martedì 17 dicembre 2013

Giacomo Leopardi: A Silvia. Analisi con parafrasi - Manuale Tellus di Claudio Di Scalzo





Giacomo Leopardi compose “A Silvia” nella città di Pisa, dal 19 al 20 aprile 1828 e fu pubblicata per la prima volta nell’edizione fiorentina dei Canti nel 1831. È probabile che Silvia ricordi la vita terrena di Teresa Fattorini morta di tisi nel 1818.


            A SILVIA

          Silvia, rimembri ancora
          quel tempo della tua vita mortale,
          quando beltà splendea
          negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
          e tu, lieta e pensosa, il limitare
          di gioventù salivi?

          Sonavan le quiete
          stanze, e le vie dintorno,
          al tuo perpetuo canto,
          allor che all'opre femminili intenta
          sedevi, assai contenta
          di quel vago avvenir che in mente avevi.
          Era il maggio odoroso: e tu solevi
          così menare il giorno.

          Io gli studi leggiadri
          talor lasciando e le sudate carte,
          ove il tempo mio primo
          e di me si spendea la miglior parte,
          d'in su i veroni del paterno ostello
          porgea gli orecchi al suon della tua voce,
          ed alla man veloce
          che percorrea la faticosa tela.
          Mirava il ciel sereno,
          le vie dorate e gli orti,
          e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
          Lingua mortal non dice
          quel ch'io sentiva in seno.
          Che pensieri soavi,
          che speranze, che cori, o Silvia mia!
          Quale allor ci apparia
          la vita umana e il fato!
          Quando sovviemmi di cotanta speme,
          un affetto mi preme
          acerbo e sconsolato,
          e tornami a doler di mia sventura.
          O natura, o natura,
          perché non rendi poi
          quel che prometti allor? perché di tanto
          inganni i figli tuoi?

          Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
          da chiuso morbo combattuta e vinta,
          perivi, o tenerella. E non vedevi
          il fior degli anni tuoi;
          non ti molceva il core
          la dolce lode or delle negre chiome,
          or degli sguardi innamorati e schivi;
          né teco le compagne ai dì festivi
          ragionavan d'amore.

          Anche peria fra poco
          la speranza mia dolce: agli anni miei
          anche negaro i fati
          la giovanezza. Ahi come,
          come passata sei,
          cara compagna dell'età mia nova,
          mia lacrimata speme!
          Questo è quel mondo? questi
          i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
          onde cotanto ragionammo insieme?
          Questa la sorte dell'umane genti?
          All'apparir del vero
          tu, misera, cadesti: e con la mano
          la fredda morte ed una tomba ignuda
          mostravi di lontano.



Struttura metrica: Questa poesia è utile per capire quanto il Leopardi abbia innovato la tradizione metrica della “canzone” rimasta per secoli ingessata nel modello petrarchesco. Più che di “stanze” è infatti opportuno parlare genericamente di “strofe”, data l’estrema libertà con cui esse si sviluppano e si susseguono; abbiamo infatti sei strofe rispettivamente di 6,8,13,12,9,15 versi, all’interno delle quali si alternano, senza alcuno schema fisso, settenari ed endecasillabi: l’unica “regolarità” può individuarsi nel settenario con cui si chiude ogni strofa, in quanto esso rima sempre con uno dei versi precedenti.
C’è inoltre un’altra caratteristice metrica, tipica del Leopardi più maturo: spesso, all’interno degli endecasillabi, le cesure logiche evidenziano dei veri e propri settenari (...e tu lieta e pensosa //il limitare;... e quinci il mar da lungi//e quindi il monte...). E’ come se ci trovassimo davanti a una duplice struttura metrica: la prima espressa graficamente, la seconda, più intima e segreta, nascosta all’interno della prima.


Analisi - Il canto è uno dei più famosi della poesia leopardiana: la voce con cui, dopo leOperette morali, Leopardi torna a scrivere versi. Inaugura i “Grandi idilli” e cioè una poesia che va oltre quella dei “Piccoli idilli” – incentrata su vicende soggettive – per abbracciare un contenuto universale attraverso la riflessione sulla condizione umana.
Il canto si divide in due parti; la prima ha carattere rievocativo, secondo la poesia della memoria, la seconda ha carattere riflessivo.
Nella prima parte, vv 1-39, il poeta si rivolge a Silvia, che alcuni studiosi identificano in Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di Casa Leopardi, morta giovanissima di tisi nel 1818 e le domanda se ricorda ancora, dopo tanti anni, i giorni felici in cui si affacciava alla giovinezza, quando anche nel cuore del poeta fioriva la fiducia nella vita e anche lui, come Silvia, concepiva pensieri soavi, speranze e affetti intensi, e bella gli appariva la vita e bello il fato. Ma tutto questo incanto svanì al contatto con la realtà, per colpa della Natura, perché essa non mantiene quello che promette negli anni della giovinezza e dell’adolescenza.
Nella seconda parte (vv. 40-fine) il Leopardi stabilisce un paragone tra il destino di Silvia e il proprio. Silvia moriva senza veder fiorire la sua giovinezza e senza godere le gioie che essa comporta, come l’udire le lodi della propria bellezza e il ragionare d’amore con le compagne. Poco dopo tramontava anche la speranza di felicità del poeta, al quale, come a Silvia, il fato negò le gioie del giovinezza, l’età in cui le speranze e i sogni dell’adolescenza dovrebbero divenire realtà. Caduti i sogni e le speranze, all’apparir del vero, si attende solo che morte ci liberi dalla miseria e dalle amarezze della vita.

Parafrasi - O Silvia, ricordi ancora, dopo tanti anni dalla tua morte, quel tempo della tua vita mortale (il tempo, cioè, del passaggio dall’adolescenza alla giovinezza), quando la bellezza splendeva nei tuoi occhi lieti e schivi, ritrosi per pudore (fuggitivi; altri intendono “mobili”, per la curiosità di posarsi sui vari aspetti della vita), e tu lieta e insieme pensosa, ansiosa per il tuo avvenire, varcavi la soglia(il limitar) della (tua) giovinezza?
Risuonavano le stanze tranquille, e le vie dintorno, al tuo continuo canto, allorché sedevi intenta ai lavori femminili della tessitura, assai contenta di quelvago (bello, ma anche incerto, misterioso) avvenire che avevi in mente. Era il maggio profumato di fiori, e tu solevi trascorrere il tempo tessendo, cantando e fantasticando.
Io talora, interrompendo gli studi letterari a me graditi e i faticosi studi eruditi (le sudate carte), in cui si consumava la mia prima giovinezza (il tempo mio primo) e la parte migliore di me (cioè la salute, le mie migliori energie vitali), dai balconi della casa ascoltavo il suono della tua voce, ed il rumore del pettine manovrato dalla tua mano che secondava la tela faticosa a lavorarsi.
La gioia che m’ispirava il tuo canto mi riconciliava con la vita, perciò guardavo il sereno, le vie dorate dalla luce del sole e i campi fioriti (gli orti), e da un lato il mare Adriatico lontano, dall’altro l’Appennino (il monte). Nessuna parola umana(lingua mortale) potrebbe esprimere quanto io sentivo nel cuore.
Che pensieri deliziosi (soavi), che speranze, quali sentimenti (cori), o Silvia mia: Come ci apparivano felice allora la vita ed il destino di noi viventi!
Quando mi torna alla mente il ricordo di così grande speranza, mi opprime un sentimento doloroso ed inconsolabile (sconsolato) e si riaccende in me il dolore della mia sventura
O natura, o natura, perché non mantieni poi, negli anni maturi, quello che prometti allor, negli anni giovanili quando tutto sembra bello e facile da realizzare? Perché inganni del tutto (di tanto) i figli tuoi?

La seconda parte – come accennato – è di carattere riflessivo.
Tu, prima che l’inverno col suo gelo inaridisse le erbe in autunno, assalita e vinta da un male che covava nascosto nel tuo organismo morivi simile a una tenera pianta, e non vedevi il fior degli anni tuoi, non godevi, cioè, le gioie della giovinezza simboleggiate dal fiore; non ti blandiva (molceva) il cuore la dolce lode ora delle nere chiome ora degli sguardi innamorati e schivi; né le compagne nei giorni festivi parlavano d’amore con te.
Anche la mia dolce speranza si spegneva poco dopo: come a te, anche alla mia vita i fati negarono le gioie della giovinezza.
Ahi, come, come sei passata, in modo orriversibile, o cara compagna della mia giovinezza o mia rimpianta speranza! Questo è quel mondo, così meraviglioso che sognavamo insieme? Questo è il destino di tutti gli uomini?
Quando apparve la realtà, tu o misera (la speranza), cadesti e con la mano mostravi di lontano la fredda morte e una tomba ignuda abbandonata, senza conforto.




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