipe della rivista “Officina”, formata da Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi, Franco Fortini, Gianni Scalia. La direzione di lavoro di “Officina” era di opposizione novecentesca, era anti-ermetica. La rivista si mosse, e sul terreno dell’indagine critica, e nella raccolta dei testi creativi, verso una letteratura realisticamente e dialetticamente credibile, svalutando tanto l’ermetismo alessandrino degli anni Trenta, quando il post-ermetismo rappresentato nel dopoguerra dal neorealismo, stimato una forma di ermetismo refoulé, “Officina” rimetteva in discussione il rapporto arte-vita integrando alla visione dell’istituto letterario il marxismo, la linguistica o primi germi di antropologia, puntando su una articolazione più ricca del linguaggio poetico, ed esigendo altresì un’estensione nel campo dei contenuti. La risultante dell’esperienza di “Officina”, in parallelo a quella Olivettiana, portò la poesia di Paolo Volponi a confrontarsi con la società e con la storia, senza alienarsi da un radicato, sensibilissimo soggettivismo. Nascono i poemetti di "“e porte dell' “Appennino” dove l'esigenza dell'ascolto di un mondo arcaicamente fisso e premorale si sposa a una necessità meditativa, così che il poeta si sente vivere sull’orlo di una irrimediabile, perpetua crisi. A seguito della “scuola letteraria di Officina” (è Volponi stesso ad averla definita così) esce da questo poeta, tecnicamente maturo, e ancora più raffinato nell’uso dei timbri e consonanze metriche, il narratore. Ma certo non fu soltanto “Officina” a condurlo al romanzo, c’erano state le inchieste sociali al sud, o il lavoro di assistentato sociale a Ivrea: il contatto, insomma, al vivo, con una realtà italiana più che mai mutante. Probabilmente il poeta sentì la necessità di rendere più duttile o obiettivo il proprio strumento espressivo. Egli dovette sentire il fascino d’un uso oggettivo della lingua: fascino che sta alla radice di ogni ricreazione romanzesca.


MEMORIALE E IL PROBLEMATICO RAPPORTO FRA INDIVIDUO E INDUSTRIA

Memoriale, nasce dall’esperienza di lavoro di Volponi, ma va collegato, nel contempo, al dibattito su letteratura e industria aperto da Vittorini proprio agli inizi degli anni Sessanta e all’esigenza largamente sentita di sperimentare tematiche e modalità narrative nuove. Memoriale è la storia, raccontata in prima persona, di un contadino del canavese, Albino Saluggia, che assunto come operaio in una grande fabbrica torinese vive drammaticamente lo sradicamento dalle sue abitudini e dal suo mondo, viene travolto dall’ingranaggio oppressivo e totalizzante della fabbrica, scopre angosciosamente un volto nemico in ogni aspetto del mondo che lo circonda e approda così ad una irrimediabile nevrosi. Questo approdo del protagonista, però non  è che un paradigma di quel processo di alienazione di perdita della propria individualità al quale la civiltà industriale sottopone l’uomo, nel caso specifico, l’operaio. Di conseguenza la vicenda del protagonista che si configura come caso clinico “funge come lente di ingrandimento” serve ad esemplificare vistosamente un rapporto fra singolo e contesto sociale: la sua alienazione (nell’accezione clinico-medica del termine, cioè come nevrosi e paranoia) è figura emblema dell’alienazione che riguarda un’intera società. E’ proprio questo che rende particolarmente convincenti, nel panorama della produzione collegata al dibattito su “Industria e letteratura”, i risultati di Volponi; il quale non si limita ad una descrizione naturalistica della vita di fabbrica ma ne rappresenta l’immane forza nell’intimo dell’uomo cui non resta altro scampo che la malattia. Sul piano espressivo solo raramente Volponi ricorre alla mimesi di un linguaggio subalterno che sarebbe proprio specifico del protagonista (le soluzioni che avrebbe adottato un narratore neorealista); le soluzioni adottate in Memoriale sono altre:  o una prosa di lucida analisi, o una prosa lirica ricca di ardite analogie(vedi esperienza poetica di Volponi) attraverso la quale si esprime la sensibilità nevrotica del protagonista, la sua ottica visionaria, la sua angosciosa mania di persecuzione.
Albino Saluggia, il protagonista di memoriale è il  primo esemplare, la prima incarnazione di una tipologia umana che sarà ricorrente nella narrativa di Volponi: quella dell’uomo che sente con lacerante intensità la dissonanza col mondo in cui vive, lo sente estraneo , nemico e conseguentemente diventa estraneo alle cose, alla realtà, a se stesso: si “aliena”. Essa è una tipologia che ritorna, con arricchimenti e varietà di prospettive, nei due romanzi che seguono Memoriale.
Albino Saluggia, è un malato che si muove nel mondo dell’industria. Il problema del libro è la sua malattia  in rapporto a questo mondo. Guido Piovone ne ha tracciato questo profilo: “Davanti a una civiltà industriale rivolta contro gli uomini, perché piegata ai fini di una società cattiva, i più infelici sono proprio gli indenni, i vittoriosi che consentono a perdervi l’anima, ed i più fortunati proprio gli sfortunati, i malati, gli espulsi. La malattia appare nel libro un estremo rifugio della persona e l’unica realtà veramente umana”. Saluggia dunque, ossessionato dalla propria tubercolosi, di cui comprende oscuramente l’origine psicosomatica, esprime attraverso la sua angoscia un giudizio morale, il cui fine sfugge a lui stesso. Ma non sfugge al lettore: cioè non è sfuggito allo stesso scrittore.
In Memoriale (essendo scritto in prima persona) vediamo che  è lo stesso Saluggia che parla dei suoi mali. Attraverso una lirica, positiva e negativa, Volponi ha spiato se stesso in Saluggia: ha arricchito, cioè l’invenzione dell’operaio monomaniaco di tutto ciò che la sua poesia, in precedenza, aveva sperimentato. In un certo senso si può dire che Volponi proceda in modo inverso ai romanzieri classici: deliberatamente e in maniera diretta inventa il proprio personaggio all’interno dell’orizzonte linguistico che è più suo, quello dei propri versi; non fa di Saluggia la propria Emma Bovary, e neppure lo distanzia in un gergo qualsiasi. Potremmo ricordare alcuni versi di Volponi: “la paura ridiscende nel mio cuore/e ricompone il gioco diletto del male/la libertà della contraddizione/che porta al dolore le parole”. E sentiremmo Saluggia fare eco: “ Io ho questa sorte del silenzio”. Comprendiamo allora che il destino dell’operaio, fortunato perché distrutto dalla malattia sociale e perciò simbolo del rifugio estremo dell’umano in un mondo che gli si nega, per la sua vocazione al silenzio, si protrae nei versi di Volponi nel dolore, nell’angoscia, nel silenzio conoscitivo. Non a caso Alberto Moravia, a proposito della scrittura di Memoriale, ha parlato di “imprevedibilità”, insistendo sul fatto che in essa non si riscontrano “quegli elementi intellettualistici e schematici e prefabbricati così frequenti nella prosa degli scrittori d’oggi”. (testo contenuto in un opuscolo pubblicitario edito da Garzanti nel 1963). Volponi ci dice che Saluggia è reduce dai campi di lavoro nazisti: contro la vitrea eleganza della fabbrica esibisce le proprie ferite. La vicenda ha uno sviluppo temporale affatto interiorizzato. Il tempo è struttura della coscienza umana, e Saluggia non può averla conquistata se la sua esistenza rispecchia un conflitto che si radica proprio nella lontananza precostituita dell’umano.
Primo momento: la visita al medico Tortora e la denunzia dell’incipiente pericolo di tbc. Seguono i contatti con gli altri operai in fabbrica: unicamente umani negli spogliatoi
(“lì ritrovavo il segreto di quel contatto con gli altri eccitante e commovente, che in passato avevo avuto nei dormitori del collegio o nelle caserme, anche se sempre in silenzio e senza che mai riuscisse a farmi stabilire dei rapporti continui….”).
Infine la scoperta di un amico che intende il valore del silenzio: è Grosset, il
capo-reparto (“Passandomi una mano sulla spalla, mi disse: Vai calmo, Saluggia. Lui capiva la condizione in cui mi trovavo. Non prendere il lavoro come un nemico, soggiunse o non durerai a lungo”). Grosset sa che un modo per salvarsi è di conservare nel lavoro, una segreta disponibilità ad altro: è un modo di essere amici. Saluggia invece nel cuore del suo cuore, non riesce ad avere rapporti d’amicizia con se stesso. Non progetta la propria esistenza: si sente in esilio. Non ha riserve dove scaricare il proprio furore. Di spirito è altrove: al lago di Candia che si stende davanti a casa sua e al suo orto. Il lago torna di frequente nei suoi pensieri, si direbbe immotivatamente. Ed è il contrario. Scrive Marx in uno dei suoi Manoscritti del 1844:”l’operaio non può nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. La natura è il materiale su cui il suo lavoro si realizza, in cui esso è attivo, in cui e mediante esso produce”. Albino presenta questa necessità come nostalgia. Il bisogno ingenuo di sentirsi al mondo, fra le cose, nella condizione però di  non essere che cosa o merce. Ma è in questa nostalgia che il suo discorso si fa umano, e recupera il tempo come dimensione della coscienza.
La tbc esplode per suo conto; toccato dalla malattia, comincia a credere che i medici l’osservino per toglierli ogni speranza di vita. Lui è sano, ma non ci sono radioscopie che tengano: la realtà è diversa. La sua solitudine, la desolazione in cui sente scorrere la propria vita, il ripetersi di  alcune sensazioni  tutto ha avuto il suo effetto naturale. Albino, che è cattolico, è spinto a infliggersi una punizione, tale che coinvolgesse al suo caso anche gli altri. Ogni attenzione che gli si possa prestare, è riprova di una persecuzione. Nell’inferno in cui si è cacciato, Saluggia non può perdonare a nessuno l’amore, vero o falso, che gli porta. Non sono i focolai dei suoi polmoni che vanno curati, ma il dissociarsi della sua mente solo debolmente riflesso nel suo male fisico. Il sanatorio coltiverà il suo silenzio. Lungo il malanno gli corre il pizzicorino della nostalgia per il lago, e per una cugina che doveva venire ospite in casa sua. Lo spettacolo che offrono gli altri ammalati, poco lo interessano. Al massimo ne spierà le mosse, per avere conferma di un vizio che è quello della fabbrica: l’usarsi, l’avvilirsi dell’uomo a strumento. La bellezza struggente del libro sta nell’essere costruito di tanti tableaux  che vanno a legarsi, compenetrandosi fra loro, ad un unico significato, e lo ripropongono ogni volta rinnovato, non mutato; lo sottolineano; lo rendono ossessivo. C’è nella follia di questo operaio il rabbioso puntiglio per la verità che anima gli eroi di Dostoevskij. Così come il suo amore per la propria pelle, per il proprio letto, la viscerale concitazione dei suoi pensieri. E’ la verità, la propria, egli sa scoprirla, e atrocemente fissarla. Il sanatorio non lo ha curato del tutto. L’assedio dei medici prosegue in fabbrica: per sventarlo, chiede la “qualifica”. Non l’otterrà: “La fabbrica non perdona; non perdona chi è solo, chi non si arrende al suo potere, chi crede alla giustizia umana e invoca la sua clemenza; la fabbrica non perdona gli ultimi”. Cominciano ad accorgersi che è folle. Entrano in campo gli assistenti sociali, sua madre, che gli assistenti hanno segretamente avvicinata per conoscere il segreto della vita di lui. Albino ama tutto questo: là sta la molla  della sua logica. La verità, dunque, è che la fabbrica “invece di essere un mezzo per stare bene su questa terra, potrà essere il fine di starci male o il mezzo di uscirne”. Importante è soffermarci sul senso di questo “Fine”, in quanto esso discende dall’intimo della condizione dello stesso Albino . “Fine” significa un punto “di approdo” attraverso il quale il protagonista annulla la propria esistenza, il vivere serenamente, per inoltrarsi in una buia e totale assenza dell’ Io. Le stagioni passano. Albino comincia a credere che una coppia di maghi potrà guarirlo. Si tratta di due fanfaroni che gli spillano solo il denaro. Un uomo e una donna: la donna provoca sessualmente, per quanto può Albino. L’episodio ,rende  a questo punto fragile il succedersi dei fatti. Ma resta in piedi il senso ideale del personaggio, per cui se egli ha un progresso, lo ha per una graduale perdita di presenza, nel dissiparsi, nell’accrescersi dei suoi turbamenti, e delle sue visioni. Albino spia, oltre che la fabbrica, due che fanno l’amore dietro i cespugli. Un caporeparto gli chiede di mettersi a fare il confidente della proprietà: Albino rifiuta. I modi reali di comunicazione, l’amore e il linguaggio, in lui subiscono progressivamente una sclerosi letale. Derubato della sua stessa vita umana, che si ridimensiona nel lavoro, non possiede più mezzi per percepire la realtà: crede che conoscerla sia avere con essa contatti furtivi, di spia. La parola , dunque, comincia a morirgli in bocca. Eccolo nell’ufficio del personale : sta denunciando il medico; è colui che lo vuole malato per eliminarlo dal gioco, dal lavoro (cioè dalla vita), avvilirlo ecc.. Gli rispondono di stare tranquillo, che esamineranno il suo caso, e così via. Si tratta di una follia a doppio taglio: per un verso è istinto al rifiuto, è crisi, è verità; per l’altro è incapacità di distacco, è vizio. Ma la fabbrica (Saluggia lo sente) è “come una chiesa”, “un tribunale”. Saluggia si sente “murato vivo”, non  libero , ma il problema che gli sorge da ultimo è: da chi dipendere, a chi sentirsi ombelicamente attaccato? La sua dignità di uomo sta nel possedere un mito da cui nutrirsi. La fabbrica la risposta più ovvia. Insomma la tbc di Albino è appena un’ alibi, ma nell’attimo in ciu viene riconosciuta, esige che l’attenzione che gli si è prestata, sia distolta in altro, alla sua crisi d’affetti, al suo essere orfano di mondo, e viziosamente tale, con la prospettiva che nulla riuscirà a farlo rivivere. Unico ristoro sarà il lago, e le stagioni che su di esso scorrono tingendolo di luci diverse. Poi di nuovo la clinica. Il suo silenzio raggiunge il culmine. Comincia a scrivere una serie di versi lunga e noiosa, con l’enfasi infantile e programmatica di chi crede che l’accentuazione ritmica dei pensieri scongiuri ciò che si maledice. Uno sforzo che non vi troverà sollievo e soddisfazione: uno spasimo della stessa tubercolosi, i bronchi si accendono e il respiro affanna, nella speranza che l’organismo ritrovi il ritmo regolare delle inspirazioni. Tutto inutile. Albino ne esce in parte risanato, ma viene allontanato dalle fresatrici. Ormai è un uomo senza più contenuti. Sembra solo, abbandonato, lasciato solo al suo destino. Fa da galoppino, per sua scelta deliberata, tra un gruppo di scioperanti che dimostrano fuori dalla fabbrica, e gli addetti alla mensa nell’interno dell’edificio. Successivamente gli verrà consegnata, dall’Ufficio del Personale, una diffida di licenziamento. Non gli resta che lanciare disperate occhiate alla campagna, agli ultimi sprazzi di nebbia sulle siepi, alle code bianche e nere degli amici uccelli sui paletti di confine. Ancora uno sguardo al lago: “A quel punto ho capito che nessuno può arrivare a me con il suo aiuto”. La presenza di Saluggia è del tutto essiccata. Volponi conclude così il suo Memoriale , imprigionando quasi il suo personaggio in una vecchia parabola: “LA SOLITUDINE PUO’ DARE FORSE UNA MISTICA PACE”. Con un efferato amore che ha uno scrittore per la realtà, Volponi ha scelto di abbandonare il suo personaggio in un assoluto silenzio strappandogli ogni possibile parola. Questa scelta da parte dello scrittore è stata più che determinante per raggiungere una conclusione al di fuori dei classici schemi della  narrativa italiana, lasciando un enigmatico finale con mille prospettive per il futuro di Saluggia concesse deliberatamente alla interpretazione psicologica del lettore. Difatti per quanto riguarda la tecnica narrativa che Volponi ha usato in Memoriale, a mio parere, l’elemento più saliente e intrigante, capace di coinvolgere l’attenzione del lettore esterno è stato proprio la presentazione del protagonista non solo sotto delle vesti oggettive bensì sotto una veste introspettiva molto curiosa. Con lo scopo di rappresentare l’insufficienza e le contraddizioni del neocapitalismo, denunciare il grado il grado reale di disumanizzazione della moderna società, Volponi introduce un’ottica nuova, adoperando misure conoscitive di segno patologico: la paranoia, la mania di persecuzione, l’ingenuo, schizofrenico utopismo. Albino Saluggia, operaio-contadino del Canavese, reduce dalla prigionia in un lager nazista e ancora sofferente, tenta di salvarsi dai suoi mali di “debole”, di “disadattato” , cerca di ricostruire affetti e pensieri affidandosi alla concreta, “perfetta” realtà della fabbrica. Ma le strutture “efficienti” e razionali dell’azienda, man mano che ne viene a contatto, gli appaiono ostili, costruite a suo danno. Nei compagni di lavoro, nei capi reparto, nei dirigenti come nei sindacalisti, nei medici (che gli scoprono la tubercolosi e vorrebbero guarirlo) e nelle infermiere, vede, con lo sguardo stravolto e deformante del diverso, del paranoico, altrettanti nemici congiurati  a perseguitarlo, in nome di un “bene” che non è il suo ma della fabbrica. Analizzato in particolar modo dal punto di vista psicologico, Saluggia è in grado di rappresentare ciò che Karl Marx intendeva come un vera e propria alienazione dell’uomo, in particolare dell’operaio. “Il lavoratore, oltre ad essere espropriato del lavoro prodotto, viene ad essere ridotto a merce, cioè a “cosa” poiché l’operaio nel sistema capitalistico conta solo come macchina per la produzione del plusvalore”.
Passo tratto dal pensiero di Karl Marx

Un totale annullamento dell’ Io, della propria personalità, della propria capacità di assumersi responsabilità e di cogliere i veri valori della vita.
La fabbrica ha coinvolto inizialmente la parte esteriore del personaggio, la forza  lavoro, le capacità fisiche e intellettuali per poi avanzare lentamente in un buio e totale coinvolgimento psichico, portandolo alla totale dipendenza, e racchiudendolo in un tunnel senza ritorno che si è poi rivelata come pazzia. In questo modo anche la parte interiore di Saluggia ne è rimasta inevitabilmente coinvolta, trasportata in una globale e illimitata erosione dei propri sensi, dei propri diritti. La perdita della parola, della capacità di comunicare, di relazionarsi con altri è stato il culmine della pazzia e dell’alienazione del protagonista. Memoriale ha rappresentato, rappresenta  e rappresenterà una affascinate guida della cruda realtà della vita di fabbrica, e l’importanza di cogliere il vero significato di ciò che rappresenta tutt’oggi per noi i lavoro.


ALTRE OPERE DI PAOLO VOLPONI


Ne La macchina mondiale  strutturato anch’esso come una confessione, il contadino Anteo Crociani, profeta visionario inventore, ha elaborato un suo sistema pseudoscientifico che concepisce l’universo come una grande macchina: gli uomini, macchine anche loro, perfezionandosi possono arrivare alla realizzazione di tutte le loro valenze, ad un sereno rapporto con la natura, a riorganizzare il mondo che attualmente è “vera sede di pazzia”. Al disagio di vivere in questa “sede” il narratore contrappone delle credenze popolari, e arcaici miti contadini. Il romanzo in sintesi è rappresentazione  del disagio del protagonista a vivere in questa “sede di pazzia” e, nel contempo, della sua utopia di cambiamento, della sua fiducia che le macchine prodotte dall’uomo migliorino l’uomo stesso.
Un utopista è anche il protagonista di Corporale (1974)  , il professore Gerolamo Aspri, intellettuale che ha lasciato il PCI, impiegato nell’industria, emarginato per il suo rivoluzionarismo utopistico. Inquieto, complicato, ossessionato dalla paura atomica ma anche dal dibattito politico (il PCI, i movimenti extraparlamentari), il professore Aspri si butta anima e corpo alla progettazione di un rifugio atomico sull’Appennino. Ma il romanzo si conclude ambiguamente con la sua scomparsa. Va a questo punto sottolineato che siamo di fronte ad un’opera narrativa tutta particolare, un’opera “aperta”, senza azione, proliferante di situazioni, incontri, e innumerevoli riferimenti ad avvenimenti contemporanei ( Togliatti, il Vietnam, la TV ecc..); il tutto con i più diversi registri linguistici, passando da un puntiglioso realismo ad una presa in giro della società stessa: l’obbiettivo è quello di trascrivere sul piano formale il caos della quotidianità. Ma a questa quotidianità priva di senso e caotica Aspri oppone come sfida la sua corporalità, la sua istintuale vocazione a vivere “come un cannibale” questa realtà, a possederla mediante il continuo tentativo di provare ogni possibilità di esperienza fisica, corporea, con sensualità sfrenata e onnivora. La fisicità, la corporalità rappresenterebbe così una vera e propria opposizione alla società portandoci così ad una diversa forma di utopia: dominare il mondo e le cose col possesso, e se non è possibile con il cambiamento.
Lucido nell’esame e nel rifiuto della società contemporanea, perennemente lacerato fra utopia e prospettiva di rinnovamento di una società priva di valori. Aspri risulta una problematica incarnazione del disagio di vivere nella società odierna, ma anche l’espressione di una indifesa volontà di rigenerazione e  di rinnovamento dell’uomo;  L’utopica aspirazione di realizzare un nuovo “Adamo” vivo e diverso!!!
A La macchina mondiale e a Corporale seguono altri romanzi come Il sipario ducale, del 1975, uno dei pochi romanzi contemporanei in cui troviamo eco le vicende del terrorismo, Il lanciatore di giavellotto, del 1981 e Le mosche del capitale (1989), che conclude con la lucida coscienza della sconfitta dei progetti riformistici affidati nei romanzi precedenti al delirio utopico, alla follia. Qui la vocazione riformistica, il progetto di un’industria, di una fabbrica per l’uomo a misura di uomo è affidato a un dirigente che non coltiva le utopie di macchine mondiali né conta sulle gratificazioni che si può trarre dalla corporalità. Qui la progettualità riformatrice è identificata in un dirigente illuminato, democratico, colto.
Le mosche del capitale , in modo mediato, contiene riferimenti alle esperienze biografiche dell’autore e a situazioni del mondo industriale contemporaneo. Questo romanzo narra la carriera, in ultima analisi fallimentare, del professor Bruno Saraccini, giovane e brillante dirigente aperto alle riforme, che concepisce l’industria come luogo e strumento di crescita democratica. Il presidente del complesso industriale dove egli lavora, l’astuto e cinico Nasapeti, lo nomina amministratore delegato, ma gli affianca, per controllarlo e frenarne le iniziative, una specie di “colonnello” pronto ad eseguire gli ordini. Va a finire che Saraccini lascia l’azienda. Passato a Bovino (il toro di Torino è diventato bove…)a un’altra grande industria, uno dei cui proprietari sembra avere idee “aperte” , Saraccini si scontra con  il gruppo dirigenziale interno, che alle sue concezioni di un’industria come avanguardia di un’opera di incivilimento complessivo del paese, pone invece scelte mediocri, banalità ..Anche stavolta Saraccini si dimette.
Ai temi scelti sin dal suo primo romanzo pubblicato, la fabbrica, il complesso rapporto fra industria e società, Volponi è rimasto fedele in quasi tutta la sua produzione con una coerenza e un impegno di approfondimento non usuali. E' significativo che la progettualità democratica, avanzata , “umana” del professore Saraccini –nel quale parecchi pensano sia adombrato Adriano Olivetti - venga sconfitta. Attraverso questa analisi quasi identificata dallo stesso Volponi come una vera e propria “sentenza” si può cogliere il messaggio che l’autore ha voluto trasmetterci attraverso i suoi capolavori. Nella visione del mondo del lavoro, identificato in particolar modo nella figura emblematica della fabbrica, non vi si può trovare soluzione, salvezza per l’operaio, in quanto egli è costretto a sottostare alle dure regole del mercato capitalistico che  non prevede in alcun modo un possibile riscatto della figura del lavoratore ma bensì ne auspica solo la visione di macchina lavoratrice.



ROMAMO BILENCHI E IL CAPOFABBRICA

Romano Bilenchi è nato a Colle-di-Val-d'Elsa (Siena) nel 1909. Collaborò al "Selvaggio" di Mino Maccari. Fu direttore nel 1948-1956 del quotidiano "Il Nuovo Corriere".
 Si è imposto come narratore rigoroso e di stile limpido. Oltrepassando i moduli della prosa d'arte, le sue esemplari storie di paese e di periferia sono in equilibrio tra ricordo, fantasia e attenta osservazione delle cose: Il capofabbrica (1935), Anna e Bruno, e altri racconti (1938), Conservatorio di Santa Teresa (1940), La siccità (1941), Dino e altri racconti (1942), Mio cugino Andrea (1943), Racconti (1958), Il bottone di Stalingrado (1972), Il gelo (1982).
Romano Bilenchi - Amici - Rizzoli, Milano 2002

Bilenchi ha sempre ricordato la sua esperienza di autodidatta di talento che si forma una coscienza di classe attraverso la frequentazione della classe operaia della sua Colle Val D'Elsa. Lo scrittore non ha mai nascosto l'iscrizione al partito fascista, guardato sempre e comunque da un punto di vista eccentrico, secondo le modalità di quel fascismo di sinistra che ebbe quali organi di diffusione riviste genialmente strapaesane quali "Il Selvaggio" di Mino Maccari (che fu praticamente il pigmalione di Bilenchi) o "istituzionali", come "Primato", diretta da Giuseppe Bottai e il "Bargello", organo ufficiale del Partito fascista fiorentino (su cui scriveva anche Vittorini).
Bilenchi fascista di sinistra, si guadagnò, nel 1934, l'ingresso come redattore alla Nazione di Firenze grazie all'interessamento di Galeazzo Ciano. Lì, in un ambiente relativamente favorevole maturò una posizione sempre più critica nei confronti del fascismo, posizione che lo portò ad un'uscita semiufficiale dal partito all'epoca della Guerra di Spagna (venne espulso ufficialmente nel 1940).
Da lì in poi Bilenchi diventò un comunista a tutti gli effetti, prima attivo nella lotta clandestina contro l'occupazione tedesca, esperienza resa nel libro attraverso prose molto belle come "I due ucraini", "La pistola di Salò", "Un comunista", poi un uomo di partito aperto alle influenze più disparate. Ampiamente critico nei confronti dello stalinismo (ed è difficile ora capire fino in fondo quanto fosse il credito che il massacratore osseto riscuoteva in quegli anni di dopoguerra nelle sezioni del partito), "apriva" ai cattolici dell'allora sindaco DC Giorgio La Pira, da lui convinto ad organizzare in Firenze un confronto tra i sindaci delle città del Patto di Varsavia e quelle americane. Ed erano anni di guerra fredda, anzi freddissima.
Infine l'esperienza del "Nuovo Corriere", quotidiano comunista fiorentino di cui Bilenchi fu direttore e che in otto anni di vita rappresentò una voce di non-allineamento intelligente alle principali correnti del comunismo italiano. L'esperienza si concluse con i fatti d'Ungheria, nel 1956, dopo un duro editoriale nel quale Bilenchi stigmatizzava la repressione sovietica, e al quale seguivano le dimissioni dal PCI.

Ne Il capofabbrica del 1935, e bisogna ricordare che rientra nella categoria delle prove d’esordio, compaiono le future tematiche caratteristiche dello scrittore: la provincia, le storie semplici di paese e di periferia; ma serve ricordare che questa provincia non è né quella sanguigna dei naturalisti o espressionista alla Tozzi né quella decadente dei crepuscolari, bensì una provincia ridotta come scenario all’essenziale che propone protagonisti che sembrano emanati dalla poetica della semplicità del Flaubert di Un coeur simple. Dunque Bilenchi supera rapidamente il bozzettismo di maniera e comincia a porre adolescenti e giovani al centro del punto di vista. E sullo sfondo il lavoro, il rapporto con le leggi dell’economia, le sofferenze dei proletari.




DIBATTITO TRA LETTERATURA E INDUSTRIA


Inizialmente l’attenzione della letteratura del primo Novecento, non fu attirata da un nuovo sfondo tecnologico che stava sempre più prendendo piede nei primi anni del XX secolo; se infatti, nelle pagine di alcune riviste si esaltava la potenza della macchina, contemporaneamente, nella produzione letteraria comparivano ancora i tradizionali temi della contemplazione della natura, comune a produzioni con sfondo provinciale, talvolta con una vena folkloristica o dialettale. Essa però non era in grado di aprire né un nuovo sfondo letterario, né un valido dibattito in difesa dei valori della natura contro quelli della tecnologia. Nonostante il paesaggio stesse cambiando, coinvolgendone l’intero ambito sociale, permane per tutta la prima metà del secolo, la tendenza a porre come sfondo alle vicende di novelle e romanzi il tradizionale paesaggio naturale, ricorrendo ai soliti espedienti stilistici e retorici.

Orientata sulle basi tecnologiche che caratterizzano il secondo Novecento, in reazione al passato, la narrativa degli anni Sessanta/Settanta  presenta nuove, aggiornate motivazioni: inchieste e polemiche sul romanzo, compreso ildibattito letteratura-industria ; fine dell’esperienza neorealista, fallimento della poetica dell’ ”impegno” , mentre esplode il boom editoriale dei romanzi di successo; contro gli ultimi strascichi del naturalismo, la Neoavanguardiapredica il “disimpegno” liberando per il romanzo ipotesi di di rinnovamento sia sul piano stilistico, sia sul piano dei contenuti.
Con estesa vivacità, superiore alle discussioni che si ebbero nel 1929-1930 sulla crisi del romanzo , il periodo 1956-1960 registra una seconda serie di interventi, interrogativi, inchieste sulle sorti del romanzo. Ricordiamo l’inchiesta riguardante il valore e il destino del romanzo promossa dalle riviste “Ulisse” (autunno-inverno 1956-’57) e “Nuovi Argomenti” (maggio-agosto 1959); la polemica sul realismo avviata da “Europa letteraria” (marzo 1960); l’inchiesta dl “Corriere della Sera” (cfr. l’articolo Romanzo e racconto di E. Montale, 25 giugno 1960) ; il numero speciale de “Il Verri” (febbraio 1960) dedicato a Il Romanzo e le nuove tecniche narrative. Ci si domanda se sita o meno una crisi del romanzo come specifico genere letterario quando tutte le arti stanno visibilmente declinando; se il romanzo moderno possa ancora riconoscersi negli esemplari della grande stagione ottocentesca; se convenga al romanzo saggistico e a quello visivo occupare il posto dl tradizionale romanzo di costume; se sia lecito al nouveau roman rompere le normali strutture, dissolvere il personaggio e rifiutare la psicologia; se la struttura linguistica del romanzo debba affidarsi alla prosa letteraria o ricorrere piuttosto al linguaggio parlato, dialettale. Tra le risposte nel fascicolo di “Ulisse”, intitolato appunto
Le sorti del romanzo , Calvino auspica un tempo di “bei libri pieni di intelligenza nuova”; ma non pensa saranno romanzi.. Sulla rivista “Nuovi Argomenti” di Moravia-Carocci spicca l’intervento di Bassani, oltre che narratore in proprio, responsabile editoriale della collana Feltrinelli in cui era apparso Il Gattopardo; di fronte al dilemma saggio/romanzo, Bassani conferma lo specifico letterario come qualificativo del genere romanzo:” dubito che possa nascere nulla di veramente utile, oggi, nel campo della narrativa, al di fuori della letteratura”. Nel quadro culturale del momento, si sviluppa un dibattito sul tema “letteratura e Industria”: ci si rende conto della nuova condizione dell’uomo, connessa allo sviluppo economico e tecnologico e caratterizzato dall’alienazione, ovvero dalla riduzione dell’uomo a cosa e dall’impossibilità di qualunque rapporto autentico con il reale. I letterati avvertono che non è più possibile rappresentare la realtà, secondo i canoni tradizionali, ma che bisogna sostituire alla descrizione di aspetti o eventi della natura, i temi della realtà industriale: la fabbrica, le strutture aziendali, l’alienazione e i problemi di chi lavora nell’industria. Tale dibattito affronta questioni tematiche urgenti: il neocapitalismo che, con una produzione sempre più organizzata e accelerata, artificializza la realtà, condizionando le scelte e i tempi del vivere ( si va in vacanza quando le fabbriche chiudono); la natura e l’ambiente, la campagna e le spiagge invase dagli “oggetti”, divorate da “cose fabbricate”, da costruzioni in cemento. Vittorini mise a fuoco tale disputa sul “Menabò 4”,1961. Egli affermava che bisogna prendere atto della “trasformazione grandiosa e terribile che avviene intorno a noi”, per cui la letteratura deve abbandonare la dimensione melodica di rappresentazione di una natura ormai stravolta dall’opera dell’uomo e con la quale è stato infranto ogni genere di rapporto. L’ambiente, in realtà, in poco più di mezzo secolo si era modificato più di quanto si fosse generalmente consapevoli , a causa di un graduale processo di cambiamenti avvenutosi negli ultimi anni. La gente, troppo assuefatta dallo stupore per le nuove scoperte e ai vantaggi offerti dal progresso, non aveva fatto molto caso alle modificazioni ambientali. Due grandi e devastanti guerre, svoltesi nel primo arco del secolo, con il loro strascico di dolore, avevano fatto sì che non fosse possibile l’instaurarsi di una questione ecologica ed ambientale. Gli scrittori degli anni ’60, forse per la prima volta, posero l’attenzione dell’opinione pubblica sulla gravità di tale problema. Il paesaggio industriale non aveva ancora inglobato del tutto quello naturale, ma aveva già creato quel paesaggio “sociale” caratteristico della nostra epoca e di cui purtroppo ne subisce l’influenza anche il comportamento e la psicologia degli uomini: il traffico intenso e caotico con il conseguente inquinamento atmosferico e acustico, i ritmi di vita incalzanti, la concentrazionalità dei luoghi di lavoro e degli spazi abitativi, con il diffondersi di situazioni di stress ed emarginazione.
E’ doveroso però citare scrittori antecedenti agli anni ’60, in quanto attraverso le proprie opere hanno cercato di riportare fino a noi la dura vita di fabbrica, l’aspro lavorare, o semplicemente la vita di un operaio.
Per quanto riguarda gli Anni Trenta, possiamo citare Carlo Bernari, con il suo romanzo “Tre operai”  o il poeta Cesare Pavese con la poesia “Lavorare Stanca”.

Anni Sessanta, ricordiamo Vittorio Sereni con “ Una visita in fabbrica”, da “Gli strumenti umani”. Infine voglio porre l’attenzione su uno scrittore che convoglierà la maggior parte delle sue opere nei famigerati anni di “piombo” ossia Anni Settanta. Stiamo parlando di Paolo Volponi il quale dichiara di aver scritto il romanzo Memoriale, mosso da “profonda cosciente simpatia” per tutti coloro che vivono nelle fabbriche; una simpatia che si rivolge soprattutto “verso quelli più deboli, i disadattati, i ribelli, gli isolati che aggiungono alle condizioni oggettive di fatica e alienazione, altre condizioni individuali, ancora più dolorose”.

… CONTINUA


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