mercoledì 22 aprile 2015

L'Età giolittiana e il Decollo industriale italiano. Pascoli e "La grande proletaria s'è mossa". materiali per tesine a cura di Claudio Di Scalzo



L'età giolittiana e il decollo industriale. Pascoli e La Grande Proletaria s'è mossa.
A cura di Claudio Di Scalzo


Il decollo industriale italiano

Nei primi anni del nuovo secolo, a quarant’anni di distanza dalla realizzazione dell’Unità l’Italia stava vivendo la stagione del proprio decollo industriale: «Nel periodo 1896-1908», ha scritto lo storico Giorgio Canderolo, «si iniziò un processo irreversibile di trasformazione strutturale che doveva portare l’industria a divenire nel corso di pochi decenni il principale ramo dell’attività economica nazionale». La crescita riguardò in primo luogo i comparti tradizionali del nostro sistema industriale: il settore tessile, il settore agro-alimentare (che fornivano da soli circa il 60% della ricchezza netta prodotta dall’industria italiana) e, in particolare, l’industria saccarifera, grazie anche alla forte protezione della tariffa doganale introdotta dalla sinistra nel 1887. L’aspetto più importante del decollo economico, tuttavia, fu lo sviluppo di nuovi settori di base, in primo luogo l’industria siderurgica che, protetta dalla tariffa doganale, si ristrutturò e rinnovò tecnologicamente, mettendosi così in condizione di produrre laminati d’acciaio a ciclo integrale (senza raffreddamento del prodotto). Oltre all’acciaieria Terni, un altro gran complesso siderurgico sorse a Bagnoli, presso Napoli.
La formazione di un’industria siderurgica nazionale ebbe un’importanza cruciale nell’industrializzazione italiana, benché questo settore producesse ancora con costi troppo elevati perché reggano la concorrenza straniera e avesse quindi necessità di essere sostenuto dallo stato, sia con la tariffa doganale sia con le commesse militari, navali e ferroviarie. Importanza altrettanto rilevante ebbe, in un paese povero di risorse energetiche come l’Italia, lo sviluppo dell’industria idroelettrica, grazie a cospicui investimenti nella costruzione di grandi centrali idroelettriche (come quelle si Tivoli, 1892, e Paterno d’Adda, 1898) e nella distribuzione dell’energia (società Edison).

Grande vitalità, nonostante la bassa protezione doganale, dimostrò inoltre l’industria meccanica, che si sviluppò tra il 1896 e il 1910 al ritmo del 10 % annuo, in particolare raddoppiando la produzione industriale in meno di otto anni. I prodotti sui quali principalmente si reggeva questo nuovo settore dell’industria italiana erano i mezzi di trasporto (come locomotive, vagoni e tramway delle città), i macchinari pesanti (turbine per navi, caldaie, impianti a vapore), le macchine utensili di precisione, le macchine per cucire e le nuove macchine per scrivere (nel 1908 nacque la Olivetti).
Iniziò a svilupparsi anche un settore destinato a grande fortuna nel nostro paese, quello dell’automobile: in questo campo non esistevano ancora grandi imprese internazionali consolidate (ricordiamo che all’inizio del secolo l’automobile era ancora un bene di lusso) e ciò favorì l’iniziativa di intraprendenti imprenditori, come Giovanni Agnelli che nel 1899 fondò la FIAT, la Fabbrica Italiana Automobili Torino. Nel 1901 al Fiat, che impiegava 150 dipendenti, produsse 73 automobili, pari a un quinto di tutte quelle fabbricate in quell’anno in Italia.

Quali condizioni resero possibile questo sviluppo in un paese povero di materie prime e capitali, fattori entrambi necessari per dar vita ad un impianto industriale moderno? Oltre al ruolo giocato dallo Stato, con ilprotezionismo e le commesse pubbliche, grande importanza ebbe il riordino del sistema bancario, il cui dissesto aveva causato gravi turbamenti anche nella vita politica (come lo scandalo della Banca Romana nei primi anni ’90): nel 1893 fu creata la BANCA D’ITALIA, cioè la banca centrale incaricata di regolare l’emissione di carta moneta e il sistema finanziario e creditizio; nacquero inoltre nuovi istituti di credito sul modello della Banca mista, come la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano (con capitali in gran parte tedeschi). Ricordiamo che la “banca mista” deve il suo nome alla duplice funzione che svolge: raccoglie il risparmio dei cittadini e lo investe finanziano società commerciali e industriali, talora fondate dalla banca stessa. Questi istituti di credito assicurano i capitali necessari a finanziare investimenti costosi (come centrali elettriche), prelevandoli in buona misura nel circuito finanziari svizzero e tedesco (segno che investire in Italia veniva considerato un buon affare dai banchieri d’oltralpe). Non bisogna poi trascurare le entrate del turismo e le rimesse degli emigranti, cioè i risparmi inviati in patria dai lavoratori italiani che emigravano, nel primo decennio del Novecento, al ritmo di mezzo milione l’anno. Le rimesse portavano ogni anno nel paese valuta per 300-500 milioni e furono uno dei fattori che permisero all’Italia di equilibrare la bilancia dei pagamenti in una fase in cui erano necessarie ingenti importazioni di materie prime per sostenere lo sviluppo dell’industrializzazione.

Tra il 1886 e il 1911 il reddito nazionale italiano aumentò del 50% in termini reali, indice di una decisa crescita economica. Questo sviluppo, tuttavia, presentava al suo interno gravi contraddizioni e squilibri, il più grave dei quali fu l’accrescersi di quel dualismo economico fra nord e sud del paese di cui abbiamo già avuto modo di considerare le radici storiche. Anche per l’agricoltura italiana la fase a cavallo dei due secoli fu caratterizzata dalla crescita, seppure inferiore a quella dell’industria (2% di incremento medio annuo nel periodo 1897-1913, contro l’oltre 6% dell’industria). A favore della ripresa giocarono la fine della crisi agraria degli anni settanta-ottanta dell’Ottocento, considerata dall’allineamento dei prezzi agricoli europei e americani, e la costante tendenza al rialzo dei prezzi. Peraltro,questi dati positivi vanno ascritti per la maggior parte alla pianura padana, dove, come sappiamo, la crisi agraria e il protezionismo avevano favorito ingenti investimenti, soprattutto nella meccanizzazione e nell’uso di fertilizzanti chimici. Stazionaria rimase invece la situazione nel Mezzogiorno, mentre l’agricoltura mezzadrile dell’Italia centrale mostrava segni più gravi di ritardo. Anche nel settore agricolo, dunque, gli squilibri territoriali si accentuarono. Già al momento dell’Unità l’economia meridionale era sensibilmente in ritardo rispetto a quella settentrionale, ma questa distanza aumentò ulteriormente nei cinquant’anni successivi, per effetti di scelte economiche (come il protezionismo) che privilegiavano lo sviluppo del settentrione. L’Italia si sviluppava “a forbice”: a fronte della crescita del nord, e particolarmente del cosiddetto “triangolo industriale” (Torino-Milano-Genova), già da tempo inserito nel circuito dell’economia europea, le regioni del Mezzogiorno, pur conoscendo anch’esse una certa crescita, perdevano sempre più terreno. Laquestione meridionale divenne così in questi anni uno dei grandi nodi irrisolti nella vita italiana.


Le lotte sociali e la crisi di fine secolo

Strettamente intrecciato con quello del dualismo nord-sud, un altro tema venne a occupare il cento della vita politica nazionale: la questione sociale, cioè il problema delle condizioni di vita delle masse contadine e operaie. Il problema fondamentale per larghi strati della popolazione italiana continuava a essere quello della sopravvivenza, come dimostra l’enorme sviluppo delfenomeno migratorio. Nonostante la crescita economica, gli squilibri territoriali che la caratterizzarono e la contemporanea pressione demografica (la popolazione passò dai 29 milioni del 1887 ai 36 del 1914) determinarono un vero e proprio picco migratorio. Gli emigranti passarono dai circa 5 milioni del periodo 1876-1900, agli 8 milioni del 1901-1913 (di cui oltre 3 milioni verso gli Stati Uniti). Mentre sino alla fine dell’Ottocento si emigrava soprattutto dalle regioni settentrionali (in particolare dalla Liguria e dal Veneto) verso l’America latina, nel nuovo secolo, a seguito del peggioramento delle condizioni di vita, si avviarono migrazioni massicce dall’Italia meridionale verso gli Stati Uniti.
Il problema sociale riguardava innanzitutto il mondo contadino, dato il carattere ancora prevalentemente agricolo dell’economia italiana.
Le condizioni di vita delle campagne italiane dopo l’unità rimasero a lungo pessime, come venne puntualmente rilevato dalle inchieste parlamentari del periodo: fatiscenti le abitazioni, inadeguato il regime alimentare (il pane bianco era un lusso), altissima la mortalità dovuta a tifo, colera, vaiolo, malaria e pellagra (una malattia causata dalla denutrizione).
Le pesanti imposizioni fiscali, la crisi agraria e la scelta protezionistica, i cui costi furono pagati in massima parte dai consumatori, cioè dalle masse popolari, provocarono un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita.
Le reazioni del mondo contadino a questa condizione di grave disagio furono differenziate, così come sempre più eterogeneo diveniva il volto del paesaggio italiano per effetto delle trasformazioni economiche. Nel meridione, l’effetto congiunto della crisi agraria e della sovrappopolazione fu quello di aumentare lo sfruttamento e la precarietà dei lavoratori: «Le piazze meridionali» ha scritto Raffaele Romanelli «si trasformarono in mercati d’uomini che i padroni quotidianamente assoldavano a piacimento e per retribuzioni bassissime». A questi lavoratori non restava che la via delle periodiche rivolte (come il caso dei Fasci siciliani) o quello dell’emigrazione, temporanea e interregionale (per esempio verso il “mercato delle braccia” dell’edilizia) o definitiva.

Nelle compagne padane, invece, dove si ebbe lo sviluppo di un’agricoltura capitalistica, si formò un proletariato agricolo bracciantile che maturò rapidamente una forte solidarietà e coscienza sindacale. Qui, a partire dagli anni ottanta, si registrò un grande sviluppo del movimento organizzato dei contadini, con associazioni, leghe, ricorso sistematico allo sciopero. Protagonisti di queste lotte furono i braccianti emiliani e lombardi, i “risaioli” e le “mondine” piemontesi e bolognesi: lavoratori avventizi, privi di qualunque sicurezza del posto di lavoro,continuamente sottoposti al ricatto dei padroni che trovavano negli immigrati e nei “crumiri” un facile strumento per tenere bassi i salari e contrastare le rivendicazioni sindacali. Obbiettivi delle agitazioni erano l’aumento della paga, il controllo del collocamento e l’imponibile di manodopera (cioè l’adozione di regole, controlla te dagli stessi lavoratori, che vincolassero gli agrari nell’assunzione di braccianti). Nel 1901 nacque la Federterra (Federazione italiana dei lavoratori della terra), una vasta e ramificata organizzazione contadina di ispirazione socialista.

Contemporaneamente, veniva formandosi anche in Italia un proletariato industriale sempre più esteso. Nel 1901 l’industria tessile contava oltre un milione di operai, quella metallurgica e meccanica quasi 300.000, quella alimentare 150.000. Le condizioni di lavoro e di vita di questo proletariato industriale erano simili a quelle che, cinquant’anni più indietro, avevano conosciuto gli operai dei Paesi di prima industrializzazione. Salari bassissimi; nessuna garanzia del posto di lavoro e del salario; multe, trattenute, punizioni, regolamenti di fabbrica vessatori; larga diffusione del lavoro minorile; controlli minuziosi e asfissianti non solo sul lavoro, ma anche sulla vota privata dell’operaio: tutte condizioni che derivavano da una cultura imprenditoriale autoritaria o, nel migliore dei casi, paternalistica, che non ammetteva nessuna autonomia dell’operaio, e da un mercato del lavoro sbilanciato a favore dei padroni, data l’abbondante disponibilità di forza-lavoro. Analogamente a quanto era avvenuto negli altri paesi industrializzati, lo sviluppo del proletariato di fabbrica portò con sé una crescita dell’organizzazione e della coscienza sindacale. Dall’associazionismo mutualistico tipico delle Società di mutuo soccorso, il cui fine era di tipo assistenziale e previdenziale, si passò alsindacalismo organizzato di ispirazione socialista, consapevolmente basato sul conflitto sociale e sulla lotta di classe. Negli anni novanta sorsero in molte città le camere di lavoro, che organizzavano su base territoriale lavoratori di diversi settori (meccanici, tessili, siderurgici ecc.).
Nel 1906 nacque la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), di ispirazione socialista, che con oltre 500.000 iscritti dirigeva la lotta sindacale a livello nazionale. Gli scioperi aumentavano considerevolmente di numero e d’intensità. Gli obbiettivi erano di ordine sindacale – aumenti salariali, riduzione della giornata lavorativa (allora di 12 ore), assistenza in caso di malattia – ma anche di tipo politico: suffragio universale, diritto di sciopero, riconoscimento legale del sindacato, proteste contro le repressioni attuate dalla forza pubblica.
Nei decenni successivi all’Unità il movimento operaio italiano aveva visto prevalere la componente mazziniana, ostile alla lotta di classe, e soprattutto l’anarchismo, che rifiutava la partecipazione alla vita politica dello stato e propugnava cospirazioni e sommosse rivoluzionarie (ne furono organizzate nel 1874 e nel 1877, senza successo). L’anarchismo fu a lungo dominante nell’Emilia-Romagna e nel meridione, raccogliendo aderenti soprattutto nelle campagne, presso i lavoratori a domicilio e nei ceti più poveri delle città. La sua influenza venne progressivamente declinando (senza però scomparire) man mano che il socialismo di ispirazione marxista si affermava presso la classe operaia e una parte della borghesia intellettuale. Lo stesso Andrea Costa (1851-1910), leader del movimento anarchico romagnolo, se ne distaccò nel 1879 e nel1882 venne eletto in parlamento nell’estrema Sinistra: «La rivoluzione» scrisse Costa nella celebre Lettera agli amici di Romagna «è inevitabile, ma l’esperienza ci ha, credo, dimostrato che non è cosa né di un giorno né di un anno. Perciò, aspettando e provocando il suo avvento fatale, cerchiamo qual è il programma generale intorno a cui si raccolgono tutte le forze vive e progressive della generazione nostra».

La nascita nel 1892, a Genova, del Partito dei lavoratori - che due anni più tardi prese definitivamente il nome di Partito socialista italiano - fu un evento di grande importanza non solo per il movimento operaio, ma per l’intera vita politica e sociale italiana. Con esso, infatti, si costituiva in Italia il primo partito moderno di massa e il movimento dei lavoratori entrava a pieno titolo nella lotta politica e parlamentare. Con lo sviluppo del proletariato industriale settentrionale erano nati diversi gruppi di orientamento socialista, che si opponevano agli anarchici propugnando metodi legali di lotta sindacale e politica. Fu da questo insieme di esperienze e di organizzazioni che nacque ilPartito socialista, in cui ebbe un ruolo sin dall’inizio determinante l’avvocato milanese Filippo Turati (1857-1932), assertore di un socialismo di orientamento riformista. Separandosi dalla componente anarchica, il Partito socialista si mosse secondo una linea politica ispirata al modello della socialdemocratica tedesca: partecipazione alle elezioni e lotta per riforme sociali e politiche nella prospettiva della costruzione graduale, senza rotture rivoluzionarie, della società socialista. Nel clima autoritario e repressivo dell’ultimo decennio del secolo, il nuovo partito seppe affermarsi solidamente, contribuendo anche, come vedremo, alla salvaguardia delle libertà democratiche. Esso, però, si radicò soprattutto presso la classe operaia e il bracciantato agricolo settentrionale, mentre ebbe scarsa presa nelle campagne meridionali.

Sottoposto alle tensioni derivanti dall’inasprirsi del conflitto sociale, il sistema politico liberale non seppe far altro, in un primo tempo, che accentuare la linea autoritaria inaugurata da Crispi, sino a giungere, con la cosiddetta crisi di fine secolo, a un passo dal tracollo.
Nel 1897 il Partito socialista aveva ottenuto 135.000 voti e 15 deputati, iniziando a rappresentare una seria minaccia per la classe dirigente più reazionaria. Nella primavera successiva, dopo un’annata di cattivi raccolti, esplosero in tutto il paese nuovi moti spontanei, non organizzati dai socialisti, contro il rincaro dei prezzi del pane: il popolo affamato prese d’assalto i forni, i mulini, i municipi. «La protesta dello stomaco», osservò il repubblicano Napoleone Colajanni, «assegna al nostro paese un posto speciale, perché vede riprodurre i fenomeni che non si credevano più possibili nella civile Europa occidentale». Proteste contro la politica (in particolare contro i dazi sul grano) si verificarono ovunque, saldandosi con vaste agitazioni contadine e operaie per ottenere aumenti salariali.
La reazione del governo, presieduto dal marchese Di Rudinì, fu ovunque durissima: l’episodio più grave si verificò a Milano, dove il generale Bava Baccaris usò i cannoni contro la folla (6 maggio 1898), provocando un centinaio di vittime. Seguendo la prassi inaugurata da Crispi, fu proclamato lo stato d’assedio a Milano, Livorno, Firenze, Napoli. La tensione si fece acutissima. Il governo fece arrestare dirigenti e deputati repubblicani e socialisti (Turati fu condannato a 12 anni di carcere), chiuse un centinaio di giornali di opposizione, anche cattolici, limitò la libertà di stampa di associazione e di riunione. Subito dopo, furono proposte in votazione alle camere leggi che rendevano permanenti i provvedimenti restrittivi presi nel corso dei tumulti. I gruppi reazionari avanzarono l’idea di un mutamento istituzionale che sottrasse il governo al controllo del parlamento. Si giunse vicini a un colpo di stato contro il regime parlamentare.
La svolta autoritaria tuttavia non ci fu: la Sinistra radicale e i socialisti si mobilitarono alla camera in difesa della libertà costituzionale, attuando per la prima volta l’ostruzionismo parlamentare; d’altro canto, nell’area liberale prevalse la corrente, facente capo a Giovanni Giolitti, contraria a una riduzione delle libertà civili e democratiche. Molti esponenti della classe dirigente compresero infatti che le rivendicazioni popolari nascevano da un disagio grave e reale e che la crisi del paese doveva essere risolta avviando una legislazione sociale e nel rispetto dell’ordinamento costituzionale liberale. Il punto di svolta si ebbe con le elezioni del giugno 1900, in cui le opposizioni (socialisti, radicali, repubblicani), presentatesi unite, passarono da 67 a 96 deputati (33 dei quali socialisti). Il governo fu affidato al vecchio parlamentare piemontese Giuseppe Saracco.
Il governo di Saracco durò solo qualche mese ed è ricordato per i suoi tentennamenti, oltreché per aver assistito al regicidio di Umberto I,assassinato a Monza, il 29 luglio del 1900, dall’anarchico Bresci, venuto apposta dagli Stati Uniti a vendicare i caduti di Milano e le decorazioni di Bava Beccaris.
Dopo la morte di un re che gli agiografi, non trovando niente di meglio, felicitarono dell’aggettivo “buono”, che vuol dire tutto e niente, il suo successore Vittorio Emanuele III, inaugurò il proprio regno affidando l’incarico di presiedere il consiglio dei ministri all’insigne giurista liberaleGiuseppe Zanardelli, il padre del nuovo codice penale, che affidò il dicastero degli Interni proprio a Giolitti, quasi ad indicarlo come suo alter ego e (evidentemente) successore in pectore.
Dopo nemmeno tre anni (novembre 1903) dal suo insediamento, Zanardelli si dimise per motivi di salute: nulla poteva ormai impedire l’ascesa definitiva di Giovanni Giolitti; e, infatti, il politico di Dronero subentrò al suo mentore.
Lo statista piemontese sarebbe rimasto al governo, quasi ininterrottamente, fino alla vigilia della Grande Guerra, dando all’Italia quell’impronta e quel carattere che prendono il nome di Età Giolittiana.


La strategia riformista di Giovanni Giolitti e il suo insuccesso

L’Italia che Giolitti si trovò a governare non era certo un paese prospero o tranquillo, nonostante le enormi potenzialità che si erano già manifestate: alcune occasioni, come quella di diventare il porto d’Europa verso il sud-est, dopo l’apertura del canale di Suez (1869), erano già per buona parte sfumate; l’emigrazione era una piaga enorme, l’analfabetismo interessava ancora quasi il cinquanta per cento degli adulti, la rivolta sociale minacciava di scoppiare ad ogni giro di vite: bisognava costruire infrastrutture, trovare sbocchi lavorativi, pacificare la società.
L’Italia, a differenza di quasi tutti i paesi europei, non possedeva, salvo la modestissima Somalia, annessa nel 1905, colonie da cui attingere materie prime a basso costo e verso cui deviare le grandi masse, soprattutto contadine, di disoccupati o sottoccupati; non aveva carbone e la sua agricoltura, salvo alcune zone particolari del Paese, era ad uno stadio arretrato: in seguito al trattato del Bardo, con cui la Francia, di fatto, si annetté la Tunisia (1881) e ad un’aspra contesa economica coi transalpini, il governo italiano, nel 1882, aveva aderito ad un’alleanza difensiva con l’Austria Ungheria e con l’impero germanico, di cui re Umberto I era grande ammiratore, ma questa alleanza non riscuoteva grandi entusiasmi nella popolazione, cresciuta nel culto della lotta risorgimentale contro il “nemico ereditario” e risultava, in termini di politica estera, poco fruttifera per il nostro Paese.
Inoltre, il nostro era uno stato giovane, scarsamente omogeneo nella popolazione e politicamente poco evoluto; insomma, Giolitti avrebbe dovuto mettere le mani in un bel gomitolo di problemi.
Ma quello che sarebbe divenuto il “boja labbrone”, aveva le idee chiare, oltre che un fiuto rabdomantico per mantenere la poltrona; si può ammirare o disprezzare Giolitti per una serie di motivi, ma un fatto è certo: confronto ai presidenti del consiglio dei nostri giorni, la sua fu una generazione di giganti!
La prima cosa che Giolitti fece, fu di prendere atto dell’esistenza di un cambiamento in corso nel Paese, dovuto alla crescita industriale: da una parte erano mutati i presupposti stessi dei rapporti di lavoro, dall’altra, masse sempre più imponenti di lavoratori premevano per avere una maggiore importanza come soggetto politico e per ottenere riforme sociali, aderendo compattamente al Partito Socialista.
Il primo ministro comprese che queste forze politiche non potevano essere, semplicemente, bollate di sovversivismo e, quindi represse duramente: era necessario che entrassero, debitamente emendate dei loro aspetti più eversivi, nel sistema liberale giolittiano.
Era la quadratura del cerchio: da una parte la rinuncia all’utilizzo della forza contro le manifestazioni dei lavoratori, sancita dall’atteggiamento del governo in occasione del primo sciopero generale italiano (1904), smorzò l’esasperazione delle sinistre e, dall’altra, gli imprenditori illuminati videro in questo paternalismo umanitario la valvola di sfogo che li preservava da problemi maggiori.
Agli imprenditori meno illuminati non restava che assoldare i loro freikorpsprivati, per reprimere, per così dire, in proprio, le manifestazioni sindacali: si tratta di un precedente interessante, che trovò larga imitazione al tempo dello squadrismo fascista dell’immediato dopoguerra.
L’idea chiave di questa posizione di Giolitti verso il rapporto tra datori di lavoro e dipendenti prende il nome di “neutralità statale”; essa postulava il non intervento dello stato nella contrattazione tra domanda ed offerta di lavoro, che dovevano misurarsi solo sul piede di un libero mercato, unico fattore a determinare i salari.
Psicologicamente, così, agli occhi del proletariato chi era colpevole di eventuali nequizie salariali non poteva essere lo Stato: Giolitti indicava ai lavoratori nuovi nemici; non era più il tempo di Bava Beccaris!

Il Partito Socialista, nel frattempo, doveva risolvere una grave crisi interna, che descriviamo un po’ sbrigativamente come il contrasto tra i cosiddetti “rivoluzionari”, che sostenevano la via dal basso al riscatto sociale del proletariato, e i “riformisti”, che credevano in una possibilità parlamentare di cambiamento della società.
Questi ultimi erano l’interlocutore privilegiato di Giolitti, e, in particolare, il loro leader Filippo Turati, cui Giolitti propose a più riprese di fare parte del suo governo.
Per evitare di giungere a quella scissione che, inevitabilmente, poi ci fu, Turati non accettò l’offerta del primo ministro, pur condividendone l’impostazione politica: lui, Treves, Bonomi, Bissolati e, in definitiva, coloro che erano l’incarnazione di un socialismo democratico, si avviavano, inevitabilmente, ad una sconfitta contro chi li voleva superare a sinistra, come Serrati, Lazzari o il rampante dirigente rivoluzionario Benito Mussolini, che sarebbe stato l’autore dell’OdG che li espelleva dal partito, in occasione del congresso di Reggio Emilia, nel 1912, con il plauso di Lenin.
Se i Socialisti litigavano su tutto, neppure per Giolitti, comunque, erano tutte rose e fiori, poiché egli doveva perennemente barcamenarsi (attività in cui eccelleva) tra le tensioni delle sinistre e le preoccupazioni dei moderati: questo, senza dubbio, rappresentò un forte vincolo alla sua attività riformista e causò il formarsi di un atteggiamento,a noi, purtroppo, ben noto, per il quale, più dell’attuazione dei programmi, contava il tenere unita una maggioranza che appoggiasse il governo, pur indossando la giubba di Arlecchino: dopo il no di Turati, Giolitti si spostò verso il moderatismo, strizzando l’occhio ai radicali.
Nel panorama politico italiano, tuttavia, aleggiava l’ombra di un convitato di pietra, che ufficialmente non era un soggetto politico, ma che lo sarebbe ben presto divenuto e che rappresentava una larga fetta di elettorato potenziale: il mondo cattolico.
L’Italia risorgimentale fu, senza dubbio, dominata dal laicismo, spesso dalla massoneria e, qualche volta, dal vero e proprio anticlericalismo: da una parte c’erano i Savoia, che avevano violato lo Stato della Chiesa e che avevano costretto il pontefice a rinchiudersi nelle mura leonine, cui si contrapponeva il“non expedit”, il divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica italiana.
L’intransigenza pontificia verso i re d’Italia, però, vuoi per le guarentigie, vuoi perché i tempi cambiano, andava addolcendosi, e, già nel 1904, Papa Pio X aveva concesso, per arginare i successi socialisti, ai cattolici di alcuni collegi di votare per i liberali: si trattava di un passo modesto, ma, in proiezione, di grande importanza.
Al posto delle organizzazioni di cattolici più intransigenti iniziò ad affermarsi l’Azione Cattolica, di posizioni assai più vicine al sociale (ed al politico), mentre don Luigi Sturzo poneva le basi per la nascita del Partito Popolare, che sarebbe divenuto il punto di riferimento dell’elettorato cattolico italiano.
Il rientro ufficiale dell’elettorato cattolico in politica fu sancito da un patto che impegnava i liberali, eletti in parlamento coi voti dei cattolici, ad opporsi ad ogni iniziativa legislativa contraria alla morale cattolica: dal nome del suo ideatore, questo patto fu noto come “patto Gentiloni” e venne applicato in occasione delle prime elezioni politiche a suffragio universale maschile, nel 1913.
Nel frattempo, Giolitti cercava di dare la propria impronta al Paese, mettendo, però, anche in luce quei limiti che la situazione politica poneva alle sue riforme.
La politica estera vide un riavvicinamento progressivo alla Francia, iniziato nel 1902 con gli accordi Prinetti-Delcassé, che mise in posizione traballante la Triplice Alleanza e, se vogliamo, pose le premesse del Patto di Londra del 1915, che segnò lo schieramento dell’Italia accanto alle potenze dell’Intesa.
Il progetto di risanamento del Mezzogiorno si limitò ad una serie di leggi speciali (niente di nuovo, insomma) che non dovevano assolutamente ledere gli interessi dei conservatori, che erano l’espressione della classe dominante meridionale, legata al latifondismo e con cui il primo ministro tessé rapporti non sempre adamantini.
Quando, poi, mise mano alle infrastrutture, Giolitti dovette mandare avanti un suo prestanome, Alessandro Fortis, che governò tra il 1905 ed il 1906, giusto in tempo per fare approvare la legge di nazionalizzazione delle ferrovie, compreso un articolo che vietava lo sciopero dei ferrovieri, e raccogliere insulti e proteste del personale ferroviario, cui rispose con la forza pubblica: il timoniere di Dronero non si era sporcato le mani neppure questa volta.
Nel febbraio 1906, salì al potere il combattivo livornese Sidney Sonnino, capo dei liberali non giolittiani, quello dell’inchiesta con Jacini sulle reali condizioni dell’agricoltura nel Mezzogiorno, che subito propose delle incisive (a dir poco) riforme, a base di bonifiche, ridistribuzione di terre, ridiscussione dei patti agrari eccetera; con quale entusiasmo delle baronie meridionali è facile immaginare.
A maggio, Sonnino era già giubilato, a favore del ritorno in pompa magna di Giolitti, che sedette sullo scranno di primo ministro per quarantadue mesi filati, fino al dicembre del 1909.
Principale atto di governo di questi anni fu la diminuzione dei tassi d’interesse sui titoli di Stato, che permise di diminuire il debito pubblico: la legge sulla conversione della rendita.
Quando Giolitti, però, ripropose il suo vecchio progetto sulla tassazione progressiva dei redditi, che già aveva dovuto accantonare nel 1903, il Parlamento esplose ( a riprova del fatto che, quando si tocca il portafoglio, sono tutti d’accordo), e riapparve Sonnino (visto da tutti come l’antigiolitti per antonomasia) che fece il solito “mordi e fuggi”, visto che fu sostituito solo tre mesi dopo dall’economista Luigi Luzzatti, che, a sua volta, lasciò il posto ad un quarto governo Giolitti, nel marzo del 1911, caratterizzato da una più marcata impronta riformista.
Fu questo governo che s’imbarcò nell’impresa libica, anche se il primo ministro, personalmente, non ne era affatto convinto.
Lo costrinsero alla guerra contro la Turchia le pressioni dei nazionalisti, capeggiati da Enrico Corradini, che chiedevano per l’Italia “un posto a sole” (e l’ultimo disponibile era, appunto, la Libia), e poi di quasi tutta l’opinione pubblica, socialisti rivoluzionari esclusi, che vedeva nella conquista del paese nordafricano la panacea per i problemi del Paese.
Di fatto, chi ne trasse beneficio furono soprattutto i grandi industriali, che fabbricavano le armi ed i mezzi che la guerra assorbiva.
La Libia nel 1911 nascondeva ancora nel suo sottosuolo quegli enormi giacimenti di petrolio che ne avrebbero determinato la ricchezza e, in termini coloniali, l’appetibilità: per molti era solo uno “scatolone di sabbia”, reso desiderabile unicamente da considerazioni di politica coloniale in chiave antifrancese, dalle ambizioni imperialistiche di un paese giovane e dalle utopie migratorie di chi vedeva nel paese nordafricano la risposta ai milioni di italiani costretti a migrare verso le Americhe o l’Australia.
D’altra parte, anche quando le truppe dell’Asse arrivarono ad arrestare la propria offensiva ad Alamein, nel 1942, afflitte da una terribile penuria di carburante, una sorte ironica le faceva transitare per la via Balbia sopra alcuni dei depositi petroliferi più cospicui del mondo, senza che nessuno ne sospettasse l’esistenza!
Dei giorni della polemica sull’intervento o meno dell’Italia in Libia, quando il governo non assumeva una posizione chiara a riguardo, è la nascita del mito di un Giolitti espressione vivente dell’Italietta, un paese mediocre, incapace di grandi progetti e grandi imprese, governato da un primo ministro vile e sornione; immagine che avrà grande fortuna nel periodo fascista ed oltre.
Più per conservarsi la poltrona che per un reale convincimento politico, Giolitti ruppe gli indugi e, subissato di contumelie da parte socialista, dichiarò guerra all’Impero Ottomano e fece sbarcare le truppe a Tripoli, il 29 settembre del 1911.
Nel 1912, col trattato di Losanna, la Libia divenne una colonia italiana, con in soprammercato Rodi e le isolette del Dodecanneso.
La guerra era tutt’altro che finita, però: nell’interno del paese continuava una guerriglia che fu contrastata da parte nostra con sistemi, a dir poco, sbrigativi, e che durò fino agli anni Trenta.
Già durante il conflitto, comunque, i nostri soldati si erano mostrati assai diversi da quel popolo di bonaccioni che tanto dovette alla leggenda degli “Italiani brava gente”: il lancio di gas velenosi (da noi stigmatizzato, quando lo applicarono gli austroungarici, sul San Michele, nella Grande Guerra) e le rappresaglie contro obiettivi civili sono un’invenzione tutta italiana, che ebbe nella guerra libica il suo laboratorio ideale.
Al di là di qualche assegnazione di terre, perlopiù di difficile bonifica, tutto ciò che il proletariato italiano ottenne dalla guerra di Libia fu, da una parte, di partecipare alle prove generali di un dramma che l’avrebbe visto, di li a pochi anni, protagonista sull’Isonzo e sul Carso, e dall’altra di ottenere, in nome di un diritto acquisito combattendo, una legge che assegnava il diritto di voto a tutti i maschi maggiorenni; legge, questa, voluta da Giolitti per riconciliarsi con le sinistre, insorte, in nome del pacifismo, contro le “gesta d’oltremare”.
Nonostante questa dimostrazione di accondiscendenza, la stella del politico piemontese si avviava al declino, e le elezioni del 1913 non fecero che confermarlo, portando a Giolitti una maggioranza estremamente eterogenea e divisa, tanto che, nel marzo del 1914, egli dovette lasciare il posto ad un conservatore come Antonio Salandra, espressione del liberalismo di destra.
In realtà, più che la fortuna politica di Giovanni Giolitti, ciò che tramontava era la fiducia in un sistema come quello democratico e liberale, che lui rappresentava: la guerra di Libia aveva messo a nudo i limiti di una politica giocata con reti di alleanze finalizzate alla sola conservazione del potere, portando alla ribalta una politica più legata alla piazza, dominata dai tribuni, più che dai diplomatici, e, soprattutto, in cui il conflitto sociale assumeva toni di aperto scontro, che presero nelle manifestazioni della “settimana rossa”, del giugno 1914, i connotati di una vera e propria insurrezione.
L’attentato di Sarajevo, pochi giorni dopo (28 giugno 1914), avrebbe catalizzato l’attenzione del mondo, spezzando la Belle Epoque e dando il via ad uno dei più spaventosi conflitti della storia: con l’Italietta giolittiana, tramontava tutto un mondo, fatto di eleganza ed ingiustizia, che per secoli aveva caratterizzato l’Europa.
Al loro risveglio, dopo l’immane catastrofe, i cittadini europei avrebbero constatato che nulla era più lo stesso.

Focalizziamo ora, dopo aver narrato il succedersi delle vicende storiche di rilievo dell’epoca, l’attenzione sulla figura di Giovanni Giolitti, elencando tutte le cariche politiche che egli rivestì nell’arco della sua vita.

Presidente del Consiglio
o 15 maggio 1892 / 27 settembre 1892
o 23 novembre 1892 / 15 dicembre 1893
o 3 novembre 1903 / 18 ottobre 1904
o 30 novembre1904 / 12 marzo 1905
o 29 maggio 1906 / 8 febbraio 1909
o 24 marzo 1909 / 11 dicembre 1909
o 30 marzo 1911 / 29 settembre 1913
o 27 novembre 1913 / 21 marzo 1914
o 15 giugno 1920 / 7 aprile 1921
o 11 giugno 1921 / 4 luglio 1921
Ministro degli Affari Interni
o 15 maggio 1892 / 15 dicembre 1893
o 15 febbraio 1901 / 21 giugno 1903
o 3 novembre 1903 / 12 marzo 1905
o 29 maggio 1906 / 11 dicembre 1909
o 30 marzo 1911 / 21 marzo 1914
o 15 giugno 1920 / 4 luglio 1921
Ministro delle Finanze (Tesoro)
o 9 marzo 1889 / 10 dicembre 1890


Il Mezzogiorno di Giolitti (1903 – 1914)

Camere di Lavoro e diritto di sciopero si diffondono anche nel Mezzogiorno, dove va sensibilmente maturando la coscienza politica delle masse rurali : in Sicilia con il riorganizzarsi dei contadini nelle leghe, in Puglia con un movimento particolarmente combattivo. Agli agrari che invocano l'intervento dello Stato a tutela dei loro interessi minacciati, Giolitti risponde che solo con le riforme sarà possibile sanare in parte il malcontento popolare. Privati dell'appoggio governativo nella repressione degli scioperi, i proprietari terrieri sono spesso costretti a concessioni a favore dei braccianti. Ma ci voleva altro per spezzare il sottosviluppo meridionale: anzitutto una politica governativa veramente interessata a risolverne le sorti. Le accurate ricerche condotte da Nitti sui bilanci del governo, in rapporto alle finanze regionali ed alla ripartizione delle spese pubbliche, dimostravano invece che nel processo di sviluppo nazionale il Mezzogiorno era costretto a sopportare i costi maggiori. Il sistema tributario soprattutto determinava gravi sperequazioni a danno del Sud; l'imposta sui terreni, sui fabbricati, sulla ricchezza mobile veniva a colpire con un onere del tutto sproporzionato il contribuente meridionale, il quale d'altra parte non era compensato da un efficace programma di spesa pubblica. Di qui la lunga e sfortunata battaglia dei meridionalisti per una riforma del sistema tributario più rispondente alla diversa configurazione economica delle regioni del paese. E per far sì che canali, strade, lavori di bonifica non si accentrassero esclusivamente nelle regioni settentrionali. «La verità è», sosteneva Nitti, «che l'Italia meridionale ha dato dal 1860 assai più di ogni parte d'Italia in rapporto alla sua ricchezza; che paga quanto non dovrebbe pagare; che lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno, e che vi sono alcune province in cui è assenteista perlomeno quanto i proprietari di terre». Una politica portata avanti anche negli anni successivi; si calcola che nel 1910 l'Italia del Nord, con il 48% della ricchezza nazionale, pagasse il 40% delle imposte nazionali, contro il 32% del Meridione che di quella medesima ricchezza usufruiva solo per il 23%.
Al ritardo del Mezzogiorno faceva riscontro il decollo industriale delle regioni settentrionali: tra il 1896 ed il 1908 il saggio di incremento annuale della industria italiana è del 6,7%. Si sviluppano l'industria automobilistica e quella elettrica; dai 100 milioni di kilowattore del 1898 si passa ai 950 milioni del 1907 ed ai 2575 milioni del 1914. L'Italia non è più un paese solamente agricolo: se nel 1900 l'agricoltura rappresenta il 51,2% del prodotto lordo privato e l'industria il 20,2%, nel 1908 gli indici del rapporto muteranno rispettivamente nel 43,2 e nel 26,1. Di tanta dovizia al Meridione tocca in sorte solo l'impianto siderurgico dell'Uva a Bagnoli di Napoli, entrato in funzione nel 1905. Dinanzi alla constatazione del perpetuarsi a danno del Mezzogiorno delle sperequazioni del potere centrale, si ravviva la polemica sulle autonomie locali. Già vedemmo come i meridionalisti conservatori alla Turiello fossero contrari alla autonomia amministrativa del Sud, incentivo a loro dire del più diffuso malcostume politico. In disaccordo con questa teoria Napoleone Colajanni vedeva nel federalismo il mezzo per sottrarre il Meridione alla soffocante burocrazia centrale ed alla conseguente soggezione economica settentrionale. Quanto alle autorità politiche non era mancato chi alla concessione della autonomia locale guardava come ad una sorta di valvola di sicurezza per mettere a tacere le rivendicazioni più urgenti del turbolento Sud. «È venuto il tempo di costruire nel regno nuovi organi di governo», aveva affermato De Rudinì. Ma anche i meridionalisti più vigorosi e polemici nella difesa degli interessi del Mezzogiorno ponevano sovente in dubbio l'utilità di un affrettato decentramento. Nell'attuale degenerazione del parlamentarismo, sosteneva Giustino Fortunato, dare l'autonomia amministrativa al Meridione, senza risanare Parlamento e Governo, avrebbe significato favorire il proliferare delle consorterie e del clientelismo politico. Era prima necessario che il proletariato meridionale evolvesse, tramite la concessione del suffragio universale, fino a divenir cosciente degli interessi propri non disgiunti da quelli generali del paese. Opinione condivisa da Gaetano Salvemini, federalista acceso dapprima, più tardi meno sicuro dell'effettiva capacità del Mezzogiorno di porre in atto un suo autonomo sviluppo.
Indipendentemente dall’autonomia amministrativa, utile o meno che fosse, tutta una serie di altre cause congiurano contro il “decollo” delle regioni meridionali. Manca nel Sud una classe media, evoluta al punto da saper impostare e reggere una sana amministrazione; mancano i capitali privati necessari a ristrutturare più economicamente l'arretrata agricoltura locale, perché già da tempo assorbiti nell'acquisto dei beni demaniali quotizzati o investiti in titoli di Stato. I superstiti capitali disponibili, quando non sono oggetto di malversazione, bastano a malapena a riparare parte dei danni causati dai disastri naturali che si susseguono in quegli anni. Le eruzioni del Vesuvio e dell'Etna, nel 1906 e nel 1910, sommergono interi villaggi e distruggono le colture; il terremoto del 1905 in Calabria e quello tremendo del 1908, accompagnato da maremoto, devastano trecento Comuni e le città di Reggio e Messina. Lo Stato interviene in maniera sporadica e inefficiente ed inaugura il sistema delle “leggi speciali”. Nel 1904 e nel 1906 con le leggi dirette a migliorare le condizioni dell'agricoltura in Basilicata e in Calabria, nel 1905 con l'inizio dei lavori per la costruzione dell'acquedotto pugliese portato a termine nel 1927. Ma non era con interventi legislativi straordinari, inefficienti e disorganici, che la questione meridionale poteva essere risolta; occorreva una politica globale di riforma sociale, boicottata però dai grandi proprietari terrieri che attraverso il controllo delle amministrazioni locali e la conseguente influenza sulle elezioni politiche facevano il bello ed il cattivo tempo nel Mezzogiorno, affiancati dalle organizzazioni mafiose giunte ad inquinare tutti i gangli della vita pubblica locale. Corruzione politica e clientelismo erano d'altra parte favoriti dai metodi di Giolitti, da un lato propenso a soddisfare le più urgenti rivendicazioni popolari, dall'altro convinto che fosse possibile realizzare un'autentica libertà di voto solo nelle regioni progredite e capaci di farne un uso maturo. Ecco dunque le manipolazioni della maggioranza parlamentare, l'accaparramento dei voti, le vere e proprie predeterminazioni dei risultati elettorali, che indussero Gaetano Salvemini a ribattezzare Giolitti “ministro della malavita”.
Anche la riforma elettorale del 1912, che introduceva il suffragio universale maschile, pur nel suo innegabile valore di conquista democratica, servì a contrapporre all'opposizione di sinistra i voti governativi delle masse meridionali. I contadini analfabeti del Sud, circuiti o minacciati, andarono il più delle volte ad esercitare il nuovo diritto di voto a tutto vantaggio degli uomini politici graditi al governo. Ma nemmeno questa constatazione sembrò indurre ilPartito Socialista a interessarsi più attivamente al problema meridionale, invece di occuparsi esclusivamente delle categorie operaie del Nord. Critica fattasi più serrata quando si rilevò che, dinanzi all'accentuarsi del protezionismo, il partito preferiva attestarsi su posizioni agnostiche: forse nel timore di contrastare, ostacolando l'ulteriore industrializzazione del Nord, l'incremento di quel proletariato industriale che del partito stesso formava la forza. I socialisti dissidenti aderirono alla Lega antiprotezionista, e Gaetano Salvemini giungerà ad abbandonare il partito per fondare l'Unità, il giornale che per vari anni sosterrà la causa del Mezzogiorno con lucidità e coraggio. Oltre che nel libero scambio Salvemini credeva nelle possibilità connesse alla politicizzazione delle masse meridionali, destinate a divenire protagoniste in prima persona della “questione” del loro paese, solo se avessero acquistato una chiara coscienza di classe.
La corruzione ed il clientelismo politico rappresentano forse l'aspetto più umiliante, ma non il più cospicuo dei mali del Sud durante il primo decennio del secolo; altrettanto grave e doloroso segno di miseria e disperazione fu l'enorme incremento dell'emigrazione, che raggiunse la vetta più alta, proprio negli anni di maggior progresso del Paese.
Tra i più vistosi fenomeni nella storia dell'Italia moderna l'emigrazione in massa della popolazione rurale dalle regioni meridionali ha caratterizzato, negativamente o positivamente, a seconda dei differenti punti di vista, soprattutto gli ultimi decenni del secolo XIX e l'età giolittiana. Ma già nel 1861, secondo l'annuario statistico del periodo, 77.000 italiani risiedevano in Francia, 47.000 negli Stati Uniti, 18.000 in Brasile ed in Argentina. Anche le regioni centro-settentrionali furono interessate al fenomeno (nel 1876 l'85% dell'emigrazione nazionale proveniva dall'Italia del Nord), anzi proprio in quelle province esso aveva preso l'avvio, ma con aspetti e dimensioni assai diverse. Se l'emigrante settentrionale, il più delle volte, se ne va all'estero in cerca di miglior fortuna, con un suo bagaglio di competenze da far fruttare, quella dei contadini del Sud, sprovveduti, impreparati, di solito analfabeti, è una fuga disperata.
Intorno al 1876 oltre centomila italiani lasciano ogni anno la madrepatria; verso la fine del secolo il fenomeno aumenta d’intensità, acquistando i suoi caratteri più specifici: interi nuclei famigliari, provenienti in massima parte dalle regioni meridionali, spinti dall'insostenibile situazione economica locale, danno vita ad un esodo collettivo verso i paesi d'oltreoceano. La crisi agraria, che sul finire degli anni '80 aveva riflesso sull'economia meridionale le sue più disastrose conseguenze, contribuì ad incrementare l'emigrazione dalle regioni del Sud, mentre il primo sviluppo industriale del Nord assorbiva la mano d'opera settentrionale in eccedenza rispetto al fabbisogno dell'agricoltura. Al contadino meridionale, avvezzo a cimentarsi con la natura avversa, la fame, lo sfruttamento e la sopraffazione, l'« America » appare come una sorta di terra promessa. Un miraggio che vince le difficoltà necessarie per raggiungerlo ed il forte attaccamento ai paesi di origine.
L'America del Sud, in un primo tempo, e poi gli Stati Uniti furono la meta principale dell'emigrazione italiana, in costante crescita per decenni: basti pensare che nel 1927 ben nove milioni erano gli italiani residenti all'estero, di cui tre milioni e mezzo negli Stati Uniti ed un milione e mezzo rispettivamente in Brasile e in Argentina. Le agenzie di viaggio e le compagnie di navigazione, da parte loro, contribuirono a propagandare le possibilità di lavoro ben remunerato offerte dai paesi esteri; e realizzarono ingenti guadagni con il trasporto degli emigranti, giungendo ad organizzare, in collegamento con gli appaltatori di braccia umane, un vero e proprio traffico di forza-lavoro.
Tra i benefici della corrente migratoria ci fu anzitutto l'afflusso delle rimesse in denaro degli emigranti alle famiglie (500 milioni di lire annue nel periodo immediatamente precedente il 1914); inoltre, l'alleggerimento della pressione demografica in regioni sovrappopolate col conseguente rialzo dei salari e un generale miglioramento per i contadini dei contratti agrari. A livello di costume, il contatto con diverse e più evolute forme di convivenza associata portò a notevoli trasformazioni di mentalità, all'alfabetizzazione di molti, ad una maggiore intraprendenza e consapevolezza dei propri diritti.
Ma accanto ai vantaggi coesistevano svariati elementi negativi, e non mancarono di denunciarlo le voci di dissenso levatesi nel paese. Non era con l'emigrazione, sostenevano i suoi critici, che si sarebbero risolti i problemi generali del Meridione, né quelli individuali dei lavoratori sempre prigionieri della loro condizione di sfruttati. Il mito dell'emigrazione, sottolineavano soprattutto i socialisti, era solo un sistema per eludere ed accantonare i precisi impegni che il sottosviluppo meridionale poneva alla classe dirigente. La maggior parte dei meridionalisti liberali, al contrario, dal Franchetti a Giustino Fortunato al Nitti, guardarono di buon occhio l'ingrossarsi della corrente migratoria, ricordando ai suoi oppositori che grazie ad essa migliaia di individui avevano almeno compiuto un passo in avanti sulla via della loro emancipazione. L'emigrazione, oltretutto, rappresentava un'apprezzabile valvola di sicurezza per l'ordine sociale nel Mezzogiorno: o emigrante o fuorilegge, aveva affermato senza perifrasi il Nitti, questa l'unica scelta per il meridionale desideroso di uscire dalla sua situazione.
Un discorso che avrebbe avuto ben presto un'interessante connessione con le aspirazioni colonialistiche italiane nell'Africa settentrionale, su cui il capitale finanziario e i principali settori imprenditoriali nazionali, alla ricerca di affari lucrosi e di vantaggiose commesse statali, avevano già posto la loro ipoteca. Alibi alle effettive motivazioni imperialistiche della guerra coloniale, conclusasi con il riconoscimento della sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica, furono le infondate asserzioni sulla ricchezza della nuova “terra promessa”, pronta a offrire asilo e lavoro a centinaia di migliaia di emigranti italiani. E non pochi tra gli esponenti democratici Antonio Labriola ad esempio, subirono il fascino del nuovo mito, che altri, come Salvemini, con profondo rigore ed onestà intellettuale, cercarono vanamente di sfatare. Il fenomeno migratorio, pure con minore ampiezza e caratteristiche diverse si è svolto ininterrotto fino ai giorni nostri. Nemmeno il fascismo, che tentò di dirottare nei territori africani dell'“Impero” la sovrabbondanza di energie umane nazionali, riuscì a sopprimerlo; ma fu l'età giolittiana che vide il massimo espandersi del fenomeno, segno di un profondo e doloroso malessere sociale.


“La grande proletaria si è mossa”

È il discorso che Pascoli tenne al Teatro comunale di Barga il 21 novembre 1911 e nel quale espresse la sua entusiastica adesione all’impresa libica. Questo brano non è solo importante per capire l’ideologia del Pascoli ma anche per comprendere l’ideologia degli intellettuali del tempo. La guerra in Libia e la polemica che avvenne in Italia prima dell’intervento (1910) sono considerate dagli storici come una premessa del coinvolgimento italiano nella prima guerra mondiale. Il Pascoli, che si dichiarò sempre simpatizzante socialista, in questo brano dimostra di non esserlo affatto. La giustificazione dell’intervento militare (“non si può fare altrimenti”) trova fondamento nel fatto che i proletari italiani non dovranno più emigrare in massa in tutto il mondo, in cerca di migliori condizioni di vita, ma andando in Libia, si sentiranno come in Patria a tutti gli effetti (il socialismo in realtà ripudiava le guerre di conquista, accettando solo quelle di difesa). In questo brano Pascoli, riferendosi alla grandezza dell’antico Impero Romano, non tiene conto della giusta autodeterminazione dei popoli libici, e i toni un po’ razzisti di questo brano anticipano quelli più dichiarati e marcati degli interventisti e di D’Annunzio.

La grande Proletaria si è mossa.
Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre le Alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora; ad aprire vie nell'inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada...
Ora l'Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant'anni ch'ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all'aumento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volonterosi quel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno coi secoli augusti delle sue due Istorie, di non esser da meno nella sua terza Era di quel che fosse nelle due prime; si è presentata possente e serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare, per terra e per cielo.
Nessun'altra nazione, delle più ricche, delle più grandi, è mai riuscita a compiere un simile sforzo.
Che dico sforzo?
Tutto è sembrato così agevole, senza urto e senza attrito di sorta!
Una lunghissima costa era in pochi giorni, nei suoi punti principali, saldamente occupata. Due eserciti vi campeggiano in armi.
Oh Tripoli, oh Berenike, oh Leptis Magna (non hanno diritto di porre il nome quelli che hanno disertato o distrutta la casa!), voi rivedete, dopo tanti secoli, i coloni dorici e le legioni romane! Guardate in alto: vi sono anche le aquile!
Un altro popolo ai nostri giorni si rivelo a un tratto così.
Dopo non molti anni che si veniva trasformando in silenzio, eccolo mettere per primo in azione tutte le moderne invenzioni e scoperte, le immense navi, i mostruosi cannoni, le mine e i siluri, la breve vanga delle trincee, e il tuo invisibile spirito, o Guglielmo Marconi, che scrive coi guizzi del fulmine; tutti i portati della nuova scienza e tutto il suo antico eroismo; e coi suoi soldatini...
O non son chiamati soldatini anche i classiari e i legionari d'Italia? Non ha l'Italia nuova in questa sua prima grande guerra messo in opera tutti gli ardimenti scientifici e tutta la sua antica storia? Non ha per prima battuto le ali e piovuto la morte sugli accampamenti nemici? Non ha, a non grande distanza dal promontorio Pulcro, rinnovato gli sbarchi di Roma? Non si è già trincerata inespugnabilmente, secondo l'arte militare dei progenitori, con fossa e vallo, per avanzare poi sicura e irresistibile?
Eccoli là, e sono pur sempre quelli e attendono al medesimo lavoro, i lavoratori che il mondo prendeva e prende a opra. Eccoli con la vanga in mano, eccoli a picchiar col piccone e con la scure, i terrazzieri e braccianti, per tutto cercati e per tutto spregiati. Con la vanga scavano fosse e alzano terrapieni, al solito. Coi picconi, al solito, demoliscono vecchie muraglie, e con le scuri abbattono, al solito, grandi selve.
Ma non sono le grandi strade, che fanno altrui: essi aprono la via alla marcia trionfale e redentrice d'Italia.
Fanno una trincea di guerra, sgombrano lo spazio alle artiglierie, Stanno lì sotto i rovesci d'acqua, sotto le piogge di fuoco; e cantano. La gaia canzone d'amore e di ventura è spesso l'inno funebre che cantano a sé stessi gli eroi ventenni.
Che dico eroi?
Proletari, lavoratori, contadini.
Il popolo che l'Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo appello, al suo invito, al suo comando, è là.
Oh cinquant'anni del miracolo!
Quale e quanta trasformazione!
Giova ripeterlo: cinquant'anni fa l'Italia non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di sé, non aveva ricordo del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell'avvenire. In cinquant'anni è parso che altro non si facesse se non errori e anche delitti; non si cominciasse se non a far sempre male e non si finisse se non col non far mai nulla. La critica era feroce e interminabile e insaziabile. Era forse un desiderio impaziente che la animava.
Ebbene, in cinquant'anni l'Italia aveva rifoggiato saldamente, duramente, il suo destino.
Chi vuol conoscere quale ora ella è, guardi la sua armata e il suo esercito. Li guardi ora in azione. Terra, mare, e cielo, api e pianure, penisola e isole, settentrione e mezzogiorno, vi sono perfettamente fusi. Il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l'alto granatiere lombardo s'affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri (chi vorrà assegnare ai bersaglieri, fiore della gioventù panitalica, una particolare origine?), gli artiglieri della nostra madre terra piemontese dividono i rischi e le guardie coi marinai di Genova e di Venezia, di Napoli e di Ancona, di Livorno, di Viareggio, di Bari. Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici della loro luminosa ferita: voi avrete agio di ricordare e ripassare la geografia di questa che appunto era, tempo fa, una espressione geografica.
E vi sono le classi e le categorie anche là: ma la lotta non v'è, o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore. A questo modo il popolo lotta con la nobiltà e con la borghesia. Così là muore, in questa lotta, l'artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca.
Non si chiami questa retorica. Invero né là esistono classi né qua. Ciò che perennemente e continuamente si muta, non è. La classe che non è per un minuto solo composta dai medesimi elementi, la classe in cui, con eterna vicenda, si può entrare e se ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un'altra classe. Qual lotta dunque può essere che non sia contro sé stessa? [...]
O voi che siete la più grande, la più bella, la più benefica scuola che abbia avuta nel cinquantennio l'Italia, armata ed esercito nostri!
Dicono che in codesta scuola s'insegna a oziare! E no: s'insegna a vigilar sempre. S'insegna a godere! E no: s'insegna a patire. S'insegna a essere crudeli!  A ogni incendio, a ogni inondazione, a ogni terremoto, a ogni peste, accorrono questi crudeli a fare da pompieri, da navicellai, da suore di carità, da governanti, da infermieri, da becchini. S'insegna a uccidere! S'insegna a morire.
Questa è la scuola che oltre aver distribuito tanto alfabeto, ci ammaestra esemplarmente nell'umano esercizio del diritto e nell'eroico adempimento del dovere. Essa risponde ora a quelli che confondono l'aspirazione alla pace con la rassegnazione alla barbarie e alla servitù.
Noi - dicono quei nostri maestri - che siamo l'Italia in armi, l'Italia al rischio, l'Italia in guerra, combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro non è quello dei Turchi. La nostra è dunque, checché appaiano i nostri atti di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per sé e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vestiti, case, all'intera collettività che ne abbisogna. A questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.
Benedetti, o morti per la Patria!
Voi non sapete che cosa siete per noi e per la Storia!
Non sapete che cosa vi debba l'Italia!
L'Italia, cinquant'anni or sono, era fatta. Nel sacro cinquantenario voi avete provato, ciò che era voto de' nostri grandi che non speravano si avesse da avverare in così breve tempo, voi avete provato che sono fatti anche gli italiani.

Giovanni Pascoli

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