GLI ANNI SESSANTA
materiali per
tesina di Storia
a cura di Claudio Di Scalzo
Con l’avvento della società
industriale, la sempre maggiore facilità di produzione e disponibilità di tutti
gli oggetti ha modificato il rapporto con le cose. Lo sviluppo illimitato è
divenuto la sola regola dell’economia e ha dato luogo ad un rapporto immediato
tra la produzione degli oggetti, il loro consumo e la loro distribuzione.
Si è venuta così a costituire una
società nella quale, a partire dai primi decenni del Novecento, si è assistito
a un estendersi quantitativo e a un farsi progressivamente indistinto di strati
sociali medi e inferiori, che sono venuti assumendo tratti culturali e modelli
comportamentali tipici delle masse. La loro affermazione è stata favorita dal
forte aumento demografico, dalla concentrazione della popolazione in territori urbano-metropolitani,
dalla diffusione della scolarità in strati sociali prima esclusi, dall'accesso
universale al voto e dall'estendersi della partecipazione politica, da una
produzione industriale standardizzata e alla ricerca di vasti mercati di
consumo, dall'avvento infine di sistemi di comunicazione di massa.
In Italia abbiamo avuto due
svolte fondamentali in direzione dello sviluppo del consumismo:
- alla fine dell’800, quando si
passa nella distribuzione dei beni dalla bottega artigiana al negozio;
- la seconda svolta è costituita
dal boom economico degli anni 1958-1963, che fa diventare l’Italia uno dei 10
paesi più industrializzati del mondo. Esce dal primato dell’agricoltura, dove
ancora dominavano valori come autoconsumo, spirito di sacrificio, etica del
risparmio, ed entriamo nel primato dei consumi di massa, dove la struttura
familiare è urbana e con pluriredditi.
Dalla fine della guerra agli
inizi degli anni settanta tutti i paesi industrializzati, in particolare quelli
inseriti nell’economia capitalistica di mercato, conobbero una crescita
economica spettacolare; la produzione mondiale in termini reali (cioè senza
tenere conto dell’aumento dei prezzi) si triplicò, mentre era solo raddoppiata
nei cinquant’anni precedenti. Nei primi anni successivi alla fine dei
conflitti, lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti. La guerra aveva
dato un formidabile impulso all’economia statunitense, che ne uscì in una
produzione di assoluto predominio. Con il 7% della popolazione mondiale, gli
USA avevano un prodotto lordo pari a un terzo di quello dell’intero pianeta.
Non da meno era il fatto che essi si trovavano nella posizione di paesi
creditori a livello mondiale. I paesi europei, invece, vincitori e vinti che
fossero, faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte dalla guerra;
per combattere l’inflazione e la svalutazione della moneta, dovettero adottare
politiche deflazionistiche (contenimento dei salari e dei consumi – riduzione
delle importazioni) che rendevano difficile il rilancio della produzione.
Verso la fine degli anni ’50 il
nostro Paese aveva senz’altro bisogno di cambiamenti politici, sociali, anche
istituzionale che l’adeguassero alla silenziosa rivoluzione economica e
strutturale degli anni precedenti. La ricostruzione era stata un prodigio
ottenuto, anche grazie ai bassi salari e alla possibilità di attingere
all’immenso serbatoi di mano d’opera meridionali.
«A metà degli anni cinquanta
l’Italia era ancora per molti aspetti un paese sottosviluppato. L’industria
poteva vantare un certo progresso nei settori dell’acciaio, dell’automobile
dell’energia elettrica e delle fibre artificiali, ma era confinata
principalmente nelle regioni nord- occidentali. La maggior parte degli italiani
si guadagnava ancora da vivere nei settori tradizionali: piccole aziende
tecnologicamente arretrate con sfruttamento intensivo degli operai, pubblica
amministrazione, negozi e piccoli esercizi commerciali e soprattutto
agricoltura che continuavano ad essere il più vasto settore di occupazione. Il
tenore di vita rimaneva assai basso: solamente il 7,4% delle case italiane
possedevano l’elementare combinazione di elettricità, acqua potabile, servizi
igienici interni». Cosi lo storico britannico Paul Ginsborg presentava la
situazione socioeconomica dell’Italia alla vigilia di un decennio di rapido
sviluppo (passato alla storia con il nome di miracolo o boom economico) che,
pur tra gravi squilibri e storture, avrebbe trasformato la nostra penisola in
un paese industrializzato.
Nel periodo di tempo compreso tra
gli anni Cinquanta e Sessanta, l’Italia fu protagonista di un record di
crescita nella produzione nazionale tale da far parlare di “miracolo
economico”. L’apice dello sviluppo di questo trend positivo fu raggiunto tra il
1958 e il 1963. Questo fenomeno caratterizzò anche molti altri Paesi europei,
tra cui la Germania e la Francia, in cui si verificò un miglioramento dello
stile di vita. In questi anni l’Italia riuscì a ridurre il divario economico
con l’Inghilterra e la Germania e a eguagliare sistemi economici come quello
belga, olandese e svedese.
Nonostante il fenomeno si
riferisca a un evento principalmente economico, esso ebbe una forte
ripercussione sulla vita degli Italiani che in pochi anni cambiò radicalmente,
in positivo o in negativo e portò nel nostro Paese un livello di progresso e
benessere mai conosciuto nei periodi precedenti.
I fattori che determinarono tale
svolta sono molteplici e da ricercarsi in ambiti differenti. Uno di questi è
senza dubbio la fine del protezionismo e l’adozione di un sistema di tipo
liberista che rivitalizzò il sistema produttivo italiano, favorito anche dalla
creazione del Mercato Comune Europeo a cui l’Italia aderì nel 1957. Inoltre fu
importante il ruolo svolto dallo Stato, caratterizzato da un notevole
interventismo nell’economia. Infatti finanziò la costruzione di un gran numero
di infrastrutture, essenziali per lo sviluppo economico del Paese, tramite
stanziamenti statali e prestiti a tasso agevolato che ammontarono a più di 714
miliardi di lire; anche la Banca d’Italia mantenne un tasso di sconto
estremamente favorevole per le nuove industrie italiane che permisero un più
facile accumulo di capitali, al fine di agevolare gli investimenti. Nel 1959
Antonio Segni, Presidente della Repubblica di quel periodo,in un discorso
tenuto nel Consiglio dei Ministri, sottolineò l’importanza dei lavori pubblici
che rappresentavano l’unico rimedio possibile alla crisi congiunturale e alla
disoccupazione.
Affianco all’industria di stato e
al sistema bancario pubblico, ereditato dal fascismo, vennero così costituiti
nuovi istituti: l'ENI (Ente nazionale idrocarburi), creato da Mattei nel 1953
(il suo aereo precipito causandone la morte, che rimane tutt’ora ancora un
mistero), a cui venne affidato lo sfruttamento del più grande giacimento di
metano scoperto nel 1946 nella valle del Po. Mattei aveva dei piani ben chiari
per quanto riguarda la nuova organizzazione; infatti l’Eni sarebbe diventato
uno strumento dei popoli poveri contro i popoli ricchi. Egli sosteneva che
l’Italia doveva diventare un appoggio per i nuovi movimenti nazionalistici
(soprattutto africani e asiatici) ed acquistare così, spazio sul mercato
mondiale; la STET, nel settore della telefonia; la RAI con il suo monopolio
televisivo. Contemporaneamente accanto alla Fiat, l’Olivetti la Pirelli (assi
portanti del miracolo economico italiano degli anni ’60, perché aveva esteso la
sua presenza all’estero sino a diventare un gruppo multinazionale) e al ricco
tessuto di medie e piccole imprese caratteristico del settore industriale
italiano si affiancarono nuove grandi imprese (la Piaggio – l’Innocenti). In
questi anni insomma, il sistema industriale italiano accentuò il suo carattere
misto fra pubblico e privato. L’Italia riuscì ampiamente ad imporsi nel campo
degli elettrodomestici, dell’automobilismo e delle manifatture; infatti in
questi anni nascono le grandi industrie italiane la cui produttività aumentava
progressivamente grazie alle nuove tecnologie da loro utilizzate. Fiat,
Zanussi, Candy, Olivetti, sono solo degli esempi del passaggio di un’Italia
fondamentalmente agricola ad un Paese dove l’industria ere il settore
maggiormente produttivo.
L’alta tecnologia impiegata nei
processi produttivi permise alle imprese di autofinanziarsi più facilmente,
perché non era necessario assumere manodopera; inoltre la stabilità dei prezzi
portò a un relativo contenimento dei salari, a un sempre maggior investimento
produttivo e a una crescita dei consumi.
Una distorsione venne riscontrata
a livello di consumi individuali, proprio a causa del diverso dinamismo e ritmo
di crescita dell’economia. Infatti, i beni primari risultavano
proporzionalmente più costosi rispetto a quelli secondari, proprio perché la
volontà di emulare le ricche società europee aveva causato un salto troppo
brusco per un Paese ancora provinciale e contadino, dove spesso l’auto era un
necessario status-symbol e i servizi igienici solo una comodità di pochi.
Lo sviluppo industriale che si
verificò in Italia fu sorprendente e contribuì a cambiare l’opinione pubblica
mondiale, che era abituata a considerare gli Italiani come europei di secondo
livello; questo soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Così una gran massa di italiani,
che aveva in precedenza sperimentato i disastri della guerra e la povertà degli
anni dell'immediato dopoguerra, scoprì per la prima volta il benessere e con
esso l’abitudine a nuovi consumi. Nelle case fecero il loro ingresso
frigoriferi e lavatrici, radio e televisori e dell’automobile; la società
italiana, anche attraverso le nuove abitudini di consumo, sembrò incamminarsi
verso una definitiva “modernizzazione”. Gli Stati Uniti d’America, che sin
dall'inizio del secolo si erano caratterizzati per la presenza di un MERCATO DI
MASSA per i prodotti di largo consumo, furono modello e principale termine di
paragone: nel consumismo si individuava la radice stessa del successo del paese
più ricco e industrializzato del mondo.
L’industria stava cambiando il
concetto di tempo e di spazio;tutto ciò stava portando verso una società di
massa e di consumi. Gli italiani a tavola potevano usufruire dei cibi in
scatola o dei frigoriferi per conservare più a lungo le pietanze, grazie agli
elettrodomestici avevano più tempo libero che veniva utilizzato consumando o
per andare in vacanza grazie alla “lambretta”.
Inoltre su modello americano la
RAI lancia programmi televisivi per intrattenere gli italiani nelle ore di
riposo come “Lascia o raddoppia” condotto da Mike Bongiorno o “Carosello”.
Entra così nelle case degli italiani il regno della pubblicità. Attraverso la
televisioni si attua un processo di nazionalizzazione contro il conformismo ma
nonostante ciò, vi sono diffuse resistenze a questo nuovo utensile da parte di
intellettuali che accusavano fosse un sottoprodotto culturale e da parte della
Chiesa, restia alla modernizzazione. Accanto alla TV si sviluppa il cinema, un
periodo d’oro, con la produzione di Divorzio all’italiana e La dolce vita.
Nel periodo 1958-63 il PIL crebbe
a un tasso medio annuo del 6,3%, un livello che mai era stato e mai più sarebbe
stato ottenuto; ancora più elevato il tasso di crescita degli investimenti in
macchine utensili e impianti industriali, questo grazie allo sviluppo delle
reti di trasporto e di comunicazione e alla diffusione dei mezzi di
comunicazione di massa. Infatti, non è possibile produrre su larga scala se non
si dispone di un mercato sufficientemente ampio di riferimento, creato a sua
volta da un'efficace rete di trasporti e di comunicazioni. Ma se i potenziali
consumatori vivono in luoghi geograficamente molto lontani rispetto a quelli
nei quali si produce, deve esservi anche la possibilità di raggiungerli,
informali, convincerli e persuaderli all'acquisto. Furono create proprio per
questo, già a partire dalla seconda metà del secolo scorso, le moderne AGENZIE
PUBBLICITARIE. Era anche indispensabile battere la concorrenza, imponendo il
proprio "marchio" per far distinguere la propria produzione da quella
altrui, e invogliare all'acquisto di prodotti nuovi, mai stati offerti prima
sul mercato.
I modi di comunicare del mondo
della pubblicità utilizzati nella prima metà del ‘900 apparvero del tutto
inadeguati all'Italia degli anni ‘50 e ‘60, quando classi e ceti sociali,
diversi per problemi, aspirazioni e modelli culturali di riferimento rispetto
ai precedenti consumatori, costituirono per la prima volta un mercato di massa
per i prodotti industriali.
QUALI CONDIZIONI RESERO POSSIBILE
IL “MIRACOLO” ITALIANO?
FATTORI ESTERNI
L’Italia riuscì ad inserirsi
nella ripresa dell’economia internazionale; l’elemento decisivo fu l’adesione
al Mercato comune europeo, con i trattati di Roma del 1957 ( il 25 Marzo 2007 i
capi di Stato hanno ricordato a Bellino l’anniversario). Di grande importanza
fu anche il basso costo delle materie prime e delle risorse energetiche, per
un’economia che ne era quasi del tutto sprovvista e ne abbisognava non solo per
i consumi interni, ma anche per alimentare la produzione di beni da esportare.
FATTORI INTERNI
In primo luogo il basso costo
della forza-lavoro, dovuto sia alla sua abbondante disponibilità sia alla
debolezza sindacale. I bassi livelli salariale permisero alle imprese italiane
di presentarsi in modo competitivo sui mercati internazionali. Un ruolo di
rilievo ebbe anche il potere pubblico, che condusse una politica economica
espansiva (finanziamenti alle imprese, basso costo del denaro) e diede impulso
diretto, con le partecipazioni statali, allo sviluppo dell’industria di base.
Se pur marginale svolsero un
ruolo importante le Olimpiadi del 1960 tenutesi a Roma solo dopo la guerra e la
ricostruzione che a essa seguisse. Italia aveva a disposizione solo cinque anni
di tempo per mettere assieme il grande rito-spettacolo. Furono anni spesi bene
dai dirigenti italiani del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano)
immediatamente appoggiati dal potere politico. Si trattava, per prima cosa, di
costruire le necessarie installazioni, in particolare per il Villaggio
Olimpico, residenza degli atleti, dirigenti e tecnici, 33 fabbricati che dopo i
Giochi sarebbero stati destinati a oltre mille appartamenti civili. Per tutte
le costruzioni furono spesi in totale circa 18 miliardi di lire.
Anche se una quota rilevante del
prodotto nazionale era destinato al mercato estero e i salari si mantenevano
molto bassi, la crescita economica fu via via accompagnata dall’avvento di un
benessere prima sconosciuto alla gran parte della popolazione italiana, e che
giunse infine a interessare anche una parte dei ceti popolari. ’aumento del
reddito si tradusse nella diffusione di nuovi stili di vita e di consumo:apparecchi
televisivi e automobili furono i prodotti che più caratterizzarono questa nuova
epoca di consumi nel nostro paese.
Cambiò anche il modo di vestirsi
e, nei consumi alimentari, cominciarono ad assumere un peso maggiore le carni e
i latticini. Accanto ai dati che indicano un miglioramento del tenore di vita
medio della popolazione italiana, dobbiamo tuttavia soffermarci a considerare i
limiti dello sviluppo di questi anni, che non solo non risolve ma per alcuni
aspetti contribuì ad acuire gli squilibri di fondodelle nostra economia.
In primo luogo, nella stagione
del miracolo economico, i settori industriali che conobbero il maggiore
sviluppo furono quelli ad alta intensità di lavoro (meccanico – elettronico –
tessile), cioè basati un largo impiego della manodopera disponibile a buon
mercato più che sull’innovazione tecnologica. Questo fatto, insieme con i
modesti interventi nella ricerca scientifica, approfondì la dipendenza
tecnologica dell’ Italia dagli altri paese avanzati, soprattutto gli Stati
Uniti.
In secondo luogo, una quota
elevata dei redditi nazionali fu destinata ai consumi privati delle famiglie: i
redditi medi e medio-alti potevano beneficiare di un sistema fiscale iniquo
(non equo), lasciando largo spazio all’evasione contributiva, limitava le
entrate dello stato e delle pubbliche amministrazioni e quindi la loro capacità
d’intervento. La conseguenza fu che vennero trascurati i consumi pubblici o
sociali (case, ospedali, scuole, trasporti).
In terzo luogo si assistette
all’approfondirsi del divario economico sociale tra nord e sud del paese,
essendosi lo sviluppo concentratosi soprattutto nelle regioni settentrionali:
da questo fatto, tra l’altro, deriva il fenomeno dell’emigrazione. Il Meridione
aveva un’industria scarsamente sviluppata e una tecnologia arretrata, la
produttività del lavoro era molto bassa e un’alta percentuale della popolazione
era dedita all’agricoltura. Inoltre vi era una scarsa capacità di accumulazione
dei capitali, le infrastrutture erano insufficienti e la classe dirigente,
priva di capacità imprenditoriale, non permetteva un rinnovamento politico e
amministrativo. Neppure l’intervento dello stato valse a riequilibrare il
dualismo dello sviluppo tra nord e sud: infatti le politiche di intervento
privilegiarono la creazione di grandi poli industriali, pubblici e privata, nei
settori strategici della petrolchimica e della siderurgica; industrie ad alta
intensità di capitale, quindi a bassa assorbenza di lavoro. Al risanamento
dell’economica del Sud contribuisce la Cassa del Mezzogiorno, nata con la legge
dell’ottobre 1950. Essa operava in tre principali direzioni: politiche tese
alla costruzione di infrastrutture, agevolazioni all’impresa privata,
l’interveto diretto dello Stato. L’operato della Cassa del Mezzogiorno fu però
un parziale fallimento: oltre a realizzare immensi insediamenti industriali,
chiamati “cattedrali nel deserto”, in città come Siracusa, Taranto o Brindisi,
non fu in grado di utilizzare e formare l’abbondante manodopera locale e creare
una rete di piccole e medie imprese di fornitura, in modo da evitare che le
grandi “cattedrali” si trovassero isolate quando avevano bisogno di servizi o
prodotti esterni alla loro impresa. A pagarne le conseguenze, ovviamente, fu la
popolazione del Sud, che tra il 1951 1974 dovette abbandonare in massa le
proprie case in cerca di fortuna al Nord.
L’accelerazione dello sviluppo
industriale provocò una parallela crescita della popolazione urbana e una
rarefazione di quella rurale. Si intensificarono lemigrazioni interne, prima
dall’est, poi dal sud del paese, già in atto nei decenni precedenti,
specialmente verso le grandi città industriali del nord e i loro hinterland
(triangolo industriale: Milano,Torino,Genova), che videro crescere in maniera
vertiginosa la propria popolazione portando con se il problema
dell’urbanizzazine. Alla base di questo fenomeno vi sono diversi fattori tra
cui la necessità di maggiore denaro e di un lavoro stabile, il fascino delle
nuove metropoli del Nord. Questo flusso di gente divenne così imponente che lo
Stato, viste le ingenti e urgenti necessità, stabilì la creazione di un’
apposita linea ferroviaria, chiamata il “Treno del sole”, che attraversava
l’Italia da nord a sud, in modo tale da favorire e permettere nel migliore dei
modi il dispiegarsi di questi spostamenti.
Gli uomini trovarono lavoro come
operai nelle numerose di fabbriche che nascevano in gran numero in quegli anni,
oppure nei cantieri edili; le donne al contrario erano occupate in lavori a
domicilio, nel campo della È necessario sottolineare che in quel periodo era
ancora in vigore la legge fascista del 1939 sull’emigrazione, che prevedeva il
trasferimento in un altro comune solo se si era in possesso di un contratto di
lavoro.
Le motivazioni principali che
spingevano gli uomini del Sud ad emigrare al Nord erano la grave
sottoccupazione, un alto livello di povertà, la scarsa fertilità delle terre e
frammentazione della proprietà, che caratterizzavano il Meridione italiano,
maglieria, del filato e della sartoria, oppure anch’esse nelle fabbriche. La
grande mobilità di quegli anni non era solo a carattere definitivo, ma anche
giornaliero. Infatti ogni giorno un gran numero di pendolari giungeva nelle
metropoli dai paesi limitrofi. Il cospicuo movimento migratorio non poteva non
creare ampi e diversi sconvolgimenti a livello sociale. Infatti molti problemi
si crearono per gran parte della gente immigrata dal Sud. Innanzitutto una
situazione di disagio causato dalle diverse condizioni climatiche, dai problemi
riguardanti la lingua, perché erano abituati a parlare solamente il dialetto, e
dalla difficoltà a trovare un’abitazione. Questo ha causato inefficienze non
solo sul luogo di lavoro di operai o manovali, ma anche per i figli di queste
famiglie che dovettero affrontare la situazione quando iniziarono la nuova
scuola al fianco dei bambini del luogo. Inoltre per loro era anche difficile
adattarsi alla vita di città, estremamente diversa da quella a cui erano
abituati. Tutte queste difficoltà spesso ebbero delle ripercussioni negative
sul loro inasprimento nel posto di lavoro e determinarono una certa
insofferenza in questa gente nei confronti della società, che veniva additata
come la causa dei loro problemi.
In questi anni contemporaneamente
allo sviluppo dell’industria si verifica una diminuzione dell’importanza del
settore agricolo infatti in meno di dieci anni quasi tre milioni di occupati
nelle campagne si trasferiscono nelle città, determinando così la fine di quei
mondi rurali che caratterizzavano il Paese. Senza dubbio il miracolo economico
colpì anche il settore agricolo permettendo un suo rapido ampliamento. Gli
investimenti statali, che nel 1960 costituivano il 73% dei fondi, ebbero un
ruolo fondamentale infatti Fanfani, Ministro dell’Agricoltura, disse infatti
che l’unico modo di impostare le condizioni per uno stato moderno era quello di
incentivare e sviluppare il settore agricolo. Così lo stato intervenne con
agevolazioni fiscali, agevolazioni creditizie, mutui bancari con il concorso
dello Stato. Tutto ciò fece diventare le campagne italiane come delle grande
aziende interamente meccanizzate che non avevano bisogno di manodopera. Per
questo i campi rimasero in rapido tempo abbandonati, rimanendo spettatori di un
vero e proprio esodo.
Una delle più gravi conseguenze
dello sviluppo italiano e della crescita incontrollata delle città fu la
speculazione edilizia. Il mancato rispetto delle norme sull’edilizia e dei
piani regolatori cittadini determinavano un profondo cambiamento: l’Italia da
Paese rurale e contadino divenne una distesa di grandi sobborghi di cemento.
Inevitabilmente parte di costa, piccoli villaggi, lagune, boschi vennero
trasformati in centri abitati o centri turistici per soddisfare la crescente
domanda di nuove case e servizi per la villeggiatura. La massima libertà
lasciata alle iniziative nel settore dell’edilizia permise a imprenditori edili
poco scrupolosi di costruire nuovi edifici praticamente ovunque, senza
considerare le norme antisismiche e le misure di sicurezza. Il periodo compreso
tra il 1953 e il 1963 fu spesso caratterizzato da conflitti di potere tra le
autorità municipali e gli speculatori edili, che spesse volte sfociavano in
corruzione o clientelismo. Un esempio significativo fu il cosiddetto “sacco di
Roma”, in base al quale alle grandi imprese edili fu concesso di costruire su
tutti gli spazi disponibili della città senza alcuna limitazione.
LA NUOVA SOCIETÀ
In seguito alla fase economica
positiva di cui l’Italia fu protagonista, la società cambiò radicalmente e le
condizioni di vita subirono un notevole miglioramento dovuto all’aumento del
reddito medio della popolazione, che permise a volte l’acquisto di beni di lusso,
prima assolutamente fuori portata.
I consumi aumentano con una
rapidità mai vista e le possibilità finanziarie delle famiglie erano tali da
permettersi un’alimentazione sana e ricca, vistiti, un’abitazione e perfino
l’automobile. Quest’ultima è sicuramente, assieme alla televisione, ciò che più
rappresenta la nuova società del tempo e il simbolo del boom. Il modello della
Fiat Seicento del 1955 e Cinquecento del 1957 lanciano questo prodotto sul
mercato come bene di massa.
In molte case italiane erano
presenti gli elettrodomestici di ultima generazione: fon, orologio,
frigorifero, stufette elettriche, frullatori, lavatrici, che cambiarono le
abitudini degli Italiani.
Un altro aspetto significativo è
lo sviluppo dell’editoria, la diffusione dei quotidiani, i settimanali e le
riviste. Nascono le prime collane di libri delle grandi case editrici italiane:
Mondatori, Feltrinelli, Einaudi. Molti romanzi pubblicati in questi anni hanno
un grande successo. Tra i settimanali, citiamoL’Espresso e Panorama, i quali
proponevano molte inchieste sulle grandi trasformazioni sociali della nuova
Italia.
Per quanto concerne i ceti
professionali, si verificò un aumento dei laureati anche presso le grandi
università straniere che poi diventarono i dirigenti delle varie industrie
italiane. Aumentarono anche gli ingegneri, gli architetti, idesigners, gli
esperti nelle pubbliche relazioni: tutti professionisti che cercavano di
soddisfare il nascente gusto artistico e culturale degli italiani.
Cambiati i lineamenti caratterizzanti
della società non poteva non modificarsi quello che era ritenuto il cuore,
l’unità elementare di questa: la famiglia. Il numero dei componenti andava man
mano diminuendo, soprattutto al nord, determinando un alto numero di famiglie
formate solo da un figlio oppure, addirittura, da marito e moglie, cosa quasi
inconcepibile allora. I nuclei famigliari quindi diventano sempre meno numerosi
e più appartati. Tutto questo è sentito soprattutto dai meridionali immigrati
al nord, che, trasferiti nelle grandi città del Nord, non riscontravano più i
ritrovi nelle piazze e il grande affiatamento tra i vicini di casa a cui erano
abituati. La nuova famiglia è quindi all’insegna della privacy.
Per quanto riguarda i giovani,
essi hanno molta più libertà e passatempi a disposizione: domenica allo stadio,
bar, sale da ballo, shopping in centro, juke box, Lambretta.
Le donne invece diventano quasi
tutte casalinghe, dedicandosi interamente al marito, ai figli e alla casa; per
questo motivo l’occupazione femminile diminuisce vertiginosamente. Questa
situazione allontana progressivamente le Italiane dalla società produttiva e
dalla politica, “segregate” all’interno della casa tra montagne di riviste
femminili che incontrano grande successo.
Si assiste infine ad un declino
della religiosità, che portò inevitabilmente ad un calo dell’influenza della
Chiesa nella vita dei cittadini, oltre ad un calo delle vocazioni sacerdotali.
L’EPOCA DEL CENTRO-SINISTRA
Nel frattempo in politica…
Dopo la sconfitta della legge di
riforma elettorale (la cosiddetta “legge-truffa”) e la caduta di De Gasperi
(morì nel 1954), all’interno della Democrazia Cristiana1 avevano acquistato
maggiore forza le correnti interne che si battevano per una più equa
distribuzione del reddito, per la realizzazione diriforme sociali, resi a loro
giudizio indispensabili dallo sviluppo economico e dalle trasformazioni sociali
che investivano il paese. Per realizzare questi obiettivi e per ottenere, con
un allargamento della maggioranza, quella stabilità che non si era conseguita
con la mancata riforma elettorale, la DC, sotto la guida di Aldo Moro
(destinato ad essere assassinato vent’anni più tardi dai terroristi) e Amintore
Fanfani, dopo la morte del papa Pio XII, si orientò verso un’alleanza di
governo con i socialisti. L’apertura a sinistra divenne possibile in
conseguenza dei nuovi orientamenti assunti dalla Chiesacon il concilio Vaticano
II (11 ottobre 1962) presieduto da Giovanni XXIII(detto il “Papa buono”).
È bene ricordare che influirono
notevolmente i fatti di Ungheria del 1956, in quanto produssero una profonda
frattura nella sinistra italiana, allontanando i socialisti dai comunisti. In
questo modo il Partito socialista trova spazio per una politica autonoma.
Dunque, Moro e Fanfani si
battevano per attrarre i socialisti nell’orbita governativa. Purtroppo, falliti
alcuni tentativi, il Presidente della RepubblicaGiovanni Gronchi affidò
l’incarico di formare un nuovo governo al DcFernando Tambroni che, con una totale
inversione storica di tendenza, accettò, per governare, l’appoggio dei
neofascisti. Con questa maggioranza Trambroni governo per alcuni mesi, finché
fu costretto alle dimissioni dalle vivaci proteste della sinistra e degli
antifascisti. Il Paese tirò un sospiro di sollievo: il pericolo di un’ipoteca
di tipo neofascista sullo Stato era scongiurato.
Fanfani assunse la presidenza del
nuovo governo, il primo governo “aperto” a sinistra. Questo governo realizzò
alcune delle più importanti riforme della stagione del centro-sinistra: la
nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma della scuola media
inferiore.
NAZIONALIZZAZIONE DELL’ENERGIA
ELETTRICA
Le grandi nazioni industriali
moderne hanno una terribili fame di energia, che è l’elemento fondamentale del
loro progresso e, in definitiva, della loro stessa potenza globale. Nel secolo
scorso, furono i privati a scoprire e a produrre l’elettricità, così in Italia
esistevano circa 1.200 dighe private che distribuivano energia elettrica ad
altrettante reti, con criteri e prezzi di vendita che si erano a mano a mano
uniformati nel tempo. Alla nazionalizzazione si arrivò soltanto quando mutarono
quelle condizioni politiche che avevano fino ad ora permesso di evitarla.
Fanfani presentò la legge che venne approvata nel dicembre del 1962 e, il 1°
gennaio 1963, nasceva ufficialmente, dalle ceneri delle vecchie società
private, l’Enel (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), il nuovo gigante che
avrebbe dovuto produrre e distribuire energia agli italiani in forma più
moderna e, come si disse, «più equa», il che significava, in termini semplici,
meno cara.
RIFORMA DELLA SCUOLA MEDIA
INFERIORE
Il 31 dicembre 1962, proprio alla
scadenza dell’anno, come a sottolineare l’inizio di una vita nuova, viene varata
la riforma della scuola media inferiore. La legge che la istituiva fu definita,
più che di riforma scolastica, una legge di riforma sociale, in quanto avrebbe
dovuto trasformare a fondo la società. Le intenzioni erano buone: la nuova
scuola media, tutta gratuita, era obbligatoria per tutti e ci si accedeva senza
il vecchio esame d’ammissione. Vennero introdotti i Consigli di classe per
coordinare i vari insegnanti e i piani li lavoro e di valutazione, il tutto
doveva servire a delineare un quadro completo delle attitudini degli alunni.
Inoltre per le famiglie più disagiate il comune doveva mettere a disposizione
in modo gratuito libri di testo, contributi, materiale didattico refezioni e
mezzi di trasporto.
DAL SESSANTOTTO ALLA STRAGE DI
PIAZZA FONTANA
Il ’68 è l’anno della rivolta
giovanile: i figli rompono con i padri e con gli insegnanti, i “maestri”.
L’Italia diventa un campo di battaglia e l’opinione pubblica è costretta a
prendere coscienza di un fenomeno che, fino a quel momento, ha sottovalutato:
la rabbia giovanile. Osservo lo storico Denis Mack Smith: «Con una furia
dissacrante che non ha precedenti, gli studenti tumultuano, occupano gli
atenei, processano e insolentiscono i professori, stilano documenti
rivoluzionari, erigono barricate, si scontrano nelle strade e nelle piazze con
la polizia, formulano richieste a cui le vecchie generazioni non sanno cosa
rispondere. Allo scatenarsi di questa rabbia contribuisce senz’altro l’esempio
proveniente da oltre Atlantico, dove è già stata vissuta l’esperienza esaltante
della rivoluzione studentesca». La scuola era la grande malata della nostra
società.
La presenza di giovani operai a
fianco degli studenti fu la caratteristica anche del Sessantotto italiano, il
più intenso e ampio tra tutti quelli dell'Europa occidentale. In Italia la
contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato
negli anni '60, dovuto al fatto che lo sviluppo economico non era stato
accompagnato da un adeguato aumento del livello di vita delle classi più disagiate.
L'esplosione degli scioperi degli
operai in fabbrica si saldò con il movimento degli studenti che contestavano la
grave situazione delle università, in cui al grande aumento della popolazione
studentesca non era stato corrisposto alcun ammodernamento delle strutture e
dei metodi d’insegnamento e rivendicavano l'estensione del diritto allo studio
anche ai giovani di condizione economica disagiata. Accanto a ciò ci fu il
desiderio di valorizzare la partecipazione alle scelte, la libertà e l’originalità
de espressione individuale e collettiva, un radicale egualitarismo.
I prodromi di quello che diverrà
il sessantotto inizieranno a palesarsi nel 1966. La contestazione fu attuata
con forme di protesta fino ad allora sconosciute: vennero occupate scuole e
università e vennero organizzate manifestazioni che in molti casi portarono
scontri con le forze dell'ordine.
Il 24 gennaio 1966 avvenne a
Trento la prima occupazione di una università italiana ad opera degli studenti
che occuparono la facoltà di Sociologia.
La contestazione studentesca e
giovanile contribuì a rendere più moderni diversi aspetti della vita del paese.
Ne derivarono un forte stimolo allo svecchiamento della cultura italiana e una
profonda trasformazione nella sfera dei rapporti familiari. Tra i giovani si
affermarono comportamenti più franchi ed emancipati, cui corrisponde sul piano
affettivo e sessuale una maggiore libertà e anche un più acuto senso di
responsabilità. Le ragazze e le donne cominciarono a riflettere e a discutere
sui temi collegati alla condizione femminile, ponendo le promesse dei movimenti
femministi degli anni settanta e ottanta. La percezione esatta di quanto
profondi fossero i cambiamenti intervenuti in questo campo si sarebbe avuta nel
1974, quando una consistente maggioranza degli italiani, pari quasi il 60%
dell’elettorato, si espresse contro l’abrogazione della legge sul divorzio e,
nel 1981, per l’abrogazione della legge sull’interruzione della gravidanza
(aborto). Questo cambiamento affondava, in realtà, le sue radici in un processo
di laicizzazione della società italiana, iniziato con il miracolo economico e
proceduto negli anni successivi, affermando così un nuovo sistema di valori,
più attento all’autonomia dell’individuo e alla libertà di espressione e di
scelta, ma anche più sensibile ai modelli consumistici diffusi dai vari mezzi
di comunicazione di massa.
Come già accennato, accanto alle
manifestazioni studentesche si affiancò la stagione di lotte operaie. Il suo
momento culminate si ebbe nell’autunno del 1969, chiamato “autunno caldo” a
causa del clima di acceso conflitto sociale. Dopo decenni di sviluppo basato
sui bassi salar la piena occupazione ormai raggiunta( almeno nelle regioni
industrializzate) e il conseguente ridursi della concorrenza dei senza lavoro,
metteva il movimento operaio nelle condizioni di rivendicare salari più
dignitosi e migliori condizioni di lavoro. Le organizzazioni sindacali (Cgil,
Cisl, Uil che nel frattempo avevano avviato un processo di riavvicinamento, che
condusse, nel 1972, alla creazione della Federazione sindacale unitaria), dopo
le incertezze iniziali rispetto a questi movimenti, assunsero progressivamente
la guida del movimento, movimento che portò all’affermazione di nuovi strumenti
di democrazia sindacale: l’assemblea dei lavoratori e i consigli di fabbrica.
Queste rivendicazioni si ampliarono a richiesta di più ampie riforme sociali e
civili che il potere aveva disatteso: la casa, i servizi sociali, i trasporti,
le pensioni. Nonostante alcune importanti realizzazioni legislative, come
l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, il quadro politico di quegli anni
fu caratterizzato da un sostanziale immobilismo.
In questo scontro, con il chiaro
intento di porre un argine al movimento dei lavoratori, alimentando
nell’opinione pubblica sentimenti di paura e un riflesso d’ordine, si inserì
l’attentato milanese alla Banca Nazionale dell’agricoltura dipiazza Fontana,
che il 12 dicembre 1969 causò 16 morti e un centinaio di feriti. Lunghe
indagini della magistratura hanno permesso di accertare che l’attentato- la cui
responsabilità venne subito attribuita a un gruppo di anarchici, poi risultati
assolutamente estranei al fatto- era maturato in ambienti neofascisti. La bomba
di Piazza Fontana segnò l’inizio della strategia della tensione, che per molti
anni avrebbe insanguinato l’Italia, con lo scopo di indebolire le istituzioni
democratiche e di favorire soluzioni politiche autoritarie.
Benedetta Ravo
1 Precedentemente questi anni il
governo della DC fu definito una “dittatura”. In realtà i metodi e i sistemi
della democrazia parlamentare erano rispettati, ma lo strapotere della DC sulla
scena politica e l’influenza della Chiesa nel Paese, sommati insieme, creavano
una certa confusione tra poteri di Stato e i dettati della religione cattolica.
Naturalmente la DC, in quanto partito, trasferiva sul piano politico quello che
il Vaticano veniva come indicazione “religiosa”. Quando Pio XII aveva
scomunicato i comunisti e i marxisti in generale, quindi anche molti
socialisti, la DC aveva usato quell’arma per emarginare le sinistre italiane.
Così durante il suo pontificato fu impossibile un dialogo con il Partito
Comunista.
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