giovedì 23 aprile 2015

La crisi del 1929. Materiali per tesine a cura di Claudio Di Scalzo





Gli anni ruggenti: la crescita della produzione e dei consumi

Tra il 1922 e il 1928 gli Stati Uniti conobbero una crescita economica senza precedenti nella loro storia. La produzione industriale salì del 64% (contro il 12% del decennio precedente).
Non si trattò, tuttavia solo di un balzo in avanti quantitativo, ma di una trasformazione qualitativa dovuta al diffondersi della seconda rivoluzione industriale: ciò significò produzione di massa in tutti i settori, da quello automobilistico a quello tessile, alimentare, ecc. Per assorbire questa produzione di massa occorreva creare dei consumatori di massa, ossia occorreva che tutti i cittadini acquistassero i beni prodotti. A dare un notevole impulso in questa direzione provvidero in particolare tre elementi:
1) la diffusione delle innovative tecniche pubblicitarie;
2) il successo delle nuove forme di distribuzione, tra cui soprattutto i grandi magazzini;
3) la possibilità di pagamenti rateali, che rendevano l'acquisto dei prodotti accessibile anche alle famiglie meno abbienti.
L'impressione di consumi accessibili a tutti e di una diffusione del benessere apparentemente senza fine diffondeva entusiasmo nella nazione. Gli Stati Uniti desideravano dimenticare i sacrifici della guerra. Volevano distrazioni e divertimenti: non a caso trionfarono il jazz ed i night club. Questi anni sono passati alla storia come «i ruggenti anni Venti».
Dopo la guerra gli Stati Uniti erano diventati la prima potenza mondiale ed avevano raggiunto livelli di ricchezza molto più alti dell'Europa. Crebbe così tra i cittadini, posti in questa situazione di privilegio, il rifiuto di un intervento politico a favore dell'Europa e dell'ordine internazionale.
Un nuovo impegno americano avrebbe potuto portare altre guerre ed altri sacrifici, minacciando il benessere raggiunto dalla nazione.


La presidenza

Il presidente Wilson aveva propo¬sto i suoi 14 punti, che sonavano come un manifesto di libertà, di democrazia e di autonomia per tutti i popoli, sicché al tavolo della pace egli era apparso l'unico uomo dai vasti orizzonti fra i molti di-plomatici che continuavano le loro anguste manovre.
Ben presto però il liberismo democratico del Wilson, che implicava l'egemonia mondiale degli Stati Uniti, fu ripudiato dal senato e da gran parte dell'opinione pubblica americana come troppo pericoloso: pericolosa fu considerata soprattutto l'adesione alla Società delle Nazioni, che sembrava invischiare gli Stati Uniti in controversie europee del tutto estranee ai loro interessi.
Così non solo Wilson fu sconfessato e prevalsero le correnti isolazionistiche, che volevano una politica di disimpegno in Europa e di impegno esclusivo nell'area del Pacifico secondo prospettive e valutazioni di corto respiro.
Si diffuse, in quegli anni, il pericoloso mito che contrapponeva la «virtuosa America» alla «immorale Europa» e in esso fermentarono i sentimenti e i risentimenti più contraddittori.
Il repubblicano Warren Harding vinse le elezioni presidenziali del 1920 con un programma che raccoglieva ed amplificava queste istanze.
Il Senato si era già rifiutato di ratificare il Trattato di Versailles, e gli Stati Uniti non erano entrati a far parte della Società delle Nazioni promossa da Wilson. Con la vittoria repubblicana si affermò un orientamento isolazionista secondo cui il paese doveva badare esclusivamente alle questioni di politica interna, o al massimo curare i propri interessi nell'area del Pacifico.


II boom della Borsa

II prezzo delle azioni delle società quotate in Borsa tendenzialmente cresce quanto più sono ottimistiche le previsioni dei profitti e quanto più basso è il tasso di interesse.
Nel corso degli anni Venti, il numero e il prezzo dei titoli trattati negli Stati Uniti crebbero ad una velocità impressionante.
II miraggio di guadagni facili e rapidi fece diventare l'investimento in Borsa un fenomeno di massa. I piccoli risparmiatori agivano ormai in base a principi puramente speculativi: acquistavano le azioni per rivenderle poco dopo incassando la differenza, e non erano interessati ad investimenti su tempi lunghi. Acquistare le azioni, d'altronde, era assai poco impegnativo: il compratore pagava solo una parte dei titoli e prendeva il resto a prestito, dando in garanzia le azioni stesse. Con il guadagno realizzato in breve tempo, contava di rendere il denaro riuscendo comunque a racimolare un discreto profitto.


Segnali di crisi

Se si fosse osservata con attenzione la situazione reale dell'economia, difficilmente si sarebbe caduti nell'illusione di una crescita infinita. È vero che un numero sempre più consistente di consumatori aveva accesso a beni che fino a poco tempo prima erano considerati di lusso, ma continuavano ad esistere ampie fasce sociali in condizioni di povertà e sofferenza. Nell'agricoltura, per esempio, milioni di agricoltori dell'Est si dovevano confrontare con un calo inarrestabile dei prezzi. Anche i salari degli operai erano cresciuti ad un ritmo molto più blando dei profitti e della produzione. Insomma, molti segnali avrebbero dovuto far temere una crisi di sovrapproduzione per l'economia americana, ma nessuno se ne preoccupò.


Il «giovedì nero»

La produzione industriale, che in alcuni settori aveva subito una battuta d'arresto già nel 1927, ebbe nell'estate del 1929 un rallentamento generalizzato. Eppure i titoli continuavano a salire. Il loro valore non rispecchiava più lo stato economico delle aziende: era solo il frutto di un intenso movimento speculativo. L’euforia speculativa della Borsa di New York si incrinò improvvisamente nell'autunno del 1929. Il timore che le quotazioni azionarie gonfiate fossero destinate ad un calo imminente spinse molti operatori a liquidare i propri titoli. Il panico si diffuse sul mercato: il 24 ottobre, il «giovedì nero», furono ceduti 13 milioni di azioni, il 29 oltre 16 milioni. Il valore delle azioni, di cui tutti ormai cercavano di liberarsi, crollò in breve tempo, con un ribasso che pareva inarrestabile. Molte fortune vennero polverizzate nell'arco di pochi giorni, con conseguenze catastrofiche sul piano individuale.


Il crollo dell'economia

La crisi borsistica produsse una serie di effetti a catena:
- I risparmiatori che avevano acquistato a credito i pacchetti azionari, confidando nelle opportunità offerte dal gioco speculativo, non poterono più far fronte agli impegni.
- Gli agenti di borsa, a loro volta, si erano indebitati con le banche, e dovettero denunciare la propria insolvibilità.
- Molte banche dovettero chiudere scatenando il panico tra i risparmiatori.
- I correntisti, temendo l'azzeramento dei propri depositi, si affrettarono a ritirarli, riducendo così ancor più la liquidità a disposizione degli istituti di credito. Questi d'altronde, in previsione di tempi difficili, tentavano di trattenere le proprie riserve e concedevano prestiti solo in casi eccezionali.
Il risultato fu una gigantesca diminuzione della liquidità con una serie di graviconseguenze sul piano dell'economia reale.
- Le aziende, non potendo più accedere al credito per gli investimenti, riducevano la produzione, tagliavano i salari e licenziavano. Il crollo della domanda complessiva che ne conseguì determinò un'ulteriore contrazione della produzione industriale.


Le scelte degli Stati Uniti rispetto al sistema internazionale

Gli studiosi concordano ormai nel segnalare le incertezze della politica finanziaria americana tra le cause del prolungarsi della crisi.
La Federal Reserve Bank  (l'equivalente statunitense della Banca Centrale Europea) avrebbe dovuto abbassare drasticamente il tasso di interesse. In alternativa, le autorità monetarie avrebbero potuto suggerire di abbandonare la parità con l'oro, lasciando così che il dollaro si svalutasse. In questo modo si sarebbero raggiunti due risultati:
(* diminuendo il valore del denaro, si sarebbe favorito l'aumento della circolazione monetaria, e dunque il rilancio dei crediti, degli investimenti e dell'economia in generale)
- il calo del dollaro, aumentando il potere d'acquisto delle valute estere, avrebbe avvantaggiato le esportazioni americane. Si sarebbe così ridato ossigeno ad un mercato strozzato dal progressivo ribasso della domanda.
II presidente repubblicano Herbert Hoover rifiutò di sganciare il dollaro dalla parità con l'oro, per timore di un'impennata inflattiva e di un aumento del deficit statale. Contemporaneamente, il governo approvò (1930) un provvedimento rigidamente protezionista, nonostante l'opposizione di molti economisti statunitensi.
Gli Stati Uniti rinunciarono così a qualsiasi ruolo di regolazione del sistema economico internazionale, preoccupandosi unicamente di difendere la loro economia. Tale politica sul medio periodo si rivelò miope.


Il dopo crisi in Europa

Gran Bretagna, Francia e Italia
- Nel settembre 1931, la Gran Bretagna decise di abbandonare il gold standard, cioè il rapporto di convertiblità diretta fra la sterlina e l'oro, e di svalutare la propria moneta per rendere le proprie merci nuovamente competitive. L'anno successivo, inoltre, abbandonando la secolare tradizione legata al liberismo, la Gran Bretagna creò un sistema di «preferenze imperiali» che favoriva i prodotti inglesi sui mercati coloniali del Commonwealth.
- La Francia, invece, scelse di difendere la convertibilità della valuta nazionale in oro, essenzialmente per questioni di prestigio. Fu adottata dunque una linea decisamente deflazionistica, che penalizzerà le esportazioni francesi e ritarderà la ripresa economica fino al 1937.
- In Italia la crisi del 1929 segnò un'accentuazione del protezionismo e dell'intervento dello Stato nell'economia: nella sostanza accelerò il passaggio alla politica autarchica che il fascismo varò nel 1934.


Il new deal

Il crack di borsa e la crisi economica squalificarono di fronte all'opinione pubblica americana quegli stessi ambienti capitalistici e finanziari che negli anni del boom erano stati considerati esemplari per competenza, onestà, spirito di iniziativa; e l'ondata di sfiducia si abbatté anche sul Partito repubblicano che di quegli ambienti era il più diretto rappresentante. Pertanto, nelle elezioni del 1932 il candidato re¬pubblicano riusci nettamente sconfitto dal candidato democratico Franklin Delano Roosevelt, sostenuto da un ampio schieramento di forze nel quale i lavoratori erano largamente rappresentati.
Il New Deal (Nuovo Patto) che Roosevelt proponeva agli Americani non si ispirava a una precisa dot¬trina economico-politica. Punti fermi del programma erano la deci¬sione di affrontare la crisi mediante un massiccio intervento della mano pubblica e l'impegno a dirigere le attività economiche e a mediare i contrasti di classe in modo tale da dimostrare la perfetta compatibilità fra sistema capitalistico e regime democratico.
Coll'aiuto di un trust di cervelli (Brain Trust), ossia di un gruppo di collaboratori competenti e progressisti, nei primi mesi della sua presidenza il Roosevelt assoggettò il paese alla terapia intensiva di una serie di provvedimenti, ispirati genericamente alle idee di Keynes piuttosto che alla tradizione liberista ortodossa.
- Per ridurre la disoccupazione, il governo, sia direttamente sia mediante prestiti concessi ai singoli Stati dell'Unione, promosse una vasta massa di lavori pubblici (costruzione di case, strade, ponti eccetera).
- Sussidi vennero concessi agli agricoltori perché diminuissero la produzione o addirittura perché distruggessero una parte dei raccolti, in modo da evitare la caduta dei prezzi: questi ultimi provvedimenti determinarono un rapido e notevole incremento dei redditi agricoli, facilitando anche la ripresa dell'industria che ritrovò nelle campagne un più vivace mercato d'assorbimento dei suoi prodotti.
- Le aziende dovevano impegnarsi a corrispondere ai lavoratori un minimo salariale e a non pretendere da loro più di un nu¬mero pattuito di ore lavorative alla settimana.
- Per reperire i fondi necessari alla realizzazione della  nuova politica, quasi per intero fondata sull'espansione massiccia della spesa statale,
si ricorse all'aumento del debito pubblico, che infatti fra il 1932 e il 1940 risultò più che raddoppiato; si accettò il deficit del bilancio statale, superando il pregiudizio del pareggio ad ogni costo
- Si stamparono infine più dollari di quanti le riserve auree avrebbero consentito, ossia si abbandonò la base aurea e si provocò un'inflazione controllata che, comportando una svalutazione del dollaro, aveva fra l'altro lo scopo di facilitare le esportazioni, specie di derrate agricole.
Nel 1935 furono tamponate le falle più pericolose della crisi e nel 1938 la politica specificamente ispirata ai principi del New Deal poté considerarsi conclusa: infatti le minacce che il nazismo addensava sull'Europa e che l'imperialismo nipponico, concorrente pericoloso degli Stati Uniti, faceva gravare sull'Estremo Oriente, indussero il governo a moltiplicare le spese per gli armamenti, e queste furono di tale entità da bastare da sole a far superare la crisi: tant'è vero che la disoccupazione spari rapidamente. Nella nuova situazione il Roosevelt fu rieletto alla presidenza una terza volta nel 1940 e una quarta volta nel 1944, sia pure con margini di maggioranza decrescenti, cosicché egli tenne la presidenza degli Stati Uniti sin quasi al termine della seconda guerra mondiale: mori infatti il 12 aprile del 1945, alla vigilia della vittoria sul nazismo.

Il New Deal seppellì per sempre le tesi del liberismo puro e introdusse irreversibilmente la pratica dello Stato assistenziale (Welfare State) non solo in America, ma anche, in misura diversa, in tutti gli altri paesi capitalisti.
La ripresa economica, che era fra gli obiettivi fondamentali del Presidente, fu in buona parte attuata.
Il pieno impiego della manodopera non fu però raggiunto se non col riarmo, che non apparteneva alla logica propria del progetto rooseveltiano.
La ridistribuzione dei redditi, che era nei programmi di Roosevelt, fu effettivamente conseguita in misura notevole.

Il New Deal, infine, allargò e tutelò le libertà sindacali e consolidò le libertà politiche, tanto che gli Stati Uniti divennero il rifugio di molti intellettuali scacciati dalle loro patrie dalla persecuzione nazista e fascista: citeremo, fra i grandissimi, Albert Einstein, Thomas Mann, Sigmund Freud, Enrico Fermi. Quest'ultimo diede contributi decisivi agli studi di fisica atomica, nei quali gli Stati Uniti erano all'avanguardia.

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