Giacomo Leopardi compose “A Silvia” nella città di Pisa,
dal 19 al 20 aprile 1828 e fu pubblicata per la prima volta nell’edizione
fiorentina dei Canti nel 1831. È probabile che Silvia ricordi la vita
terrena di Teresa Fattorini morta di tisi nel 1818.
A SILVIA
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
Struttura metrica: Questa poesia è utile per capire
quanto il Leopardi abbia innovato la tradizione metrica della “canzone” rimasta
per secoli ingessata nel modello petrarchesco. Più che di “stanze” è infatti
opportuno parlare genericamente di “strofe”, data l’estrema libertà con cui esse
si sviluppano e si susseguono; abbiamo infatti sei strofe rispettivamente di
6,8,13,12,9,15 versi, all’interno delle quali si alternano, senza alcuno schema
fisso, settenari ed endecasillabi: l’unica “regolarità” può individuarsi nel
settenario con cui si chiude ogni strofa, in quanto esso rima sempre con uno
dei versi precedenti.
C’è inoltre un’altra caratteristice metrica, tipica del
Leopardi più maturo: spesso, all’interno degli endecasillabi, le cesure logiche
evidenziano dei veri e propri settenari (...e tu lieta e pensosa //il
limitare;... e quinci il mar da lungi//e quindi il monte...). E’ come se ci
trovassimo davanti a una duplice struttura metrica: la prima espressa
graficamente, la seconda, più intima e segreta, nascosta all’interno della prima.
Analisi - Il canto è uno dei più famosi della poesia leopardiana:
la voce con cui, dopo leOperette morali, Leopardi torna a scrivere versi.
Inaugura i “Grandi idilli” e cioè una poesia che va oltre quella dei “Piccoli
idilli” – incentrata su vicende soggettive – per abbracciare un contenuto
universale attraverso la riflessione sulla condizione umana.
Il canto si divide in due parti; la prima ha carattere
rievocativo, secondo la poesia della memoria, la seconda ha carattere
riflessivo.
Nella prima parte, vv 1-39, il poeta si rivolge a Silvia,
che alcuni studiosi identificano in Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di
Casa Leopardi, morta giovanissima di tisi nel 1818 e le domanda se ricorda
ancora, dopo tanti anni, i giorni felici in cui si affacciava alla giovinezza,
quando anche nel cuore del poeta fioriva la fiducia nella vita e anche lui,
come Silvia, concepiva pensieri soavi, speranze e affetti intensi, e bella gli
appariva la vita e bello il fato. Ma tutto questo incanto svanì al contatto con
la realtà, per colpa della Natura, perché essa non mantiene quello che promette
negli anni della giovinezza e dell’adolescenza.
Nella seconda parte (vv. 40-fine) il Leopardi
stabilisce un paragone tra il destino di Silvia e il proprio. Silvia
moriva senza veder fiorire la sua giovinezza e senza godere le gioie che essa
comporta, come l’udire le lodi della propria bellezza e il ragionare d’amore
con le compagne. Poco dopo tramontava anche la speranza di felicità del
poeta, al quale, come a Silvia, il fato negò le gioie del giovinezza, l’età in
cui le speranze e i sogni dell’adolescenza dovrebbero divenire realtà. Caduti i
sogni e le speranze, all’apparir del vero, si attende solo che morte
ci liberi dalla miseria e dalle amarezze della vita.
Parafrasi - O Silvia, ricordi ancora, dopo tanti anni dalla tua
morte, quel tempo della tua vita mortale (il tempo, cioè, del passaggio
dall’adolescenza alla giovinezza), quando la bellezza splendeva nei tuoi occhi
lieti e schivi, ritrosi per pudore (fuggitivi; altri intendono “mobili”,
per la curiosità di posarsi sui vari aspetti della vita), e tu lieta e insieme pensosa, ansiosa
per il tuo avvenire, varcavi la soglia(il limitar) della (tua) giovinezza?
Risuonavano le stanze tranquille, e le vie dintorno, al
tuo continuo canto, allorché sedevi intenta ai lavori femminili della
tessitura, assai contenta di quelvago (bello, ma anche incerto,
misterioso) avvenire che avevi in mente. Era il maggio profumato di fiori, e tu
solevi trascorrere il tempo tessendo, cantando e fantasticando.
Io talora, interrompendo gli studi letterari a me graditi
e i faticosi studi eruditi (le sudate carte), in cui si consumava la mia
prima giovinezza (il tempo mio primo) e la parte migliore di me (cioè
la salute, le mie migliori energie vitali), dai balconi della casa ascoltavo il
suono della tua voce, ed il rumore del pettine manovrato dalla tua mano
che secondava la tela faticosa a lavorarsi.
La gioia che m’ispirava il tuo canto mi riconciliava con
la vita, perciò guardavo il sereno, le vie dorate dalla luce del sole e i campi
fioriti (gli orti), e da un lato il mare Adriatico lontano, dall’altro
l’Appennino (il monte). Nessuna parola umana(lingua mortale) potrebbe
esprimere quanto io sentivo nel cuore.
Che pensieri deliziosi (soavi), che speranze,
quali sentimenti (cori), o Silvia mia: Come ci apparivano felice
allora la vita ed il destino di noi viventi!
Quando mi torna alla mente il ricordo di così grande
speranza, mi opprime un sentimento doloroso ed inconsolabile (sconsolato) e
si riaccende in me il dolore della mia sventura
O natura, o natura, perché non mantieni poi, negli
anni maturi, quello che prometti allor, negli anni giovanili quando
tutto sembra bello e facile da realizzare? Perché inganni del tutto (di
tanto) i figli tuoi?
La seconda parte – come accennato – è di
carattere riflessivo.
Tu, prima che l’inverno col suo gelo inaridisse le erbe
in autunno, assalita e vinta da un male che covava nascosto nel tuo organismo
morivi simile a una tenera pianta, e non vedevi il fior degli anni tuoi,
non godevi, cioè, le gioie della giovinezza simboleggiate dal fiore; non ti
blandiva (molceva) il cuore la dolce lode ora delle nere chiome ora
degli sguardi innamorati e schivi; né le compagne nei giorni festivi
parlavano d’amore con te.
Anche la mia dolce speranza si spegneva poco dopo: come a
te, anche alla mia vita i fati negarono le gioie della giovinezza.
Ahi, come, come sei passata, in modo orriversibile, o
cara compagna della mia giovinezza o mia rimpianta speranza! Questo è quel
mondo, così meraviglioso che sognavamo insieme? Questo è il destino
di tutti gli uomini?
Quando apparve la realtà, tu o misera (la
speranza), cadesti e con la mano mostravi di lontano la fredda morte e una
tomba ignuda abbandonata, senza conforto.
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