Gli anni ruggenti: la crescita della produzione e dei
consumi
Tra il 1922 e il 1928 gli Stati Uniti conobbero una crescita
economica senza precedenti nella loro storia. La produzione industriale salì
del 64% (contro il 12% del decennio precedente).
Non si trattò, tuttavia solo di un balzo in avanti
quantitativo, ma di una trasformazione qualitativa dovuta al diffondersi della
seconda rivoluzione industriale: ciò significò produzione di massa in tutti i
settori, da quello automobilistico a quello tessile, alimentare, ecc. Per
assorbire questa produzione di massa occorreva creare dei consumatori di massa,
ossia occorreva che tutti i cittadini acquistassero i beni prodotti. A dare un
notevole impulso in questa direzione provvidero in particolare tre elementi:
1) la diffusione delle innovative tecniche pubblicitarie;
2) il successo delle nuove forme di distribuzione, tra cui
soprattutto i grandi magazzini;
3) la possibilità di pagamenti rateali, che rendevano
l'acquisto dei prodotti accessibile anche alle famiglie meno abbienti.
L'impressione di consumi accessibili a tutti e di una
diffusione del benessere apparentemente senza fine diffondeva entusiasmo nella
nazione. Gli Stati Uniti desideravano dimenticare i sacrifici della guerra.
Volevano distrazioni e divertimenti: non a caso trionfarono il jazz ed i night
club. Questi anni sono passati alla storia come «i ruggenti anni Venti».
Dopo la guerra gli Stati Uniti erano diventati la prima
potenza mondiale ed avevano raggiunto livelli di ricchezza molto più alti dell'Europa.
Crebbe così tra i cittadini, posti in questa situazione di privilegio, il
rifiuto di un intervento politico a favore dell'Europa e dell'ordine
internazionale.
Un nuovo impegno americano avrebbe potuto portare altre
guerre ed altri sacrifici, minacciando il benessere raggiunto dalla nazione.
La presidenza
Il presidente Wilson aveva propo¬sto i suoi 14 punti, che
sonavano come un manifesto di libertà, di democrazia e di autonomia per tutti i
popoli, sicché al tavolo della pace egli era apparso l'unico uomo dai vasti
orizzonti fra i molti di-plomatici che continuavano le loro anguste manovre.
Ben presto però il liberismo democratico del Wilson, che
implicava l'egemonia mondiale degli Stati Uniti, fu ripudiato dal senato e da
gran parte dell'opinione pubblica americana come troppo pericoloso: pericolosa
fu considerata soprattutto l'adesione alla Società delle Nazioni, che sembrava
invischiare gli Stati Uniti in controversie europee del tutto estranee ai loro
interessi.
Così non solo Wilson fu sconfessato e prevalsero le correnti
isolazionistiche, che volevano una politica di disimpegno in Europa e di
impegno esclusivo nell'area del Pacifico secondo prospettive e valutazioni di
corto respiro.
Si diffuse, in quegli anni, il pericoloso mito che contrapponeva
la «virtuosa America» alla «immorale Europa» e in esso fermentarono i
sentimenti e i risentimenti più contraddittori.
Il repubblicano Warren Harding vinse le elezioni
presidenziali del 1920 con un programma che raccoglieva ed amplificava queste
istanze.
Il Senato si era già rifiutato di ratificare il Trattato di
Versailles, e gli Stati Uniti non erano entrati a far parte della Società delle
Nazioni promossa da Wilson. Con la vittoria repubblicana si affermò un
orientamento isolazionista secondo cui il paese doveva badare esclusivamente
alle questioni di politica interna, o al massimo curare i propri interessi
nell'area del Pacifico.
II boom della Borsa
II prezzo delle azioni delle società quotate in Borsa
tendenzialmente cresce quanto più sono ottimistiche le previsioni dei profitti
e quanto più basso è il tasso di interesse.
Nel corso degli anni Venti, il numero e il prezzo dei titoli
trattati negli Stati Uniti crebbero ad una velocità impressionante.
II miraggio di guadagni facili e rapidi fece diventare
l'investimento in Borsa un fenomeno di massa. I piccoli risparmiatori agivano
ormai in base a principi puramente speculativi: acquistavano le azioni per
rivenderle poco dopo incassando la differenza, e non erano interessati ad
investimenti su tempi lunghi. Acquistare le azioni, d'altronde, era assai poco
impegnativo: il compratore pagava solo una parte dei titoli e prendeva il resto
a prestito, dando in garanzia le azioni stesse. Con il guadagno realizzato in
breve tempo, contava di rendere il denaro riuscendo comunque a racimolare un
discreto profitto.
Segnali di crisi
Se si fosse osservata con attenzione la situazione reale
dell'economia, difficilmente si sarebbe caduti nell'illusione di una crescita
infinita. È vero che un numero sempre più consistente di consumatori aveva
accesso a beni che fino a poco tempo prima erano considerati di lusso, ma
continuavano ad esistere ampie fasce sociali in condizioni di povertà e
sofferenza. Nell'agricoltura, per esempio, milioni di agricoltori dell'Est si
dovevano confrontare con un calo inarrestabile dei prezzi. Anche i salari degli
operai erano cresciuti ad un ritmo molto più blando dei profitti e della
produzione. Insomma, molti segnali avrebbero dovuto far temere una crisi di
sovrapproduzione per l'economia americana, ma nessuno se ne preoccupò.
Il «giovedì nero»
La produzione industriale, che in alcuni settori aveva
subito una battuta d'arresto già nel 1927, ebbe nell'estate del 1929 un
rallentamento generalizzato. Eppure i titoli continuavano a salire. Il loro
valore non rispecchiava più lo stato economico delle aziende: era solo il
frutto di un intenso movimento speculativo. L’euforia speculativa della Borsa
di New York si incrinò improvvisamente nell'autunno del 1929. Il timore che le
quotazioni azionarie gonfiate fossero destinate ad un calo imminente spinse
molti operatori a liquidare i propri titoli. Il panico si diffuse sul mercato:
il 24 ottobre, il «giovedì nero», furono ceduti 13 milioni di azioni, il 29 oltre
16 milioni. Il valore delle azioni, di cui tutti ormai cercavano di liberarsi,
crollò in breve tempo, con un ribasso che pareva inarrestabile. Molte fortune
vennero polverizzate nell'arco di pochi giorni, con conseguenze catastrofiche
sul piano individuale.
Il crollo dell'economia
La crisi borsistica produsse una serie di effetti a catena:
- I risparmiatori che avevano acquistato a credito i
pacchetti azionari, confidando nelle opportunità offerte dal gioco speculativo,
non poterono più far fronte agli impegni.
- Gli agenti di borsa, a loro volta, si erano indebitati con
le banche, e dovettero denunciare la propria insolvibilità.
- Molte banche dovettero chiudere scatenando il panico tra i
risparmiatori.
- I correntisti, temendo l'azzeramento dei propri depositi,
si affrettarono a ritirarli, riducendo così ancor più la liquidità a
disposizione degli istituti di credito. Questi d'altronde, in previsione di
tempi difficili, tentavano di trattenere le proprie riserve e concedevano
prestiti solo in casi eccezionali.
Il risultato fu una gigantesca diminuzione della liquidità
con una serie di graviconseguenze sul piano dell'economia reale.
- Le aziende, non potendo più accedere al credito per gli
investimenti, riducevano la produzione, tagliavano i salari e licenziavano. Il
crollo della domanda complessiva che ne conseguì determinò un'ulteriore
contrazione della produzione industriale.
Le scelte degli Stati Uniti rispetto al sistema
internazionale
Gli studiosi concordano ormai nel segnalare le incertezze
della politica finanziaria americana tra le cause del prolungarsi della crisi.
La Federal Reserve Bank (l'equivalente statunitense della Banca
Centrale Europea) avrebbe dovuto abbassare drasticamente il tasso di interesse.
In alternativa, le autorità monetarie avrebbero potuto suggerire di abbandonare
la parità con l'oro, lasciando così che il dollaro si svalutasse. In questo
modo si sarebbero raggiunti due risultati:
(* diminuendo il valore del denaro, si sarebbe favorito
l'aumento della circolazione monetaria, e dunque il rilancio dei crediti, degli
investimenti e dell'economia in generale)
- il calo del dollaro, aumentando il potere d'acquisto delle
valute estere, avrebbe avvantaggiato le esportazioni americane. Si sarebbe così
ridato ossigeno ad un mercato strozzato dal progressivo ribasso della domanda.
II presidente repubblicano Herbert Hoover rifiutò di
sganciare il dollaro dalla parità con l'oro, per timore di un'impennata
inflattiva e di un aumento del deficit statale. Contemporaneamente, il governo
approvò (1930) un provvedimento rigidamente protezionista, nonostante
l'opposizione di molti economisti statunitensi.
Gli Stati Uniti rinunciarono così a qualsiasi ruolo di
regolazione del sistema economico internazionale, preoccupandosi unicamente di
difendere la loro economia. Tale politica sul medio periodo si rivelò miope.
Il dopo crisi in Europa
Gran Bretagna, Francia e Italia
- Nel settembre 1931, la Gran Bretagna decise di abbandonare
il gold standard, cioè il rapporto di convertiblità diretta fra la sterlina e
l'oro, e di svalutare la propria moneta per rendere le proprie merci nuovamente
competitive. L'anno successivo, inoltre, abbandonando la secolare tradizione
legata al liberismo, la Gran Bretagna creò un sistema di «preferenze imperiali»
che favoriva i prodotti inglesi sui mercati coloniali del Commonwealth.
- La Francia, invece, scelse di difendere la convertibilità
della valuta nazionale in oro, essenzialmente per questioni di prestigio. Fu adottata
dunque una linea decisamente deflazionistica, che penalizzerà le esportazioni
francesi e ritarderà la ripresa economica fino al 1937.
- In Italia la crisi del 1929 segnò un'accentuazione del
protezionismo e dell'intervento dello Stato nell'economia: nella sostanza
accelerò il passaggio alla politica autarchica che il fascismo varò nel 1934.
Il new deal
Il crack di borsa e la crisi economica squalificarono di
fronte all'opinione pubblica americana quegli stessi ambienti capitalistici e
finanziari che negli anni del boom erano stati considerati esemplari per
competenza, onestà, spirito di iniziativa; e l'ondata di sfiducia si abbatté
anche sul Partito repubblicano che di quegli ambienti era il più diretto
rappresentante. Pertanto, nelle elezioni del 1932 il candidato re¬pubblicano
riusci nettamente sconfitto dal candidato democratico Franklin Delano
Roosevelt, sostenuto da un ampio schieramento di forze nel quale i lavoratori
erano largamente rappresentati.
Il New Deal (Nuovo Patto) che Roosevelt proponeva agli
Americani non si ispirava a una precisa dot¬trina economico-politica. Punti
fermi del programma erano la deci¬sione di affrontare la crisi mediante un
massiccio intervento della mano pubblica e l'impegno a dirigere le attività
economiche e a mediare i contrasti di classe in modo tale da dimostrare la
perfetta compatibilità fra sistema capitalistico e regime democratico.
Coll'aiuto di un trust di cervelli (Brain Trust), ossia di
un gruppo di collaboratori competenti e progressisti, nei primi mesi della sua
presidenza il Roosevelt assoggettò il paese alla terapia intensiva di una serie
di provvedimenti, ispirati genericamente alle idee di Keynes piuttosto che alla
tradizione liberista ortodossa.
- Per ridurre la disoccupazione, il governo, sia direttamente
sia mediante prestiti concessi ai singoli Stati dell'Unione, promosse una vasta
massa di lavori pubblici (costruzione di case, strade, ponti eccetera).
- Sussidi vennero concessi agli agricoltori perché diminuissero
la produzione o addirittura perché distruggessero una parte dei raccolti, in
modo da evitare la caduta dei prezzi: questi ultimi provvedimenti determinarono
un rapido e notevole incremento dei redditi agricoli, facilitando anche la
ripresa dell'industria che ritrovò nelle campagne un più vivace mercato d'assorbimento
dei suoi prodotti.
- Le aziende dovevano impegnarsi a corrispondere ai lavoratori
un minimo salariale e a non pretendere da loro più di un nu¬mero pattuito di
ore lavorative alla settimana.
- Per reperire i fondi necessari alla realizzazione
della nuova politica, quasi per intero
fondata sull'espansione massiccia della spesa statale,
si ricorse all'aumento del debito pubblico, che infatti fra
il 1932 e il 1940 risultò più che raddoppiato; si accettò il deficit del
bilancio statale, superando il pregiudizio del pareggio ad ogni costo
- Si stamparono infine più dollari di quanti le riserve
auree avrebbero consentito, ossia si abbandonò la base aurea e si provocò
un'inflazione controllata che, comportando una svalutazione del dollaro, aveva
fra l'altro lo scopo di facilitare le esportazioni, specie di derrate agricole.
Nel 1935 furono tamponate le falle più pericolose della crisi
e nel 1938 la politica specificamente ispirata ai principi del New Deal poté
considerarsi conclusa: infatti le minacce che il nazismo addensava sull'Europa
e che l'imperialismo nipponico, concorrente pericoloso degli Stati Uniti,
faceva gravare sull'Estremo Oriente, indussero il governo a moltiplicare le
spese per gli armamenti, e queste furono di tale entità da bastare da sole a
far superare la crisi: tant'è vero che la disoccupazione spari rapidamente.
Nella nuova situazione il Roosevelt fu rieletto alla presidenza una terza volta
nel 1940 e una quarta volta nel 1944, sia pure con margini di maggioranza
decrescenti, cosicché egli tenne la presidenza degli Stati Uniti sin quasi al
termine della seconda guerra mondiale: mori infatti il 12 aprile del 1945, alla
vigilia della vittoria sul nazismo.
Il New Deal seppellì per sempre le tesi del liberismo puro e
introdusse irreversibilmente la pratica dello Stato assistenziale (Welfare
State) non solo in America, ma anche, in misura diversa, in tutti gli altri
paesi capitalisti.
La ripresa economica, che era fra gli obiettivi fondamentali
del Presidente, fu in buona parte attuata.
Il pieno impiego della manodopera non fu però raggiunto se
non col riarmo, che non apparteneva alla logica propria del progetto rooseveltiano.
La ridistribuzione dei redditi, che era nei programmi di
Roosevelt, fu effettivamente conseguita in misura notevole.
Il New Deal, infine, allargò e tutelò le libertà sindacali e
consolidò le libertà politiche, tanto che gli Stati Uniti divennero il rifugio
di molti intellettuali scacciati dalle loro patrie dalla persecuzione nazista e
fascista: citeremo, fra i grandissimi, Albert Einstein, Thomas Mann, Sigmund
Freud, Enrico Fermi. Quest'ultimo diede contributi decisivi agli studi di
fisica atomica, nei quali gli Stati Uniti erano all'avanguardia.
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