La Resistenza
a Fraciscio, Valchiavenna (Storia)
Per la sua localizzazione, nei
pressi del territorio svizzero, anche il piccolo paese di Fraciscio ha avuto
una notevole importanza per le organizzazioni partigiane nate durante la
seconda guerra mondiale. La Ca’ Bardassa, così come altre abitazioni in paese,
in quel periodo è stata abitata da uomini impegnati nella vita agricola e
nell’allevamento, che, richiamati al fronte, hanno scelto di schierarsi dalla
parte dei non-combattenti per le loro idee anti-fasciste.
Le abitazioni rurali inoltre, per
la loro particolare conformazione e struttura (si notano la presenza di diversi
ingressi secondari, di piccoli locali adibiti a stalla e porcili…) sono
risultate particolarmente indicate come magazzini dei partigiani ed anche come
nascondigli sicuri e vicini al Passo che conduce in Svizzera.
Nei Paesi occupati dai Tedeschi,
dopo un primo momento di abbattimento determinato dalla disfatta e dall’invasione,
si organizzarono i movimenti di resistenza. I partigiani non arretrarono di
fronte a rischi enormi: la tortura, i campi di concentramento o la fucilazione.
Charles de Gaulle dice di loro:
“Hanno scelto liberamente di combattere e di morire senza che alcuna legge
umana ve li avesse costretti”.
All’inizio la resistenza fu
spontanea ed individuale. I primi gruppi, non ancora abituati alla lotta
clandestina, vennero ben presto decimati dagli arresti. Poi, grazie all’aiuto
degli alleati, che pure erano diffidenti nei confronti dei movimenti che non
controllavano, si costituirono delle reti di resistenza. Si organizzarono
servizi di informazioni, servizi che preparavano le fughe verso i Paesi non
occupati e ostili alla Germania e all’Italia. Muovendo dalle zone di più
difficile accesso, le montagne e i boschi, i gruppi armati si davano alla
guerriglia e non lasciavano tregua al nemico. Erano i partigiani, combattevano
in Francia, in Jugoslavia, in Grecia, in Polonia, nell’URSS e, più tardi in
Italia.
Il ruolo di Londra fu essenziale
nell’organizzazione della resistenza in tutta l’Europa occidentale. Fu dalla
capitale britannica che il generale francese de Gaulle lanciò il suo appello,
il 18 giugno 1940:
«A tutti i Francesi.
La Francia ha perso una battaglia!
Ma la Francia non ha perso la guerra! Dei governanti occasionali hanno potuto
capitolare, cedendo al panico, dimenticando l’onore, lasciando il Paese in
balia della schiavitù. Ciò nonostante, nulla è perduto!
Nulla è perduto, perché questa
guerra è una guerra mondiale. Nel mondo libero immense forze non hanno ancora
dato. Un giorno queste forze schiacceranno il nemico. Occorre che la Francia,
quel giorno, sia presente alla vittoria. Allora, essa ritroverà la sua libertà
e la sua grandezza. Questo è il mio scopo, il mio unico scopo!
Ecco perché invito tutti i
Francesi, dovunque essi si trovino, a unirsi a me nell’azione, nel sacrificio e
nella speranza. La nostra patria è in pericolo di vita. Lottiamo tutti per
salvarla!
Viva la Francia!»
Da Londra veniva così organizzata
la resistenza francese e, nello stesso modo, sotto differenti schieramenti si
avviavano i Movimenti di Liberazione nazionale in Jugoslavia, in Grecia ed in
Polonia.
L’Italia, per la sua particolare
condizione di alleanza, riuscì ad organizzare la resistenza solo in un secondo
tempo.
Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia
si trovò divisa in due.
Nel sud, occupato dagli alleati,
risiedeva il governo monarchico che dichiarò guerra alla Germania. Nel resto
dell’Italia, occupata dai Tedeschi, i nazisti istituirono una repubblica
fascista guidata da Mussolini (la Repubblica di Salò), ma strettamente sotto il
loro controllo. Mentre gli eserciti alleati iniziarono una lenta risalita dal
sud, nel nord si sviluppò la resistenza armata al nazifascismo.
La guerra civile coinvolse gran
parte della popolazione italiana. I partigiani, che combattevano in
collaborazione con le truppe alleate, costituirono un esercito di circa
duecentomila uomini.
A capo della resistenza erano i
partiti antifascisti (partito democristiano,partito comunista, partito
socialista, partito d’azione e partito liberale) che si erano ricostituiti dopo
l’8 settembre e avevano formato un Comitato di liberazione nazionale (CLN).
L’ideale che accomunava la maggior parte dei partigiani era l’aspirazione a una
Italia radicalmente rinnovata. Per questo motivo l’operato del CLN venne
strettamente controllato dal governo del sud. Infatti, sia la monarchia che gli
alleati temevano che la lotta partigiana del nord potesse portare a una
rivoluzione sociale e all’instaurazione di uno stato democratico che rompesse
con la tradizione e la monarchia.
La testimonianza di Flauro
Bossini (cugino acquisito di mia nonna materna) aiuta a comprendere
l’organizzazione generale delle compagnie partigiane durante gli anni dal 1943
al 1945.
«L’8 settembre 1943 mi trovavo a
Thiene in qualità di ufficiale di prima nomina con un battaglione di reclute
per il C.A.R. Il maggiore alla mensa manifestò che avrebbe consegnato il
battaglione ai tedeschi. Io e il sottotenente Boccuni ci opponemmo insieme agli
altri ufficiali e arrestammo il maggiore relegandolo nella sua stanza. Si
decise di mandare tutti i soldati in licenza e si chiese alla popolazione di
vestire in borghese i soldati affinché potessero eludere la vigilanza tedesca.
Quando giunsero a Thiene i tedeschi, furono emessi dei bandi di cattura per me
e Boccuni, avendoci denunciati il Maggiore del Battaglione. Noi che eravamo
rimasti in loco per studiare l’evolversi della situazione, fummo avvisati dal
C.N.L. di Thiene di abbandonare il paese e ci informò della località dove
avremmo potuto salire su di un treno facilmente. Giunti a Vicenza io e Boccuni
ci separammo avendo destinazioni diverse. Quivi venni intercettato da una
pattuglia tedesca, dalla quale potei miracolosamente scappare per aiuto dei
ferrovieri. Più tardi il Capo-Stazione mi diede la possibilità di salire su di
un treno merci che andava a Bergamo. Quivi fatalmente non potei fermarmi,
perché proprio all’uscita della stazione incontrai il capitano Resini della
Milizia Repubblichina, che mi conosceva per aver partecipato insieme in
gioventù ai campeggi della G.I.L.
Questi infatti mi propose di
presentarmi alla Milizia dove avrei potuto ottenere un aumento di grado, in
quanto necessitavano di ufficiali. Io temporeggiai adducendo la scusa che non
vedevo mia madre da due anni e che gli avrei dato risposta entro pochi giorni.
Giunto a casa, per consiglio di mia madre, andai a trovare il dr. Leidi, che
faceva parte del C.N.L. di Bg. Questi mi indirizzò a Santa Brigida dove il rag.
Ettore Tulli e il sig. Rossi stavano costituendo un gruppo di partigiani. Li raggiunsi
il giorno dopo e con me arrivarono altri soldati fuggiti ai rastrellamenti dei
fascisti e dei tedeschi. Arrivarono poi armi e munizioni e dovetti istruire i
componenti del gruppo sopra il maneggio delle stesse e per aver
dettagliatamente spiegato il funzionamento e uso delle bombe a mano, venni
soprannominato tenente Bomba, nome che mi rimase per sempre. Realizzammo varie
azioni dinamitarie in Valtellina e a Mandello. In una Azione di sabotaggio un
gruppo della nostra brigata fu intercettato dai fascisti e nella sparatoria che
ne seguì rimasero feriti Gian Franco Agazzi mio compagno di scuola e l’avv.
Eugenio Bruni, che poi furono ricoverati a Bergamo. Io e mio fratello Stelio
con il resto del gruppo decidemmo di spostarci perché dubitavamo di essere stati
scoperti e sicuramente ricercati. Arrivati al nuovo alloggiamento, assicurato
l’aiuto del Parroco del paese vicino per i vettovagliamento di quelli che
restavano, io mio fratello e un milanese il cui nome di battaglia era Mario,
inviato dal C.N.L. di Milano per farsi carico del Gruppo, scendemmo a Bergamo
per prendere contatti con il rag. Tulli e il C.N.L. di Bergamo per ristabilire
di nuovo l’approvigionamento. Arrivati a Bergamo io e il milanese ci separammo
da mio fratello per ascendere a S. Vigilio alla Villa del rag. Tulli che da più
di un mese collaborava con il C.N.L. in città. Giunti alla casa del Tulli,
nonostante le precauzioni previste con la parola d’ordine per l’ammissione alla
villa avemmo la sorpresa di venire arrestati da un soldato tedesco che si era
celato dietro il domestico della casa. Infatti la casa del rag. Tulli era stata
requisita dai tedeschi che avevano avuto una soffiata da un certo Cesarino che
era un nostro compagno di gruppo. Il soldato tedesco ci fece passare in una saletta
da dove telefonò. Ne approfittai per mangiarmi un foglio del notes che avevo
col nome dei miei compagni e nascosi il notes nell’imbottitura del divano dove
eravamo seduti. Più tardi giunsero il Resmini e altri quattro fascisti in
borghese che ci portarono nella veranda e ci chiesero dove erano i nostri
compagni. Al non ricevere risposta ci presero a calci e a pugni durante un
lungo periodo, fintanto che, caduti io e l’altro a terra, il Resmini mi saltò a
piedi pari sulla testa; credo che svenni perché mi risvegliai in macchina
mentre ci portavano a S. Agata. Quivi fummo incarcerati in celle diverse, a
disposizione dei tedeschi fino al processo che avvenne nell’aprile del 1944.
durante l’isolamento i tedeschi mi fecero due interrogatori, uno chiedendomi una
confessione scritta che naturalmente inventai solo per giustificare la mia
presenza in casa Tulli, anche se non fu creduta, e l’atro in una villa in Viale
Vittorio Emanuele dove l’interrogatorio fu coercitivo con torture alle unghie e
alla schiena senza però ottenere nessuna confessione né ratifica di ciò che
volevano che io dichiarassi, dimostrandomi che conoscevano tutto di me e del
gruppo.
In quel momento pensai che Tulli
non avesse resistito e avesse parlato, ma non fu così, perché ci fu un
traditore nel gruppo che seppi poi trattarsi di Cesarino (naturalmente nome di
battaglia) (il vero nome non lo seppi mai).
Il tribunale militare tedesco
funzionante nella scuola all’aperto di Colle Aperto, oggi Scuola Bartolomeo
Tasso, ci processò nello stesso giorno (me e Tulli) emettendo la sentenza di
condanna a morte per aiuto ai partigiani. Dopo trentadue giorni in attesa
dell’esecuzione della condanna, mia madre e mia nonna mi dissero che ero
graziato e che la Madonna l’aveva detto a mia nonna mentre pregava. Finsi di
crederci, ma ne dubitavo parecchio, invece fu un caso di telepatia, infatti due
giorni dopo i tedeschi ci comunicarono la commutazione della pena di morte in
dodici anni di lavori forzati per il Tulli e otto per me, da trascorrersi nei
Zucht-haus tedeschi.
Il giorno dopo ci trasferirono
incatenati uno all’altro a Verona, mia mamma ci accompagnò fino a Brescia;
oltre non le permisero. A Verona ci misero nel forte S. Leonardo dove partivano
settimanalmente contingenti per la Germania. Dopo una quindicina di giorni
toccò anche a noie ci condussero sempre incatenati a Monaco dove, dopo aver
subito un bombardamento rinchiusi in una dipendenza della stazione, ci
portarono al carcere modello di Monaco, dove ci fermammo circa un mese. Ci
rinchiusero in cella da soli separatamente; di notte bisognava spogliarsi nudi
e di giorno si lavorava in cella in cose manuali, e se non si produceva, non ci
somministravano il cibo, già poco e cattivo. Ci trasportarono poi a Bernau un
Zuchthaus enorme dove quasi 5000 prigionieri di tutte le nazionalità e razze
lavoravano nei campi e nella palude a prelevare torba per il combustibile. Così
fummo separati io e Tulli, Saba, Benigni, Brumana, Rivellini, l’ing. Premoli ed
altri che non ricordo. Eravamo 70 fra tutti nella baracca. Fummo trattati come
animali. Soffrimmo fame, freddo, frustate e bastonate, insulti e minacce di
eliminazione ad ogni momento; ma resistemmo. Dopo un paio di mesi, quando già i
bombardamenti si facevano giornalieri, ci trasferirono a Keisheim, un enorme edificio
capace di ospitare più di 5000 detenuti. In questa località, pur sempre
lavorando, ci separarono di nuovo. Io fui inviato giornalmente Donau wort in
una fabbrica di granate da cannoni di vari calibri da 45 mm. fino a 450 mm. con
forni per mettere in incandescenza l’acciaio per poterlo trafilare e stampare
nelle presse idrauliche. La temperatura in fabbrica era sempre superiore ai 50
gradi e la fabbrica ci provvedeva di un piatto di minestra ogni 4 ore in un
riposo di 15 minuti. Una notte fu bombardata anche la fabbrica e da allora ci
tennero in Keisheim lavorando nell’immagazzinamento di patate e crauti. Qui
conobbi in lavanderia Roberto Pontiggia pure Bergamasco. Il 25 aprile giunse la
liberazione. Gli Americani arrivarono preceduti da una gragnuola di colpi di
cannone, due dei quali entrarono nel carcere e fecero parecchi morti e feriti.
Noi che eravamo in una camerata colpita ci trasportarono in un piano terra nel
reparto di carpenteria e lì fu dove poco tempo dopo ci aprì la porta Pontiggia
ed un sergente americano che innalzammo in trionfo. Di seguito, come furono
aperte tutte le camerate dei detenuti avvenne l’invasione del carcere cercando
vestiario e alimenti.
Due giorni dopo ci rinchiusero di
nuovo e di fronte al nostro reclamo ci promisero un certificato di prigionieri
politici per chi lo fosse e la libertà, mentre gli altri fossero rimasti. Così
fu che dopo pochi giorni molti dei prigionieri politici documentati, decisero
di incamminarsi a piedi verso casa e fu loro concesso, mentre noi, in pochi,
rimanemmo perché nel nostro stato non avremmo potuto resistere alla fatica. Al
rimanere in pochi politici in carcere, la domenica successiva, ci portarono a
Garmisch in camion, dove si concentravano tutti i prigionieri italiani
racimolati in Germania per il rimpatrio. Da Garmisch in convoglio ci portarono
a Bolzano dove ci aspettavano tutti i rappresentanti di ogni paese e città
d’Italia con veicoli per riportarci a casa. Un sacerdote portava un grande
cartello con la scritta Bergamo. Lo raggiungemmo in un gruppo numeroso ed egli
ci propose di fermarci a Bolzano a mangiare e a dormire e partire l’indomani
per Bergamo. Noi ci opponemmo e lo convincemmo a partire la stessa sera.
Viaggiammo tutta la notte con un camion e rimorchio giungendo a Bergamo verso
le sei del Mattino.
Finalmente potei abbracciare mia
madre e purtroppo venire a sapere che mio fratello Stelio era stato ritrovato a
Piacenza dove era stato abbandonato dai tedeschi che lo piantonavano in
Ospedale perché da tre mesi in stato comatoso, a seguito delle loro sevizie».
Anche in Valchiavenna, tra il ‘43
ed il ’45, sono state organizzate importanti associazioni partigiane. In molti
non hanno risposto alla chiamata alle armi per le annate dal ‘14 al ’26,
infatti sui 1087 richiamati, sono circa 500 coloro che si presentano al fronte.
Il 18 gennaio 1944 la pubblica
sicurezza rinviene a Samolaco dei manifestini sovversivi: è la prima volta che
si scoprono documenti sovversivi in questa zona, segno che le bande partigiane
stanno iniziando ad organizzarsi. Successivamente anche a Chiavenna ed a Prata
Camportaccio si ritrovano per le vie principali volantini del Partito d’Azione
milanese. Il fuggiasco Leonello opera in Valchiavenna per costituire il
Comitato di Liberazione nazionale e una formazione partigiana sui monti sopra
Chiavenna. Si costituisce il gruppo di Giustizia e Libertà sovvenzionato dal
gruppo Edison di Milano e guidato da alcuni importanti uomini della zona.
Un’importante figura alla guida
dei partigiani valchiavennaschi fu Tiberio, che si mise a capo della squadra
partigiana e cercò di mantenere rapporti adeguati anche con il CLN della zona e
con i garibaldini.
Decisiva per la liberazione della
Valchiavenna dal potere nazifascista fu la battaglia dell’Angeloga; dal 10
aprile del ‘45 il comando del gruppo partigiano venne trasferito da
Campodolcino all’Angeloga per evitare i rastrellamenti fascisti e per
avvicinarsi e proteggere la postazione di lancio aereo posto in Val di Lei. Tra
il 25 ed il 26 aprile una squadra fascista giunge all’alpeggio ed attacca di
sorpresa i partigiani, essi organizzano una rapida difesa e riescono a
rifugiarsi in Val di Lei perdendo soltanto due dei loro uomini.
Il giorno successivo a Chiavenna
viene organizzato il piano di liberazione della città, le notizie positive
provenienti dal resto d’Italia favoriscono le trattative che portano alla resa
delle armi da parte dei fascisti, per opera di don Pietro Bormetti, parroco di
Chiavenna.
Dopo due anni di guerra,
l’avanzata degli alleati e la lotta partigiana portarono alla liberazione.
Mentre gli alleati entravano nella valle del Po, il CLNAI (Comitato di
liberazione nazionale alta Italia) ordinò ai partigiani di liberare le città e
assunse i poteri di governo provvisorio. Era il 25 aprile 1945. Tre giorni
dopo, Mussolini venne arrestato dall’esercito partigiano mentre cercava di
fuggire e giustiziato.
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