giovedì 19 dicembre 2013

Giacomo Leopardi: Vita con percorso letterario - Manuale Tellus






GIACOMO LEOPARDI
 PERCORSO LETTERARIO E VITA

La vita. Giacomo Leopardi (Recanati, Macerata, 1798 - Napoli, 1837). Nacque dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Nonostante il sostanziale distacco dai geni­tori - il padre spendeva il suo tempo in opere di inutile erudizione; la madre, arcigna e bigotta, era occupata a curare puntigliosamente il patri­monio familiare - Leopardi trascorse l’infanzia serenamente. Ma, dopo essere stato istruito da due sacerdoti sino all’età di undici anni, egli si rinchiuse nella biblioteca del padre per sette anni di “studio matto e disperatissimo”. Si dette allo studio delle lingue antiche e di alcune lingue moderne e si formò un bagaglio sbalorditivo di erudizione. Scrisse saggi eruditi e fece le prime prove poetiche, ma senza esserne soddisfatto. Verso la fine di questo periodo di studi, suggestionato dalle teorie dei maggiori filosofi illuministi e dal Romanticismo, Leopardi che aveva abbandonato la fede cattolica e si andava progressivamente liberando degli elementi più sorpassati della tradizione letteraria, cominciò a scrivere le sue prime poesie significative. Sono di quest’epoca componimenti a sfondo filosofico sulla condizione dell’uomo; canti di tono civile e patriottico; e i Primi idilli poesie nelle quali il punto di partenza è sempre un quadro paesistico. Intanto il poeta, che nei molti anni trascorsi nel chiuso della biblioteca si era provocato una gravissima distorsione della colonna vertebrale con la conseguenza tristissima di una gobba an­teriore e un’altra posteriore, era tormentato dal desiderio di uscire da Recanati, stagnante cittadina di provincia nell’arretrato Stato Pontificio, per allacciare relazioni e amicizie con letterati ed artisti. Dopo vari tentativi, nel 1827 il poeta ottenne dalla famiglia il permesso di recarsi a Roma, ospite di un zio materno. Ma questo viaggio lo deluse: l’unica commozione provata a Roma fu la visita alla tomba del grande Torquato Tasso. Tornato a Recanati più sconsolato di prima, Leopardi, convinto che i tempi non fossero adatti alla poesia di immaginazione, approfondì le sue riflessioni filosofiche sulla condizione dell’uomo. Da queste meditazioni nacquero nel 1824 le Operette morali, stupendi componimenti in prosa di varia lunghezza.
Nel 1825 si aprì finalmente per il poeta la possibilità di potersi mante­nere fuori di Recanati con i propri mezzi. Ottenne, infatti, dall’editore mila­nese Stella l’incarico di curare alcune pubblicazioni. Dopo brevi soggiorni a Milano e Bologna, il Leopardi si trasferì a Firenze, dove fu accolto con affetto da un gruppo di intellettuali (Viesseux, Capponi, Colletta.) appartenenti allo schieramento liberale moderato. A Firenze conobbe anche Manzoni, e Gioberti che ne apprezzò il genio poetico. Nel 1827 a Pisa dove si era recato per motivi di salute, Leopardi sentì rinascere in sé “gli antichi affetti” e sorse così la sua seconda stagione poetica, che annovera i Canti più belli. Ma, a parte la canzoneA Silvia scritta appunto a Pisa, gli altri componimenti dei Secondi Idilli furono scritti a Recanati, dove il poeta fu costretto a tornare alla fine del 1828, perché per ragioni di salute aveva dovuto interrompere il rapporto di lavoro con l’editore Stella, e la famiglia non era disposta a mantenerlo fuori casa. Dopo avervi trascorso “sedici mesi di orribile notte” , il poeta poté abbandonare definitivamente Recanati nella primavera del 1830, grazie alla generosità degli amici toscani che gli offrirono una somma di denaro con discreta delicatezza per non offenderne l'orgoglio. Di nuovo a Firenze, Leopardi pubblicò sotto il titolo di Canti tutte le poesie composte sino a quel momento e si legò d’amicizia con Anto­nio Ranieri, un giovane liberale napoletano in esilio per motivi politici.
Insieme all’amico nel 1833 si trasferì a Napoli, dove rimase per il resto della sua breve vita. Qui completò le poesie del “Ciclo di Aspasia”, ini­ziato a Firenze dopo l’ultima delusione d’amore. Tra le opere del periodo napoletano, ricordiamo ancora La ginestra, capolavoro di riflessione filo­sofica e di poesia ispirato dal desolato paesaggio vesuviano, e Il tramonto della luna, l’ultima poesia sua poesia.
Spossato dai mali di cui da tempo soffriva, asma e idropisia, Leopardi morì mentre nella città infuriava il colera.

La formazione culturale. La prima formazione del Leopardi si svolge secondo le linee del tradizionale ossequio agli scrittori antichi e le sue prime prove poetiche, ancora acerbe, risentono dell’influsso di certi poeti settecenteschi e del Neoclassicismo elegante ma vuoto di Vincenzo Monti.
Tra i diciotto e i diciannove anni, quando ha già scritto una nutrita serie di saggi eruditi, il Leopardi attraversa due “crisi”, due momenti di intensa riflessione, prima in campo letterario e subito dopo in campo filosofico, che imprimono una svolta radicale alla sua poesia e al suo pensiero.

Crisi letteraria. Si tratta, per usare le parole dello stesso Leopardi, del passaggio dalla “erudizione” al “bello”. Egli si accorge di conoscere poco i classici maggiori come Omero, Virgilio, Dante e di non possedere una lingua poetica autonoma. Si dà quindi a un intenso lavoro di tradu­zione da Omero, Esìodo e Virgilio, mentre legge Alfieri, Parini e Foscolo.

Crisi filosofica, o passaggio dal “bello”, al “vero”. Si verifica nel 1817, anno in cui il giovane Leopardi entra in rapporti epistolari e poi di amicizia con il piacentino Pietro Giordani (1774-1848), redattore della rivista milanese “La biblioteca italiana”, classicista illuminato e liberale perseguitato per le sue idee politiche. Il Giordani intuisce subito la grandezza del Leopardi, il quale dal canto suo agogna di abbandonare i chiusi orizzonti di Recanati per venire a contatto diretto con il mondo vivo della cultura cittadina.
In questo periodo il Leopardi viene a conoscenza dei principi fonda­mentali dell’illuminismo francese, particolarmente del pensiero di Rousseau, mentre dalle opere divulgative di M.me de Staël­ viene informato sul Romanticismo tedesco. Da queste letture e da un fervido lavoro di riflessione testimoniato nelloZibaldone, Leopardi arriva allaprima formulazione dei suoi principi di pensiero e di poetica.

Il pensiero. Alla maniera di Rousseau, il Leopardi vede la storia come un progressivo decadimento dall’originario stato di “natura”, nel quale l’uo­mo era felice, a una condizione sostanzialmente infelice, provocata dalla “civiltà”. L’uomo continua a nascere felice per opera della Natura che è come una madre benefica, ma poi la società e il sopravvento della ragio­ne sulla fantasia lo rendono infelice. Il Leopardi approda così a una visione pessimistica che, essendo fondata su una particolare visione della storia, è stata definita dagli studiosi “pessimismo storico”.
Abbandonando la fede cattolica, il Leopardi aderisce al materialismo illuministico e, come il Foscolo, è portato a vedere la realtà come un pro­cesso meccanico e immodificabile di aggregazione e disgregazione degli ele­menti. Ma dall’illuminismo egli si discosta in un punto fondamentale: il concetto di ragione. All’ottimismo degli Illuministi, basato sulla piena fiducia nei poteri positivi della Ragione, il Leopardi contrappone una conce­zione ambivalente: da una parte l’uomo sente di realizzarsi mediante la conoscenza, ma dall’altra provoca la propria infelicità perché svela a se stesso la vera realtà delle cose, cioè il dolore e il nulla che la buona madre Natura gli vorrebbe celare. Per il poeta, paradossalmente, sono felici sol­tanto coloro che vivono in quella condizione di ignoranza nella quale la Natura li ha messi al mondo: nella sua esperienza, i contadini e gli artigiani di Recanati; nelle sue supposizioni, qualche popolo beato che potrebbe vivere nelle foreste della California.
Ma il pessimismo leopardiano non è il vittimismo romantico:il poeta, infatti, non piange sulle proprie disgrazie, che anzi interpreta in una dimensione universale, come esempio cioè della condizione storica d’in­felicità dell’uomo. Per questo egli intende offrire una lezione agli uomini del suo tempo, invitandoli a guardare la realtà con coraggio (evidenti gli influssi dell’eroismo alfieriano) e senza facili fughe nelle illusioni. In cam­po politico, ad esempio, occorre tenere desto l’amor patrio ma senza vagheggiare un rinnovamento dell’Italia a breve termine, viste le condi­zioni imposte dalla Restaurazione.

La poetica. Le linee della poetica leopardiana compaiono, oltre che in numerose pagine dello Zibaldone, soprattutto in due saggi scritti dopo il sorgere del dibattito tra classicisti e romantici: “Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana” (1816), e “Discorso di un italiano intorno alle poesia romantica” (1818).
Del Romanticismo il Leopardi accoglie il principio della libertà nell’arte con l’abbandono della mitologia, delle regole e del canone dell’imi­tazione dei classici rimasto nella tradizione letteraria italiana dopo la grande stagione del Rinascimento (prima metà del sec. XVI). Del Romanticismo accetta anche la scoperta del regno dei sentimenti, ma rifiuta alcune espressioni romantiche caratteristiche, soprattutto, del Romanticismo tedesco: la confusione, cioè, tra effusione dei sentimenti e analisi razionale di essi­ (psicologismo); la ricerca non più dell’eleganza e dell’armonia, bensì dello strano, dell’esotico, dell’orrido. Al Leopardi non piace nemmeno la volontà dei romantici italiani di dare alla letteratura una fun­zione morale e civile e l’uso conseguente, da parte degli scrittori, del romanzo e del teatro come generi di più immediato contatto con il pubblico.
Per quanto riguarda la sua poetica, il Leopardi afferma che la società moderna, corrotta dalla “civiltà”e dalla ragione, non può essere ispiratrice di poesia perché questa appartiene al regno della fantasia e dell’istinto. Compito del poeta è quello di liberare la sensibilità naturale nelle sue espressioni immediate e genuine, ispirandosi alla poesia delle epoche an­tiche, come quella di Omero, quando gli uomini, vicini allo stato di natura, manifestavano i propri sentimenti in forme immaginose e fantastiche.
Alla poesia di immaginazione propria degli antichi ci si accosterà, oltre che ovviamente con il superamento dei non-valori del presente, con l’uso di un linguaggio semplice e musicale e con il senso della misura e del decoro che distingue poeti come Omero, Virgilio e il Petrarca. Quest’ultimo, in particolare, viene assunto dal Leopardi a maestro di una lingua poetica chiara, sobria ed armoniosa, in un orizzonte di scelte lessicali che spazia comunque nel vasto arco della nostra letteratura, senza esclu­dere il parlato moderno.
Ma è possibile ai moderni il recupero della poesia di immaginazione?
Nella prima fase della sua produzione poetica il Leopardi non sempre ne è sicuro, anzi si orienta perlopiù verso una poesia di “riflessione filosofi­ca” sulla condizione presente, decaduta e angosciata, dell’umanità. Trattandosi di espressione della ragione e non della fantasia, questo tipo di poesia non ha di per sé quasi nulla di immaginoso e di fantastico, mentre potrebbe definirsi come una sorta di moderna eloquenza; se non che l’ispirazione lirica pervade ugualmente, in certi momenti, anche la poesia “filosofica” leopardiana (ad esempio, le canzoni “All’Italia”, “Ad Angelo Mai”, “Ultimo canto di Saffo”).


Il primo tempo della poesia leopardiana. La prima produzione poetica matura del Leopardi va dal 1818 al 1822. E’ questo un periodo di intenso lavoro meditativo e creativo durante il quale il poeta sperimenta varie tematiche e vari generi non sempre coerenti con i principi teoretici che professa. Quando pubblicherà le sue poesie con il titolo generale di Canti (1831), egli sceglierà una serie di componimenti scritti in parte secondo o schema della canzone petrarchesca, in parte secondo le forme dell’idil­lio. Quest’ultimo tipo di componimento, di antica origine greca, nella tradizione soprattutto settecentesca consisteva in un’opera poetica di breve respiro (idillio piccola immagine) di carattere agreste. Il Leopardi ne mantiene lo spunto paesaggistico ma trasformandolo, con spirito roman­tico, in un paesaggio-stato d’animo, per cui l’idillio diventa, come egli stesso scrive, l’espressione di “situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo”.
La canzoni, in numero di nove, possono essere così distinte in rapporto alla loro tematica:

Canzoni patriottiche: All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai;
Canzoni civili: A un vincitore nel gioco del pallone, Nelle nozze della sorella Paolina;
Canzoni “del suicidio”: Bruto minore, Ultimo canto di Saffo
Canzoni di vagheggiamento delle età antiche: Alla primavera o delle favole antiche, Inno ai Patriarchi.

In questi componimenti il Leopardi, mentre esprime una visione pes­simistica dell’età presente, lancia un fervido invito al recupero delle età eroiche e mitiche del passato, suscitatrici ora di virtù patriottiche e civili, ora di un vagheggiamento immaginoso della semplicità e dell’immedia­tezza degli affetti proprie dei popoli antichi. I risultati poetici sono disu­guali per la commistione di poesia di immaginazione e di poesia filosofica; tuttavia in ciascun componimento si possono isolare versi molto belli e motivi che preludono al Leopardi maggiore. Le canzoni più dense di suggestione poetica sono Ad Angelo Mai e le due canzoni “del suicidio”: Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, denominate così perché riguar­dano due personaggi ritratti nel momento in cui stanno per darsi la morte.
L’espressione lirica trova, invece, un ritmo più unitario e più felice­mente risolto nei sei “Idilli” composti contemporaneamente alle Canzoni. Essi vengono chiamati ordinariamente “Piccoli Idilli” o “Primi Idilli” per di­stinguerli da una seconda serie che verrà scritta tra il 1828 e il 1830.
Essi sono: L’infinito, La sera del dì di festa , Alla luna, Il sogno, Lo spavento notturno, La vita solitaria.
Traendo spunti dalla propria esperienza , sullo sfondo di un particolare aspetto o momento del paesaggio recanatese (ad esempio, lo stormire delle fronde nell’Infinito, la calma che subentra a Recanati dopo un giorno festivo ne La sera del dì di festa), il Leopardi fa della propria esperienza dolorosa il segno della condizione umana, con un tono poetico del tutto nuovo che costituisce una svolta importante nella storia della poesia italiana. Leopardi, infatti, scopre i temi della rimenbranza e dell’indefinito, dai quali trae suggestioni e immagini poeticissime che alimentano l’illusione di accostarsi a un’arte di pura immaginazione e di pacata effusione di sentimenti. Questo effetto poetico viene ottenuto anche mediante una particolare scelta di parole che danno un impressione di indeterminatezza, di lontananza, di infinito come lontano, antico, notte, notturno, rimembranza o di parole antiche che, essendo cadute dall’uso, hanno in sé un tono vago e immaginoso come ermo (solitario), sollazzo (divertimento), ostello (abitazione).
Tra i Primi idilli risaltano per particolare bellezza poetica L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna.
           

Poesia d’immaginazione e poesia di sentimento. La prima caratteristica dell’età primitiva in cui la natura prevale sulla ragione, la seconda della nostra età, nella quale al contrario, la ragione prevale sulla natura; si sviluppa in Leopardi la convinzione che elementi essenziali della Poesia sono il senso dell’infinito e la rimenbranza, cioè il vago, l’indistinto, il remoto nel tempo e nello spazio, perché soltanto questi elementi possono salvare la poesia dal predominio della ragione.
Con Le canzoni del suicidio comincia ad entrare in crisi, nella concezione del poeta, il suo sistema della natura benigna e cioè il mito positivo della natura s’incrina. Compaiono sollecitazioni intrise di dubbio e sconcerto verso la natura. Non solo i moderni sono infelici, ma anche gli antichi conoscevano il dolore. Compaiono così nel poeta i primi segni del passaggio da quello che è stato detto “pessimismo storico” a quello definito “cosmico”, che investe non solo la storia degli uomini ma la stessa natura. Dunque nei successivi “Primi idilli” già abbiamo una prima corrosione del mito della natura. Con la formulazione del “pessimismo cosmico” la poesia scelta da Leopardi sarà la poesia sentimentale, la sola concessa ai moderni, nutrita di riflessioni e di convincimenti filosofici.

Le Operette morali.Derivano dalle riflessioni del Leopardi dopo la e grave delusione subita a Roma. Convinto che i tempi non consentono la poesia d’immaginazione, il poeta si propone di esprimere il suo pensiero e le sue immagini in una prosa satirica alla maniera dell’antico scrittore greco Luciano (Il sec. d.C.) e di alcuni moderni, come gli illuministi fran­cesi Voltaire e Diderot.
Le Operette morali sono ventiquattro, di cui diciannove scritte nel 1824 e cinque in anni successivi; molte hanno la forma del dialogo tra personaggi storici o tra personaggi fantastici.
Nelle Operette il pessimismo leopardiano subisce un’evoluzione dalla forma del “Pessimismo storico” a quella del “Pessimismo cosmico”(cosmico = universale), sulla base di una particolare i “teoria del piacere”.
Sino a questo momento il Leopardi ha visto prevalentemente la Natura come una madre benefica; ora, riflettendo sul fatto che l’istinto naturale al “piacere”, cioè alla felicità, non si realizza mai, il poeta vede nella Natura non più una madre generosa ma una crudele matrigna. Essa, infatti, illude l’uomo con molte promesse di felicità ma poi non concede nulla, perché è mossa dal proposito perverso di farlo soffrire. Qualche volta, come nel bellissimo Dialogo della Natura e di un Islandese, la Natura appare del tutto indifferente alla sorte delle sue creature, il che è ancora peggio. Gli uomini, dunque, in tutto l’universo e in qualsiasi epoca, nascono con un destino di dolore tanto più grave in quanto la loro fanciullezza e la giovinezza sono tutte pervase da illusioni di felicità.
Le Operette morali, pur se scritte in prosa, sono opere di alta poesia dove il Leopardi, con un linguaggio originalissimo fondato perlopiù su verbi e sostantivi, manifesta profonda pietà per la sorte dell’uomo che si illude in sogni di irrealizzabile felicità. Altre volte, invece della pietà, Leopardi adopera l’ironia di fronte alla stolta boria di coloro che vorrebbero mistificare la loro condizione con sogni di grandezza e d’immortalità.
Leopardi vuole insegnare agli uomini il coraggio nel prendere coscienza propria condizione e la fierezza nel porsi di fronte alle sventure dell’esistenza.

I“Grandi Idilli”.Queste convinzioni continuano a dominare nel sottofon­do dei sei “Grandio Secondi Idilli”: A Silvia, il passero solitario (già abbozzato ai tempi dei Primi idilli), Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio.
Questi componimenti si collegano ai Primi idilli per la poetica e per i temi. Il Leopardi, infatti, continua a considerare la poesia come effusione sentimentale e trae ancora spunto dagli elementi paesaggistici e umani di Recanati. Ma essi riflettono un diverso atteggiamento del pensiero, una mutata disposizione dell’animo e si risolvono in un canto poetico più maturo.
Ora il Leopardi attribuisce il male della storia e della vita non più all’uomo artefice della “civiltà” ma alla Natura matrigna Egli non crede più alla possibilità di suscitare sentimenti eroici, perché il fine della vita è il nulla quell’ abisso orrido, immenso dove l’uomo precipitando di­mentica ogni cosa. L’unica consolazione che ci rimane è di indulgere a quella disposizione nativa che ci porta acolorare di illusione il nostro presente doloroso con la rimembranza del passato, di quel passato che il tempo trascolora e depura di ogni nota negativa. In questo periodo il poeta scrive sulle pagine dello Zibaldone che  “quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranze, che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente” . E ancora: “Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche e chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente o nella poesia o nel no­stro proprio immaginare, perché ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e
credenze ci erano familiari e ordinarie”.
Ecco dunque che il poeta, a contatto con iluoghi della fanciullezza e della giovinezza, recupera, sull’onda della memoria, quei periodi che ora gli appaiono trasfigurati per la lontananza e canta una sua giovinezza ricca di sogni e di speranze, quale in realtà non era mai stata. Tanto più il passato è caro all’animo del Leopardi in quanto egli stabilisce un continuo confronto con il presente desolato, in un fluire di evocazioni e di immagini nel quale, in una sintesi perfetta, i toni incantati si alternano a quelli elegiaci nel ricordo delle due fanciulle amate, Silvia  e Nerina, a quelli fermamente lucidi che rappresentano il dolore dell’universo.
I Grandi Idilli sono un puro canto nel quale anche le riflessioni filosofiche si trasfigurano perfettamente in immagini poetiche, perdendo i toni duri che avevano talora nei Primi Idilli. L’ incanto insuperato di queste poesie leopardiane dipende anche dalle scelte metriche e linguisti­che. Il poeta adopera ora l’endecasillabo sciolto già usato nei Primi Idilli ora, abbandonando la canzone petrarchcsca, usa la canzone a strofe libera. consistente nella libera alternanza di endecasillabi e settenari. Nel linguag­gio il Leopardi porta a compimento la ricerca iniziata nelle poesie giova­nili, adoperando parole adatte a suggerire immagini vaghe, indistinte, indefinite, musicali; parole che egli desume sia dal linguaggio degli scrit­tori sia dal parlato quotidiano e familiare.

L’ultimo Leopardi. Dopo il definitivo abbandono di Recanati, soggiornan­do a Firenze il Leopardi trae occasione dal deluso amore per la nobildon­na Fanny Targioni-Tozzetti, per comporre le cinque liriche del cosiddet­to “ciclo di Aspàsia”: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspàsia.
L’amore è considerato dal poeta come un dono del cielo “terribile ma caro”, che a un tempo esalta e distrugge l’uomo. Il senso eroico della vita che percorre tutta l’opera leopardiana qui emerge in primo piano, con una rinnovata volontà del poeta di aprirsi alla comunicazione con gli uomini, per renderli consapevoli del comune destino. Alla forza di­struttiva della Natura bisogna opporre un atteggiamento solidale e virile con la rinuncia a ogni iìiuslone. Iltono poetico non e più quello dell’ idil­lio ma della meditazione consapevole, ferma, distaccata dalle pur dolci illusioni della fantasia. I risultati artistici, non sempre del tutto felici, raggiungono un vertice di scarna grandezza e di eroico, disilluso coraggio in A se stesso.
In questa prospettiva di apertura cordiale agli uomini si muove La ginestra, il più lungo canto leopardiano, scritto a Napoli. Oltre che grandiosa opera di poesia, questo componimento è la manifestazione finale del pensiero del poeta. Prendendo spunto dalla ginestra, l’unica pianta che riesca a sopravvivere sulle aride pendici del Vesuvio “sterminatore”, il Leopardi esorta gli uomini alla solidarietà universale per difendersi, per quanto possibile, dai colpi che la Natura può infliggere con i suoi tremendi poteri. Recuperando il valore della ragione, egli invita i contemporanei ad abbandonare l’illusorio e facile ottimismo nel progresso, per prendere coraggiosa coscienza della vera condizione dell’uomo.
Suiggestivo l’ultimo componimento del Leopardi: Il tramonto della luna.







martedì 17 dicembre 2013

Alessandro Manzoni: Vita con percorso letterario - Manuale Tellus





ALESSANDRO MANZONI
Vita con percorso letterario


Vita (Milano, 1785 – 1873). Probabilmente padre naturale del Manzoni fu il nobile milanese Giovanni Verri, con il quale Giulia Beccaria aveva una relazione fin da prima di sposare controvoglia il conte Pietro Manzoni, un gentiluomo di campagna che non le si addiceva né per età né per gusti di vita. Giulia era figlia del grande illuminista Cesare Beccaria, autore del celebre saggio Dei delitti e delle pene(1764), nel quale era stata propugnata, con persuasiva efficacia, l’abolizione della tortura e della pena di morte.
Dall’età di sei anni il Manzoni studiò presso collegi religiosi a Merate, Lugano e Milano, mentre la madre, dopo la separazione dal marito, si tra­sferiva a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati. Il giovane Manzoni ricevette un’educazione di tipo classicistico, risentendo nello stesso tempo delle suggestioni illuministiche che gli derivavano dalla famiglia materna, e prediligendo negli studi il Parini e l’Alfieri, per la loro moralità, e il Monti, per l’eleganza dei suoi versi.
Uscito di collegio a quindici anni, il Manzoni scrisse il Trionfo della libertà, un poema inneggiante, in forme artistiche ancora acerbe, alla Rivo­luzione francese e all’ideale repubblicano. Sino a vent’anni fu praticamente solo, conducendo la vita piuttosto dissipata del giovane patrizio ben provvisto di mezzi, ma anelando anche ad emergere nel campo delle lettere. Infatti strinse amicizia con il Monti, conobbe il Foscolo ed ebbe molto da imparare dagli esuli napoletani Francesco Lomonaco e Vincenzo Cuoco, scampati alla rovina della Repubblica Partenopea del 1799. Soprattutto dal Cuoco, autore del Saggio storico sulla rivolu­zione napoletana del 1799, Manzoni derivò l’interesse per la storia, alla luce del pensiero del filosofo napoletano Giambattista Vico, e la convin­zione che la libertà è una conquista lenta, possibile soltanto dopo l’educa­zione dei cittadini.

A questi anni risalgono alcuni sonetti tra i quali Autoritratto, l’idillio Adda, dedicato al Monti, e quattro Sermoni di ispirazione pariniana e alfieriana. In questi componimenti si delinea già il carattere inconfondibile del Manzoni, con la sua austera moralità, la fermezza dei propositi e l’assenza di ogni abbandono sentimentale.
Nel 1805, invitato dalla madre, si recò a Parigi dove trascorse, salvo qualche interruzione, cinque anni decisivi per la sua formazione e per la sua vita. Per consolare la madre della perdita dell’uomo amato, compose nello stesso anno il carme In morte di Carlo Imbonati, l’opera giovanile più importante perché vi è espresso un programma di vita nel quale già si rivela la moralità del futuro uomo e scrittore.
Favorito dalle amicizie della madre, che era donna colta e ricca dl interessi, il Manzoni frequentò alcuni salotti letterari nei quali un gruppo di intellettuali - i cosiddetti Ideologi - manteneva vive le idee della Rivoluzione francese. Particolarmente affettuosa fu l’amicizia stretta con lo storico e letterato Claudio Fauriel, uno dei divulgatori, insieme a Mme de Staël, del Romanticismo in Francia. A lui il Manzoni dedicò Urania (1809), poema neoclassico elegante ma ben lontano dall’autentica ispirazione del giovane autore, che scrisse all’amico: «Sono scontentissimo di questi miei versi, soprattutto per la loro totale mancanza d’interesse; d’or innanzi ne scriverò forse di più brutti, ma di simili a questi mai più». Un chiaro segno della volontà del Manzoni di cercare nuove vie di più solido impegno. Negli anni trascorsi a Parigi egli arricchì ulteriormente le sue conoscenze, trovando conferma agli ideali liberali e umanitari e all’interesse per la storia.
Nel 1808 sposò Enrichetta Blondel, di origine svizzera e di religione calvinista, la quale ben presto si convertì al cattolicesimo. Stimolato dall’esempio della moglie, il Manzoni passò da un atteggiamento religioso piuttosto tiepido all’inquietudine della ricerca e dopo lunghi studi e approfondite riflessioni pervenne nel 1810 alla conversione al cattolicesi­mo, con il proposito, mai tradito, di fare della fede una norma totale di vita. Trasferitosi a Milano nello stesso anno, vi rimase quasi ininterrot­tamente per il resto della sua lunga vita, dimorando ora in città ora nella villa che possedeva a Brusuglio.
Dal 1812 al 1827 in un regime di vita lineare interrotto solo nel 1819-1820 da un viaggio a Parigi per motivi di salute, il Manzoni esaurì la sua breve ma intensa fase creativa, componendo gli Inni sacri, le tragedie Il conte di Carmagnola eAdelchi, e I promessi sposi. Fra le tragedie e il romanzo vanno ricordate leOsservazioni sulla morale cattolica, importan­ti non per l’arte ma per il pensiero del Manzoni. Aderì al Romanticismo, fornendo contributi originali di elaborazione teorica. Nel 1827, dopo la prima edizione dei Promessi sposi, si recò a Firenze per attingere diret­tamente al parlato toscano prima di procedere a una paziente revisione linguistica dell’opera.
Dopo l’edizione definitiva del romanzo (1840-42), il Manzoni si dedicò a studi storici e linguistici: Storia della colonna infame (1842); Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (Lasciato incompiuto e pubblicato postumo); uno studio sulla lingua italiana rimasto anch’esso incompiuto e pubblicato postumo con il titolo Sentir Messa.
Circondato da una larga fama e dal rispetto generale, il grande scrit­tore visse in modo appartato e discreto, a causa del suo carattere riservato e di certi disturbi nervosi che lo travagliarono quasi tutta la vita. Per le stesse ragioni non partecipò alla politica attiva, ma seguì sempre con at­tento interesse le vicende del nostro Risorgimento. Morta l’amatissima Enrichetta nel 1833, quattro anni dopo il Manzoni si risposò con Teresa Borri Stampa. Ma la sua lunghissima vita continuò ad essere turbata da numerosi lutti familiari, sopportati con cristiana e ferma rassegnazione: la morte della madre, della seconda moglie e di sei degli otto figli. (Sulla famiglia Manzoni ha scritto un ottimo romanzo biografico Natalia Ginzburg ed anche Celati con il suo Manzoni). Nel I861 fu nominato senatore e ricevette la visita di Cavour e di Garibaldi.
Nel primo anniversario della sua morte Giuseppe Verdi fece eseguire la Messa da requiem a lui dedicata.

La formazione intellettuale e letteraria. Mentre Leopardi esprime, al livello più alto, la componente lirica del Romanticismo italiano, Manzoni è l’au­tore che da una parte arriva a fornire il quadro teorico più organico e più avanzato del movimento romantico lombardo e dall’altra ne attua nella forma più compiuta la tendenza realistica.
La formazione intellettuale, morale e letteraria del Manzoni deriva da tre componenti:l’Illuminismo, la conversione al cattolicesimo, il Roman­ticismo.

Manzoni e l’Illuminismo. Già nell’infanzia il Manzoni assorbì idee illuministiche nell’ambiente familiare attraverso la madre Giulia Beccaria e le relazioni di questa con gli ambienti milanesi colti, dove era sempre viva l’eredità lasciata dal gruppo del famoso periodico Il Caffè (1764-66). Gli anni trascorsi a Parigi (1805-1810) confermarono e arricchirono le convinzioni che il giovane Manzoni si era già formato a Milano. Infatti, l’amicizia allacciata con gli Ideologi e in particolare con il Fauriel, rafforzò in lui il senso morale già per sé saldo; l’apertura verso le idee di libertà uguaglianza e giustizia; l’insofferenza per gli schemi precostituiti sia in campo politico-sociale sia nell’attività letteraria; la fiducia nella funzione educativa della letteratura.
Ma con l’illuminismo il Manzoni ebbe un confronto critico, in quanto rifiutò quelle componenti che contrastavano con l’etica e con i fondamenti della fede cristiana, come il deismo (la fede in un Dio astratto, variamente configurato, e lontano dagli uomini) e il materialismo (quest’ultimo accet­tato, invece, da Foscolo e da Leopardi). Infatti, anche prima della con­versione egli era intimamente religioso, pur se talvolta ostentava anticlericali.

La conversione. L’adesione al cattolicesimo fu per il Manzoni il passaggio da un atteggiamento morale già intimamente cristiano a una profes­sione aperta della fede, tale da coinvolgere pienamente la sua vita. Del cattolicesimo, studiato profondamente nella dottrina, lo scrittore esaltò soprattutto le componenti evangeliche della giustizia e della donazione di sé agli altri. Un po’ per il suo rigorismo morale, un po’ per influsso della moglie Enrichetta educata al calvinismo, il Manzoni risentì in qualche mo­do di certe tendenze giansenistiche dei sacerdoti che ebbe come direttori spirituali, Eustachio Dègola a Parigi e Luigi Tosi a Milano. (Il giansenismo, che prende nome dal vescovo olandese Cornelio Giansenio, 1585-1638, fu una dottrina che professò un severo rigore morale, necessario perché l’uomo nasce con l’inclinazione al peccato e non è sicuro di essere nel numero dei predestinati ai quali soltanto Dio concede la Grazia. Questa dottrina, giudicata ereticale dalla chiesa cattolica, si diffuse particolarmente in Francia nel secolo XVIII, ricevendo l’adesione di grandi ingegni come lo scrittore, scienziato e filosofo, Blaise Pascal,1623-1662, finché tramontò verso la fine del sec. XVIII per le condanne e le persecuzioni subite). Tracce gian­senistiche rimarranno in Manzoni nel rigore delle convinzioni morali e nella con­cezione pessimistica della storia (più evidente nelle tragedie).
La conversione esaltò, alla luce degli insegnamenti evangelici, quei principi di libertà, di giustizia e di adesione ai bisogni degli oppressi che il Manzoni era venuto formandosi sino a quel momento. Per questo egli non condivise gli atteggiamenti politici assunti dalla Chiesa durante la Restaurazione (il principio dell’alleanza fra il trono e l’altare) e più tardi auspicherà l’annessione dello Stato Pontificio all’Italia, in quanto peso inutile e dannoso per l’azione schiettamente religiosa della Chiesa. Una posizione, questa, che rivela i caratteri innovatori del cat­tolicesimo manzoniano a differenza degli atteggiamenti degli altri cattolici liberali del tempo. Sul versante letterario, la conversione volle dire per il Manzoni la ricerca di temi nuovi permeati di sostanza morale e socialmente utili.

La poetica romantica del Manzoni. Il Manzoni seguì con fervida ade­sione le polemiche dei romantici contro la vecchia cultura italiana ristretta ai cenacoli letterari, e le loro battaglie per una nuova cultura, basata sul­l’osservazione del presente e quindi indirizzata a un pubblico popolare (cioè, borghese, secondo il significato che la parola popolo aveva in quel periodo). Su queste tendenze di fondo, che si allacciavano alla linea della cultura lombarda più viva nel Settecento - quella illuministica - il Manzoni si trovò pienamente d’accordo, perché corrispondevano sia al suo carattere sia alle sue idee.
Ma anch’egli, come il Leopardi, assunse nei confronti del Romanticismo posizioni autonome, attraverso un serio lavoro di riflessione sui documenti teorici dei romantici sia italiani sia stranieri, oltre che attraverso il ripen­samento critico delle opere che veniva componendo (Inni sacri e tragedie). Senza riserve egli accettò la parte polemica del movimento: rifiuto della mitologia anche in considerazione della sua natura pagana; rifiuto delle regole e dell’imitazione dei classici; fastidio per tutto ciò che sapesse di antiquato e libresco. Per quanto riguarda la parte co­struttiva, la tendenza romantica più rispondente al suo mondo morale e poetico gli parve quella realistica, la più idonea per attuare un programma di educazione di un nuovo e più vasto pubblico di lettori. Diffidò, invece, della componente lirico-individualistica, in quanto, a suo giudizio, com­portava il rischio dell’abbandono sentimentale e dell’invenzione fantastica fuorviante e gratuita.
Le linee della poetica manzoniana sono rintracciabili in molte lettere private, soprattutto quelle indirizzate al Fauriel, ma in special modo in due saggi, scritti anch’essi in forma di lettere: Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie (scritta nel ’20 e pubblicata nel ’23: “Lettera al sig. Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia”); Lettera “Sul Romanticismo” al marchese Cesare d’Azeglio, scritta come documento privato nel ‘23 e pubblicata parecchi anni dopo. Insieme alle elaborazioni teoriche del Leopardi, rimaste inedite, i due saggi man­zoniani sono l’espressione più alta del dibattito promosso dal Romanticismo.

I principi della poetica manzoniana possono riassumersi in due punti fondamentali: il “vero storico” e il “vero poetico” .

IL VERO STORICO. Manzoni afferma che «la poesia, e la letteratura in genere, deve proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interes­sante per mezzo».
L’utile per iscopo. In coerenza con gl’insegnamenti ricevuti dal Parini, dall’Alfieri, dall’Illuminismo e alla luce della sua concezione cristiana, il Manzoni vuole un’arte moralmente e socialmente utile. Le opere lettera­rie devono ispirare, con lo svolgimento delle vicende rappresentate o nar­rate, il naturale desiderio del bene e accrescere il patrimonio spirituale civile del pubblico.
Il vero per soggetto. Il vero è per il Manzoni «l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole», poiché «il falso può bensì trastullar la mente, ma non arricchirla, né elevarla». Il vero viene identificato nella storia che, come il Manzoni ha appreso dagli Ideologi, non dovrà essere più soltanto quella tradizionale dei grandi protagonisti e dei popoli vincitori, ma piuttosto quella delle plebi vinte e oppresse, alle quali gli storiografi non hanno ancora prestato la doverosa attenzione.
L’interessante per mezzo. Per ottenere l’utile come fine, la letteratura deve scegliere argomenti verso i quali la massa dei lettori abbia un interes­se derivante dalla realtà vissuta e presente, «dalle memorie e dalle im­pressioni giornaliere della vita». Sino ad ora, invece, la letteratura ha trattato abitualmente argomenti che hanno interessato la sola classe dei letterati.

Il VERO POETICO. Manzoni afferma che «la poesia completa la storia» poiché mentre lo storiografo accerta i fatti guardandoli dal di fuori, il poeta con la sua sensibilità mette in evidenza un altro vero: il vario agitarsi dei sentimenti nel cuore dei protagonisti della storia.

Vero storico e vero poetico dunque concorrono alla formazione di una letteratura rinnovata che da una da una parte, mettendo in luce i sentimenti dei protagonisti della storia, farà conoscere la grandezza e la miseria dell’uo­mo; dall’altra darà una voce alle sofferenze dei popoli vinti e oppressi, che sono passati sulla terra senza lasciarvi traccia.

Inni sacri. Costituiscono le prime opere poetiche valide del Man­zoni,interiormente rinnovato dalla conversione e proteso all’espressione del proprio autentico mondo morale e sentimentale.

Nel progetto del poeta dovevano essere dodici dedicati ciascuno a una grande festa liturgica, ma ne furono composti solo cinque: quattro fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione; Il nome di Maria; Il Natale; La Passione) e l’ultimo, La Pentecoste, terminato, dopo varie riprese, nel 1822. Rimane unframmento di un sesto inno incompiuto, Ognissanti. L’argomento sacro corrisponde alla nuova sensibilità del Manzoni con­vertito da poco, ma nei temi religiosi si riversa tutta la sostanza umana e culturale del poeta con tutto ciò che gli deriva dalla sua prima formazione illuministica. Dal punto di vista artistico gli Innisacricostituiscono un’im­portante novità perché il Manzoni rifiuta la lirica tradizionale di deriva­zione petrarchesca, come anche quella contemporanea influenzata dal Neoclassicismo, per tendere a poesia sliricata, priva cioè di effusioni sentimentali e tutta fondata, al contrario, sulle verità oggettive che costi­tuiscono il patrimonio della religiosità popolare. Nei primi quattro inni la materia dottrinale non sempre si traduce in immagini poetiche e manca un vigoroso disegno unitario che organizzi ivari elementi in una struttura armoniosa. Anche il linguaggio è disuguale, poiché vi si alternano termini letterari, latinismi e espressioni di origine popolare. Non mancano, tut­tavia momenti di poesia autentica là dove il Manzoni tocca la sostanza sociale del cristianesimo come messaggio di uguaglianza e di liberazione per gli uomini più deboli e più bisognosi. In questi punti traspare già quell’adesione ai problemi degli oppressi e dei derelitti che emergerà compiutamente nei Promessi sposi.
Una robusta struttura unitaria e un’ispirazione più matura distinguono inveceLa Pentecoste, dove la rievocazione della discesa dello Spiri­to Santo sugli Apostoli si svolge in un ampio quadro di sintesi storica, e la necessità dell’azione perenne di Dio a favore dell’uomo viene espressa in una calda e vibrante preghiera, che il Manzoni innalza a nome di tutta l’umanità bisognosa di sostegno, di correzione, di conforto.

Le Odi. Sono due: Marzo 1821 e Il Cinque Maggio.
Il Marzo 1821 fu scritto durante i moti carbonari piemontesi, quando sembrava che Carlo Alberto si ponesse alla guida di un movimento di libe­razione nazionale. L’ode, rimasta medita per il volgere degli avvenimenti contrario alle speranze dei patrioti, venne pubblicata solo nel 1848 durante l’insurrezione antiaustriaca milanese (le Cinque Giornate di Milano). Oltre che di motivi patriottici, l’ode è intessuta anche di motivi morali e religiosi, che le danno un rilievo tutto particolare, tipicamente manzoniano, nell’ambito della letteratura romantico-risorgi­mentale. La riscossa degli Italiani rientra, secondo il poeta, nella storia degli oppressi che in ogni tempo si sono ribellati agli oppressori, combat­tendo in nome della giustizia sotto il vigile occhio protettore di Dio. I Tedeschi (il poeta chiama così anche gli Austriaci) che hanno combattuto una guerra giusta contro Napoleone, oppressore della loro libertà, non possono - se non tradendo i loro stessi ideali più sacri - restare come oppressori in quell’Italia che è “una d’arme, di lingua, d’altare’.
La visione religiosa della storia e della vita illumina anche la vicenda terrena di Napoleone nel Cinque Maggio: per il Manzoni, que­st’uomo dalle doti eccezionali diventa veramente grande quando nella mi­seria dell’esilio si riconosce strumento di Dio e nella fiducia in lui trova la vera pace interiore.


Le tragedie. Sono due: Il conte di Carmagnola, pubblicato nel 1820 con dedicata al Fauriel, e Adelchi, pubbucato nel 1822 con dedica alla moglie Enrichetta Blondel. Come le tragedie tradizionali, sino in cinque atti in versi, ma per la prima volta non vi si trovano osservate le unità di tempo e di luogo. Il Manzoni, infatti, come scrive nella Lettre a M. Chauvet, crede indispensabile soltanto l’unità d’azione, concepita come unità d’ispirazione e di struttura fondamentalmente necessaria in ogni opera d’arte, mentre ritiene che le unità di tempo e di luogo siano artificiose, inverosimili e limitatrici della libertà delpoeta. Altra novità èla presenza del Coro:uno nel Conte di Carmagnola,duenell’Adelchi.Il Coro, presente nell’an­tica tragedia greca, viene ripreso dal Manzoni comeun cantuccio dove il poeta possa parlare in persona propria, fare cioè le proprie osserva­zioni morali sulle vicende rappresentate sulla scena.
Lo tragedie sono le prime opere nelle quali il Manzoni applica il criterio del “vero” identificato con la storia, quando ormai la sua poetica e la sua ideologia arrivano a un livello di piena maturità. Con la serietà che lo distingueva, prima di affrontare questo nuovo genere lesse le opere di Shakespeare e studiò leLezioni sull’arte e sulla letteratura drammatica del tedesco August Wilhelm von Schlegel, che insieme, al fratello Friedrich era stato tra i fondatori e i massimi teorici del Romanticismo tedesco.
Segno visibile dello scrupolo del Manzoni sono le prefazioni di carattere storico ed estetico alle sue tragedie.

Il conte dl Carmagnola. Tratta la vicenda di un capitano di ventura della prima metà del sec. XV, Francesco di Bussone, conte di Carmagnola. Dopo essere stato al servizio di Filippo Maria Visconti, di cui è diventato genero, Il Carmagnola viene destituito dal duca, geloso delle sue vittorie, e passa al servizio dei Veneziani. Scop­piata la guerra tra Venezia e Milano, combatte contro il Visconti e lo sconfigge nella battaglia di Maclodio (1427). Ma la liberazione dei prigionieri, dettata da un impulso di generosità, e la conduzione piut­tosto fiacca della guerra insospettiscono il Senato veneziano, che accusa il Carmagnola di tradimento e lo condanna a morte. Tra i senatori c’e Marco, amico del Carmagnola. Questi vorrebbe salvarlo, ma sul senti­mento dell’amicizia deve far prevalere l’interesse dello Stato, sia pure con una decisione molto sofferta. Rimasto solo, il Carmagnola sale sul patibolo dopo aver dato l’ultimo saluto alla moglie e alla figlia.

Il senso della tragedia è pessimistico, poiché la storia appare al Manzoni come il regno della violenza che fa soccombere un innocente e fa piegare alle ragioni della politica le ragioni del cuore, anche se il poeta tempera la sua visione negativa con la luce della fede che alla fine consola il Carmagnola. Ma la conclusione è come giustapposta all’intera vicenda, che risulta costruita quasi su due protagonisti diversi: dapprima il Carma­gnola uomo d’armi, poi il Carmagnola uomo di fede, senza un trapasso plausibile e convincente da una configurazione all’altra. Oltre la mancata unità del personaggio principale, c’è nella tragedia una certa rigidità nella contrapposizione di valori positivi e di valori negativi. Non mancano tut­tavia momenti felici, come il soliloquio di Marco, lacerato tra i doveri dell’amico e quelli dell’uomo di Stato, e come il Coro (S’odea destra uno squillo di tromba...), nel quale il Manzoni, descrivendo la guerra tra Vene­ziani e Milanesi, lancia un richiamo indiretto agli Italiani del suo tempo affinché abbandonino le discordie e le lotte fratricide.
Di esito molto più felice, anzi vero capolavoro, è l’ Adelchi nel quale il Manzoni si ispira alle vicende che determinarono la fine del Regno longobardico in Italia tra il 772 e il 774.

Adelchi. Ermengarda, sposa ripudiata di Carlo re dei Franchi, torna a Pavia presso il padre Desiderio, re dei Longobardi, e il fratello Adelchi, con il proposito di ritirarsi in un convento. Poco dopo giunge un messaggero di Carlo che intima a Desiderio di restituire a papa Adriano I le terre della Chiesa che ha strappato con la forza. I duchi longobardi sono divisi: alcuni propongono di rifiutare l’ordine e di combattere contro i Franchi; altri, incerti, si aggregano a Svarto, un semplice solda­to che complotta contro Desiderio. La guerra viene dichiarata e Carlo scende in Italia. Trova uno sbarramento insuperabile eretto dai Lon­gobardi alleChiuse e sta per tornarein Francia, quando il diacono Martino, mandato dall’arcivescovo di Ravenna, gli rivela l’esistenza di un passaggio segreto per i monti che gli consente di sorprendere alle spalle i Longobardi. La battaglia divampa, mentre gli Italiani, ridotti alla condizione di servi, si illudono nella liberazione da parte dei Fran­chi. Adelchi, anche se è contrario alla politica del padre e si è battuto per evitare la guerra, combatte valorosamente per difendere il padre e l’onore del regno. Molti duchi, invece, guidati da Svarto, tradi­scono il loro re e si arrendono a Carlo. Intanto Ermengarda muore nel convento di S. Salvatore a Brescia. I Longobardi vengono sconfitti e la tragedia si conclude nella tenda di Carlo dove viene portato Adelchi ferito a morte, al cospetto del vincitore Carlo e del padre Desiderio fatto prigioniero.

La tragedia è sorretta da una vigorosa struttura nella quale “vero storico”, e “vero poetico” si integrano perfettamente. Nel grandioso quadro degli avvenimenti storici si manifestano i vari e contrastanti sentimenti degli uomini: da una parte quelli che agiscono in nome della politica (Desiderio e Carlo) o della divorante ambizione (Svarto e Guntigi); dall’altra le due figure più care al Manzoni, Adelchi ed Ermengarda, che agiscono in nome della giustizia e della pietà. Anche se i caratteri degli altri personaggi sono ben approfonditi, lo spazio maggiore è riservato a loro, creature buone e generose che con la sofferenza accettata e patita riscattano le ingiustizie commesse dal loro popolo. Adelchi, costretto dalla devozione filiale e dal senso dell’onore a combattere una guerra che intimamente gli ripugna, vive drammaticamente la contraddizione tra gli ideali di giustizia e la realtà terrena fatta di violenza e di sangue. Incarnazione del pessimismo cristiano del Manzoni, egli è convinto che sulla terra non esista spazio per chi voglia combattere per un ideale giusto e puro, poiché non è pos­sibile evadere dalla condizione di oppressori o di oppressi: “loco a gentile,/ad innocente opra non v’è: non resta/che far torto o patirlo. Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi/dritto” (Atto V, Scena VIII). Il dramma si risolve solo nella rasserenante fiducia in Dio, al quale Adelchi si rivolge, sublimato dal dolore, pregandolo di accogliere la sua “anima stanca”.
I medesimi ideali e le medesime sofferenze sono in Ermengarda, tra­sfusi in una sensibilità più delicata e più trepida. Ripudiata perché sterile, la sua umiliazione è resa più cruda dall’amore fortissimo che sente ancora per Carlo. Vittima degli oppressori, come Adelchi e come tutte le donne italiane che hanno patito per colpa dei Longobardi, anche lei trova con­forto nella fede e diviene, nel bellissimo Coro che la riguarda (Sparsa le trecce morbide...), il simbolo stesso della sofferenza accettata con cristiana adesione agli imperscrutabili disegni di Dio, a quella “provida sventura” che sa trasformare in bene il male della vita e della storia.
Per la perfetta; fusione tra motivi ideologici e motivi sentimentali Adelchi è la più bella tragedia del teatro romantico italiano.
     

 I Promessi sposi. L’ispirazione del Manzoni a un’arte veramente popo­lare, che desse lo spazio dovuto alla categoria degli umili e degli oppressi, fornendo insieme profonda lezione di moralità, trova il pieno raggiun­gimento nel romanzo.
Mentre all’estero il genere letterario  “romanzo” conosceva da tempo una larga fortuna, in Italia veniva disdegnato dai più come un sottopro­dotto letterario. Il Manzoni, con un atto di grande coraggio, scelse di scrivere un romanzo come opera di maggiore impegno, una volta convin­tosi che la prosa narrativa aveva in sé grandi possibilità di interessare, e quindi educare, un vasto pubblico. Gli giovò la lettura dei romanzi storici dell’inglese Walter Scott (1771-1832), in particolareIvanhoe, in quanto gli offriivano un percorso nuovo per l’unione di storia e fantasia, in una prospettiva e in uno spazio ben più ampi di quanto potesse ottenere con un’opera teatrale. Si guardò bene, però, dal seguire da vicino le orme dello Scott, poiché quello che interessava a 1ui non era l’intreccio avventuroso, lo spirito romanzesco, bensì la rappresentazione della vita di un po­polo nélla sua autentica realtà umana e sociale, in una cornice storica rigorosamente accertata (“vero storico” e “vero poetico”).
L’elaborazione del romanzo fu preceduta e accompagnata da un inten­so lavoro di riflessione, come attestano le lettere al Fauriel, in una delle quali il Manzoni scriveva: “Faccio quanto posso per imbevermi dello spiri­to del tempo, per viverci dentro (...) Quanto al progresso della vicenda, all’intreccio, ritengo che il mezzo migliore sia di fare il contrario di quello che han fatto gli altri, di applicarmi a considerare nella realtà il modo di comportarsi degli uomini e di considerarlo appunto in ciò che esso ha di opposto allo spirito romanzesco”.
Dopo una prima stesura dal 1821 al 1823 con il titolo Fermo e Lucia, il Manzoni attese al totale rifacimento del romanzo, che pubblicò nel 1827 con il titolo I promessi sposi (titolo sostituito, mentre il libro era in corso di stampa, al precedente Gli sposi promessi).Esaurita la fase creativa, lo scrittore dedicò circa quindici anni alla revisione linguistica dell’opera, attingendo con ampia libertà al “fiorentino parlato dalle persone colte” (la famosa risciacquatura del romanzo in Arno, nell’intento di renderla facilmente comprensibile al maggior numero possibile di lettori. L’edizione definitiva venne pubblicata a dispense tra il 1840 e il 1842. I promessi sposi sono dunque il risultato di una fatica sfibrante del Manzoni, che vi profuse tutte le energie senza risparmio, dagli scru­polosi studi storici, all’ideazione, alle due stesure che comportarono tagli
e rifacimenti, per arrivare alla totale rielaborazione linguistica.
La vicenda èambientata in Lombardia, tra il 1628 e il 1631, durante la dominazione spagnola in Italia, quando si svolgevano le guerre del Monferrato e della Valtellina, momenti “secondari” della terribile guerra dei Trent’anni (1618-1648) che devastò l’Europa e l’Italia, seminando ovunque rovine, carestia e pestilenza.

Il romanzo prende avvio dall’impedimento del matrimonio di due filatori di seta, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, ad opera di don Rodrigo, un signorotto prepotente e spregiudicato che ha facile presa su don Abbondio, il parroco che dovrebbe celebrare le nozze. Agnese, madre di Lucia, tenta di superare l’ostacolo mandando Renzo a consultare un avvocato, il dottor Azzeccagarbugli,senza sa­pere che costui è abituale ospite della mensa di don Rodrigo. Fallito questo tentativo, Agnese organizza un matrimonio di sorpresa in casa del curato, mentre Lucia invoca l’aiuto di padre Cristoforo, un fra­te santo e coraggioso.Questi si reca in casa di don Rodrigo per convincerlo a desistere dal suo proposito, ma non riesce a piegare il cuore del signorotto tracotante e puntiglioso. Il matrimonio di sorpresa fallisce, mentre per una serie di cause nel villaggio si sca­tena una grande confusione e Lucia corre il rischio di essere rapita dai bravi di don Rodrigo. Interviene padre Cristoforo che, in attesa di momenti più propizi, manda Lucia e Agnese a Monza, presso il con­vento della Signora, e Renzo a Milano, affidandolo alla prote­zione di un confratello, il padre Bonaventura. Il giovane, però, si lascia coinvolgere nel tumulto scoppiato a Milano a causa della carestia e, dopo aver rischiato la prigione, scappa a Bergamo presso un cugino. Lucia viene rapita e portata al castello di un truce signore, l’Innominato, il quale, già in uno stato d’inquietudine, viene colpito dall’atteggiamento della ragazza e con l’aiutodel cardinale Federigo Borromeo si converte. Lucia viene liberata, riconsegnata a sua madre e quindi affidata alle cure di donna Prassede, moglie del polvero­so erudito don Ferrante. Intanto in Lombardia imperversa la guerra, arrivano i Lanzichenecchi e scoppia la peste. Renzo, saputo che Lucia si trova a Milano, va a cercarla, ma apprende che la sua promessa è stata colpita dalla peste. La ritrova, ormai guarita, al lazzaretto dove rivede anche padre Cristoforo, il quale libera i due promessi dal­l’ultimo ostacolo, sciogliendo il voto di verginità fatto da Lucia nel castello dell’Innominato. Nel lazzaretto si trova anche don Rodrigo moribondo. Di lì a poco morirà anche padre Cristoforo. Dopo aver seminato morte e miseria, la peste si placa. I due possono finalmente tornare al loro paese e sposarsi.
Le vicende dolorose di renzo e Lucia si concludono quindi felicemente, in armonia con la concezione del Manzoni, fiduciosa – ma non per questo scontata e pacifica - nell’intervento di Dio, il quale non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. I guai, afferma il Manzoni alla fine del roman­zo, “quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore“.

Mentre nelle tragedie il Manzoni si era soflermato sull’analisi del dramma che si svolge in alcune coscienze individuali di personaggi della “grande storia” (il conte di Carmagnola, Adelchi, Ermengarda), nei Promessi sposi la sua visione morale e l’indagine sull’agire umano si allargano a un’epoca e al dramma di un intero popolo.
Nel romanzo sono presenti tutte le categorie sociali: contadini, artigiani, osti, piccoli e grandi tiranni, uomini di governo, ecclesiastici, in ambienti che vanno dal piccolo borgo alla campagna, alla città. Ma la novità più impor­tante è il ruolo di protagonisti assegnato agli umili senza voce nella storia ufficiale, quelli che don Rodrigo definisce “gente di nessuno”. Sono due popolani, Renzo e Lucia, che muovono le fila del racconto, mentre i potenti vi entrano come figure subordinate alle loro vicende o in funzione di osta­colo (don Rodrigo, il dottor Azzeccagarbugli, il conte zio, il padre provin­ciale, l’Innominato prima della conversione) o in funzione di aiuto (il cardi­nale Federigo, l’Innominato dopo la conversione). Persino della politica e della guerra si parla nel romanzo solo in quanto provocano enormi scia­gure ai due promessi e alla gente buona e semplice come loro. Per la prima volta nella nostra letteratura entra il mondo dei popolani con la sua autentica realtà di ambienti, di costumi, di credenze; un mondo che pur conoscendo la dura fatica del vivere in un’epoca di soprusi, ingiustizie, taglieggiamenti, va avanti con rassegnazione operosa, confortato dalla fiducia in Dio.

Il popolo incarna per il Manzoni i valori positivi della storia, e questo concetto, acquisito definitivamente nel romanzo, viene a temperare in qual­che modo il pessimismo trasfuso nelle tragedie, dove il male presente nella storia non aveva ancora trovato una definitiva spiegazione. Si tratta del popolo delle campagne, che vive con una sua disinvolta naturalezza i valori evangelici dell’amore, dell’onestà, della laboriosità e subisce la violenza senza ribellarsi. Il popolo cittadino che invece provoca una sommossa contro i governanti è visto dal Manzoni con occhio fortemente critico. E’ da osservare che al Manzoni ripugnava ogni forma di violenza, anche quella dettata da rivendicazioni giuste; mentre d’altro canto la sua è l’ideologia del cattolico liberale moderato che auspica sinceramente il miglioramento delle condizioni di vita delle classi inferiori, ma con la guida serena e l’iniziativa generosa delle classi superiori, sulle quali sovrasta il dovere cristiano del  “servizio”, nei confronti di coloro che versano nel bisogno. Visto nell’ottica del Manzoni, questo è un atteggiamento impron­tato a severa moralità, poiché se la vita dev’essere per tutti un “servizio”, particolarmente lo è per i potenti e per i ricchi sui quali incombe la re­sponsabilità del ruolo che ricoprono, responsabilità aggravata dall’ammoni­zione evangelica secondo la quale è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei Cieli. Il Manzoni esalta il cardinale Federigo e l’Innominato dopo la conversione in quanto uomini che fanno della donazione di se stessi la norma di vita. Condanna, invece, con sprezzante sarcasmo i politici che con la loro azione dissennata e in nome di una guerra inutile e rovinosa provocano la carestia e la peste nel Ducato di Milano. Inoltre il Manzoni mette in evidenza con fine ironia tutto il vuoto che si cela in coloro che incarnano la stoltezza di un’epoca dominata dal costume spagnolesco del culto del potere per il potere, come è per il Conte zio e per il padre provinciale;dall’asservimento ai potenti, come è per il dottor Azzeccagarbugli; da una scienza astratta, superstiziosa e ridicola, come avviene per don Ferrante. C’è poi, tra i grandi, la categoria di coloro che rifiutano il contatto della Grazia, come don Rodrigo, Egidio, la monaca di Monza: per loro nel romanzo non c’è salvezza, anche se le loro storie scellerate sono in qualche modo redente dalla cristiana pietà del Manzoni.
Ma la scoperta del popolo come fattore positivo della storia non sana del tutto il pessimismo delManzoni, che non arriva mai a concepire l’uomo come vero protagonista della storia. Nell’azione umana egli continua a manifestare sfiducia, poiché tutte le iniziative falliscono, anche quelle delle creature buone e ingenue: Agnese, organizzando il matrimonio di sorpresa, provoca lo scompiglio nel paese e la fuga dei due promessi; Renzo, che a Milano si prodiga generosamente per salvare dal linciaggio il vicario di provvisione, si esalta al punto da rischiare la prigione e deve rifugiarsi a Bergamo. Anche il progetto di padre Cristoforo, emblema di purissima carità evangelica, di mettere al riparo Renzo e Lucia provoca guai mag­giori. Ma dai guai di Lucia nasce la conversione dell’Innominato, chiara dimostrazione di come per il Manzoni al di là delle azioni umane, anche le più generose, vi sia un’azione misteriosa, esaltante ma anche inquietante: l’azione della Provvidenza. Questo è il fondo problematico e tormentoso del cattolicesimo manzoniano, che non è certo un approdo acquietante e definitivo, ma una continua e sofferta ricerca.
Il quadro articolato e complesso della varia umanità che agisce nel romanzo se da una parte è sorretto dalla moralità dello scrittore, dall’altra fluisce in modo naturale, con un ritmo del racconto che ha il sapore delle cose vissute. Nella precisione del quadro storico si integra perfettamente la rappresentazione autentica della vita nella Lombardia del Seicento nelle sue varie manifestazioni. L’arte del Manzonisi dispiega nella mirabile configurazione psicologica dei personaggi, dove scopriamo il segno di un profondissimo conoscitore del cuore umano, nella precisa e varia descrizione di situazioni e di ambienti, da quelli nei quali si muovono gli umili, nella semplicità della loro vita e del loro animo, a quelli dei grandi, arroc­cati nei castelli e nei palazzi di città.
La grande efficacia artistica e la straordinaria fortuna presso il pubblico popolare non sarebbero state raggiunte senza l’attento e severo lavoro di revisione linguistica. Nel Fermo e Luciail Manzoni era ricorso ad un’ordi­tura “di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine”; nell’edizione del ‘27 c’era già un largo accostamento al toscano; nell’edizione definitiva definitiva il modello del “fiorentino parlato dalel persone colte” portò il Manzoni alla creazione di un linguaggio narrativo moderno che attraverso lo studio scolastico dei Promessi sposi avrà enorme importanza per la formazione del linguaggio medio nelle classiistruite.
La lingua del romanzo, tanto più se confrontata con quella delle opere italiane sia precedenti sia contemporanee, si rivela un miracolo di chiarezza, agilità ed efficacia. Neanche la prosa   foscoliana dell’Ortis può esserle accostata, densa com’è di lirismo e di enfasi sentimentale. Per farsi un’idea della meritoria fatica del manzoni, basta confrontare il linguaggio degli Inni sacri, delle Odi e delleTragedie, ancora dipendente dalla tradizione letteraria, con quello dei Promessi sposi, che proprio per le sue peculiari caratteristiche di agilità e di chiarezza avyiòi1 processo di superamentodella secolare frattura tra linguaggio degli scrittòri e linguaggio del popolo.
Oltre che popolare (aspirazione irrealizzata degli altri romantici italiani) per lessico e ritmo sintattico, la lingua del Manzoni è estremamente arti­colata nell’esprimere sentimenti e pensieri dei vari personaggi a seconda del loro diverso livello sociale e culturale, nel descrivere situazioni storiche e condizioni ambientali, nel commentare qua e là le azioni di questo o quel personaggio. Si passa così dal tono ampio e disteso del racconto storico a quello sostenuto, non privo di reminiscenze oratoria, dei capitoli dedicati al cardinale Federigo, a quello lirico dei momenti intimistici o delle descrizioni paesistiche, a quello comico soprattutto quando appare la figura di don Abbondio, per arrivare al tono colloquiale, affettuoso, il più vero del romanzo, nei dialoghi dei popolani.

Per tutte questo qualità I promessi sposi sono il romanzo italiano più perfetto dell’ottocento e uno dei grandi romanzi della letteratura di tutti i tempi.



Giacomo Leopardi: A Silvia. Analisi con parafrasi - Manuale Tellus di Claudio Di Scalzo





Giacomo Leopardi compose “A Silvia” nella città di Pisa, dal 19 al 20 aprile 1828 e fu pubblicata per la prima volta nell’edizione fiorentina dei Canti nel 1831. È probabile che Silvia ricordi la vita terrena di Teresa Fattorini morta di tisi nel 1818.


            A SILVIA

          Silvia, rimembri ancora
          quel tempo della tua vita mortale,
          quando beltà splendea
          negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
          e tu, lieta e pensosa, il limitare
          di gioventù salivi?

          Sonavan le quiete
          stanze, e le vie dintorno,
          al tuo perpetuo canto,
          allor che all'opre femminili intenta
          sedevi, assai contenta
          di quel vago avvenir che in mente avevi.
          Era il maggio odoroso: e tu solevi
          così menare il giorno.

          Io gli studi leggiadri
          talor lasciando e le sudate carte,
          ove il tempo mio primo
          e di me si spendea la miglior parte,
          d'in su i veroni del paterno ostello
          porgea gli orecchi al suon della tua voce,
          ed alla man veloce
          che percorrea la faticosa tela.
          Mirava il ciel sereno,
          le vie dorate e gli orti,
          e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
          Lingua mortal non dice
          quel ch'io sentiva in seno.
          Che pensieri soavi,
          che speranze, che cori, o Silvia mia!
          Quale allor ci apparia
          la vita umana e il fato!
          Quando sovviemmi di cotanta speme,
          un affetto mi preme
          acerbo e sconsolato,
          e tornami a doler di mia sventura.
          O natura, o natura,
          perché non rendi poi
          quel che prometti allor? perché di tanto
          inganni i figli tuoi?

          Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
          da chiuso morbo combattuta e vinta,
          perivi, o tenerella. E non vedevi
          il fior degli anni tuoi;
          non ti molceva il core
          la dolce lode or delle negre chiome,
          or degli sguardi innamorati e schivi;
          né teco le compagne ai dì festivi
          ragionavan d'amore.

          Anche peria fra poco
          la speranza mia dolce: agli anni miei
          anche negaro i fati
          la giovanezza. Ahi come,
          come passata sei,
          cara compagna dell'età mia nova,
          mia lacrimata speme!
          Questo è quel mondo? questi
          i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
          onde cotanto ragionammo insieme?
          Questa la sorte dell'umane genti?
          All'apparir del vero
          tu, misera, cadesti: e con la mano
          la fredda morte ed una tomba ignuda
          mostravi di lontano.



Struttura metrica: Questa poesia è utile per capire quanto il Leopardi abbia innovato la tradizione metrica della “canzone” rimasta per secoli ingessata nel modello petrarchesco. Più che di “stanze” è infatti opportuno parlare genericamente di “strofe”, data l’estrema libertà con cui esse si sviluppano e si susseguono; abbiamo infatti sei strofe rispettivamente di 6,8,13,12,9,15 versi, all’interno delle quali si alternano, senza alcuno schema fisso, settenari ed endecasillabi: l’unica “regolarità” può individuarsi nel settenario con cui si chiude ogni strofa, in quanto esso rima sempre con uno dei versi precedenti.
C’è inoltre un’altra caratteristice metrica, tipica del Leopardi più maturo: spesso, all’interno degli endecasillabi, le cesure logiche evidenziano dei veri e propri settenari (...e tu lieta e pensosa //il limitare;... e quinci il mar da lungi//e quindi il monte...). E’ come se ci trovassimo davanti a una duplice struttura metrica: la prima espressa graficamente, la seconda, più intima e segreta, nascosta all’interno della prima.


Analisi - Il canto è uno dei più famosi della poesia leopardiana: la voce con cui, dopo leOperette morali, Leopardi torna a scrivere versi. Inaugura i “Grandi idilli” e cioè una poesia che va oltre quella dei “Piccoli idilli” – incentrata su vicende soggettive – per abbracciare un contenuto universale attraverso la riflessione sulla condizione umana.
Il canto si divide in due parti; la prima ha carattere rievocativo, secondo la poesia della memoria, la seconda ha carattere riflessivo.
Nella prima parte, vv 1-39, il poeta si rivolge a Silvia, che alcuni studiosi identificano in Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di Casa Leopardi, morta giovanissima di tisi nel 1818 e le domanda se ricorda ancora, dopo tanti anni, i giorni felici in cui si affacciava alla giovinezza, quando anche nel cuore del poeta fioriva la fiducia nella vita e anche lui, come Silvia, concepiva pensieri soavi, speranze e affetti intensi, e bella gli appariva la vita e bello il fato. Ma tutto questo incanto svanì al contatto con la realtà, per colpa della Natura, perché essa non mantiene quello che promette negli anni della giovinezza e dell’adolescenza.
Nella seconda parte (vv. 40-fine) il Leopardi stabilisce un paragone tra il destino di Silvia e il proprio. Silvia moriva senza veder fiorire la sua giovinezza e senza godere le gioie che essa comporta, come l’udire le lodi della propria bellezza e il ragionare d’amore con le compagne. Poco dopo tramontava anche la speranza di felicità del poeta, al quale, come a Silvia, il fato negò le gioie del giovinezza, l’età in cui le speranze e i sogni dell’adolescenza dovrebbero divenire realtà. Caduti i sogni e le speranze, all’apparir del vero, si attende solo che morte ci liberi dalla miseria e dalle amarezze della vita.

Parafrasi - O Silvia, ricordi ancora, dopo tanti anni dalla tua morte, quel tempo della tua vita mortale (il tempo, cioè, del passaggio dall’adolescenza alla giovinezza), quando la bellezza splendeva nei tuoi occhi lieti e schivi, ritrosi per pudore (fuggitivi; altri intendono “mobili”, per la curiosità di posarsi sui vari aspetti della vita), e tu lieta e insieme pensosa, ansiosa per il tuo avvenire, varcavi la soglia(il limitar) della (tua) giovinezza?
Risuonavano le stanze tranquille, e le vie dintorno, al tuo continuo canto, allorché sedevi intenta ai lavori femminili della tessitura, assai contenta di quelvago (bello, ma anche incerto, misterioso) avvenire che avevi in mente. Era il maggio profumato di fiori, e tu solevi trascorrere il tempo tessendo, cantando e fantasticando.
Io talora, interrompendo gli studi letterari a me graditi e i faticosi studi eruditi (le sudate carte), in cui si consumava la mia prima giovinezza (il tempo mio primo) e la parte migliore di me (cioè la salute, le mie migliori energie vitali), dai balconi della casa ascoltavo il suono della tua voce, ed il rumore del pettine manovrato dalla tua mano che secondava la tela faticosa a lavorarsi.
La gioia che m’ispirava il tuo canto mi riconciliava con la vita, perciò guardavo il sereno, le vie dorate dalla luce del sole e i campi fioriti (gli orti), e da un lato il mare Adriatico lontano, dall’altro l’Appennino (il monte). Nessuna parola umana(lingua mortale) potrebbe esprimere quanto io sentivo nel cuore.
Che pensieri deliziosi (soavi), che speranze, quali sentimenti (cori), o Silvia mia: Come ci apparivano felice allora la vita ed il destino di noi viventi!
Quando mi torna alla mente il ricordo di così grande speranza, mi opprime un sentimento doloroso ed inconsolabile (sconsolato) e si riaccende in me il dolore della mia sventura
O natura, o natura, perché non mantieni poi, negli anni maturi, quello che prometti allor, negli anni giovanili quando tutto sembra bello e facile da realizzare? Perché inganni del tutto (di tanto) i figli tuoi?

La seconda parte – come accennato – è di carattere riflessivo.
Tu, prima che l’inverno col suo gelo inaridisse le erbe in autunno, assalita e vinta da un male che covava nascosto nel tuo organismo morivi simile a una tenera pianta, e non vedevi il fior degli anni tuoi, non godevi, cioè, le gioie della giovinezza simboleggiate dal fiore; non ti blandiva (molceva) il cuore la dolce lode ora delle nere chiome ora degli sguardi innamorati e schivi; né le compagne nei giorni festivi parlavano d’amore con te.
Anche la mia dolce speranza si spegneva poco dopo: come a te, anche alla mia vita i fati negarono le gioie della giovinezza.
Ahi, come, come sei passata, in modo orriversibile, o cara compagna della mia giovinezza o mia rimpianta speranza! Questo è quel mondo, così meraviglioso che sognavamo insieme? Questo è il destino di tutti gli uomini?
Quando apparve la realtà, tu o misera (la speranza), cadesti e con la mano mostravi di lontano la fredda morte e una tomba ignuda abbandonata, senza conforto.