ALESSANDRO MANZONI
Vita con percorso letterario
Vita (Milano, 1785 – 1873).
Probabilmente padre naturale del Manzoni fu il nobile milanese Giovanni Verri,
con il quale Giulia Beccaria aveva una relazione fin da prima di sposare
controvoglia il conte Pietro Manzoni, un gentiluomo di campagna che non le si addiceva
né per età né per gusti di vita. Giulia era figlia del grande illuminista
Cesare Beccaria, autore del celebre saggio Dei delitti e delle pene(1764),
nel quale era stata propugnata, con persuasiva efficacia, l’abolizione della
tortura e della pena di morte.
Dall’età di sei anni il
Manzoni studiò presso collegi religiosi a Merate, Lugano e Milano, mentre la
madre, dopo la separazione dal marito, si trasferiva a Parigi insieme al conte
Carlo Imbonati. Il giovane Manzoni ricevette un’educazione di tipo classicistico,
risentendo nello stesso tempo delle suggestioni illuministiche che gli
derivavano dalla famiglia materna, e prediligendo negli studi il Parini e
l’Alfieri, per la loro moralità, e il Monti, per l’eleganza dei suoi versi.
Uscito di collegio a quindici
anni, il Manzoni scrisse il Trionfo della libertà, un poema
inneggiante, in forme artistiche ancora acerbe, alla Rivoluzione francese e
all’ideale repubblicano. Sino a vent’anni fu praticamente solo, conducendo la
vita piuttosto dissipata del giovane patrizio ben provvisto di mezzi, ma
anelando anche ad emergere nel campo delle lettere. Infatti strinse amicizia
con il Monti, conobbe il Foscolo ed ebbe molto da imparare dagli esuli
napoletani Francesco Lomonaco e Vincenzo Cuoco, scampati alla rovina della
Repubblica Partenopea del 1799. Soprattutto dal Cuoco, autore del Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Manzoni derivò l’interesse
per la storia, alla luce del pensiero del filosofo napoletano Giambattista
Vico, e la convinzione che la libertà è una conquista lenta, possibile
soltanto dopo l’educazione dei cittadini.
A questi anni risalgono alcuni
sonetti tra i quali Autoritratto, l’idillio Adda, dedicato al
Monti, e quattro Sermoni di ispirazione pariniana e alfieriana. In
questi componimenti si delinea già il carattere inconfondibile del Manzoni, con
la sua austera moralità, la fermezza dei propositi e l’assenza di ogni
abbandono sentimentale.
Nel 1805, invitato dalla
madre, si recò a Parigi dove trascorse, salvo qualche interruzione, cinque anni
decisivi per la sua formazione e per la sua vita. Per consolare la madre della
perdita dell’uomo amato, compose nello stesso anno il carme In morte di
Carlo Imbonati, l’opera giovanile più importante perché vi è espresso un
programma di vita nel quale già si rivela la moralità del futuro uomo e
scrittore.
Favorito dalle amicizie della
madre, che era donna colta e ricca dl interessi, il Manzoni frequentò alcuni
salotti letterari nei quali un gruppo di intellettuali - i cosiddetti Ideologi -
manteneva vive le idee della Rivoluzione francese. Particolarmente affettuosa
fu l’amicizia stretta con lo storico e letterato Claudio Fauriel, uno dei
divulgatori, insieme a Mme de Staël, del Romanticismo in Francia. A lui il
Manzoni dedicò Urania (1809), poema neoclassico elegante ma ben
lontano dall’autentica ispirazione del giovane autore, che scrisse all’amico:
«Sono scontentissimo di questi miei versi, soprattutto per la loro totale
mancanza d’interesse; d’or innanzi ne scriverò forse di più brutti, ma di simili
a questi mai più». Un chiaro segno della volontà del Manzoni di cercare nuove
vie di più solido impegno. Negli anni trascorsi a Parigi egli arricchì
ulteriormente le sue conoscenze, trovando conferma agli ideali liberali e
umanitari e all’interesse per la storia.
Nel 1808 sposò Enrichetta
Blondel, di origine svizzera e di religione calvinista, la quale ben presto si
convertì al cattolicesimo. Stimolato dall’esempio della moglie, il Manzoni
passò da un atteggiamento religioso piuttosto tiepido all’inquietudine della
ricerca e dopo lunghi studi e approfondite riflessioni pervenne nel 1810 alla
conversione al cattolicesimo, con il proposito, mai tradito, di fare della
fede una norma totale di vita. Trasferitosi a Milano nello stesso anno, vi
rimase quasi ininterrottamente per il resto della sua lunga vita, dimorando
ora in città ora nella villa che possedeva a Brusuglio.
Dal 1812 al 1827 in un regime
di vita lineare interrotto solo nel 1819-1820 da un viaggio a Parigi per motivi
di salute, il Manzoni esaurì la sua breve ma intensa fase creativa, componendo
gli Inni sacri, le tragedie Il conte di Carmagnola eAdelchi, e I
promessi sposi. Fra le tragedie e il romanzo vanno ricordate leOsservazioni
sulla morale cattolica, importanti non per l’arte ma per il pensiero del
Manzoni. Aderì al Romanticismo, fornendo contributi originali di elaborazione
teorica. Nel 1827, dopo la prima edizione dei Promessi sposi, si recò
a Firenze per attingere direttamente al parlato toscano prima di procedere a
una paziente revisione linguistica dell’opera.
Dopo l’edizione definitiva del
romanzo (1840-42), il Manzoni si dedicò a studi storici e linguistici: Storia
della colonna infame (1842); Saggio comparativo sulla rivoluzione
francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (Lasciato incompiuto
e pubblicato postumo); uno studio sulla lingua italiana rimasto anch’esso
incompiuto e pubblicato postumo con il titolo Sentir Messa.
Circondato da una larga fama e
dal rispetto generale, il grande scrittore visse in modo appartato e discreto,
a causa del suo carattere riservato e di certi disturbi nervosi che lo
travagliarono quasi tutta la vita. Per le stesse ragioni non partecipò alla
politica attiva, ma seguì sempre con attento interesse le vicende del nostro
Risorgimento. Morta l’amatissima Enrichetta nel 1833, quattro anni dopo il
Manzoni si risposò con Teresa Borri Stampa. Ma la sua lunghissima vita continuò
ad essere turbata da numerosi lutti familiari, sopportati con cristiana e ferma
rassegnazione: la morte della madre, della seconda moglie e di sei degli otto
figli. (Sulla famiglia Manzoni ha scritto un ottimo romanzo biografico Natalia
Ginzburg ed anche Celati con il suo Manzoni). Nel I861 fu nominato
senatore e ricevette la visita di Cavour e di Garibaldi.
Nel primo anniversario della
sua morte Giuseppe Verdi fece eseguire la Messa da requiem a lui
dedicata.
La formazione intellettuale e
letteraria. Mentre Leopardi esprime, al livello più alto, la componente
lirica del Romanticismo italiano, Manzoni è l’autore che da una parte arriva a
fornire il quadro teorico più organico e più avanzato del movimento romantico
lombardo e dall’altra ne attua nella forma più compiuta la tendenza realistica.
La formazione intellettuale,
morale e letteraria del Manzoni deriva da tre componenti:l’Illuminismo, la
conversione al cattolicesimo, il Romanticismo.
Manzoni e l’Illuminismo. Già
nell’infanzia il Manzoni assorbì idee illuministiche nell’ambiente familiare
attraverso la madre Giulia Beccaria e le relazioni di questa con gli ambienti
milanesi colti, dove era sempre viva l’eredità lasciata dal gruppo del famoso
periodico Il Caffè (1764-66). Gli anni trascorsi a Parigi (1805-1810)
confermarono e arricchirono le convinzioni che il giovane Manzoni si era già
formato a Milano. Infatti, l’amicizia allacciata con gli Ideologi e
in particolare con il Fauriel, rafforzò in lui il senso morale già per sé
saldo; l’apertura verso le idee di libertà uguaglianza e giustizia;
l’insofferenza per gli schemi precostituiti sia in campo politico-sociale sia
nell’attività letteraria; la fiducia nella funzione educativa della
letteratura.
Ma con l’illuminismo il
Manzoni ebbe un confronto critico, in quanto rifiutò quelle componenti che
contrastavano con l’etica e con i fondamenti della fede cristiana, come il
deismo (la fede in un Dio astratto, variamente configurato, e lontano dagli
uomini) e il materialismo (quest’ultimo accettato, invece, da Foscolo e da
Leopardi). Infatti, anche prima della conversione egli era intimamente
religioso, pur se talvolta ostentava anticlericali.
La conversione. L’adesione
al cattolicesimo fu per il Manzoni il passaggio da un atteggiamento morale già
intimamente cristiano a una professione aperta della fede, tale da coinvolgere
pienamente la sua vita. Del cattolicesimo, studiato profondamente nella
dottrina, lo scrittore esaltò soprattutto le componenti evangeliche della
giustizia e della donazione di sé agli altri. Un po’ per il suo rigorismo
morale, un po’ per influsso della moglie Enrichetta educata al calvinismo, il
Manzoni risentì in qualche modo di certe tendenze giansenistiche dei sacerdoti
che ebbe come direttori spirituali, Eustachio Dègola a Parigi e Luigi Tosi a
Milano. (Il giansenismo, che prende nome dal vescovo olandese Cornelio
Giansenio, 1585-1638, fu una dottrina che professò un severo rigore morale,
necessario perché l’uomo nasce con l’inclinazione al peccato e non è sicuro di
essere nel numero dei predestinati ai quali soltanto Dio concede la Grazia.
Questa dottrina, giudicata ereticale dalla chiesa cattolica, si diffuse
particolarmente in Francia nel secolo XVIII, ricevendo l’adesione di grandi
ingegni come lo scrittore, scienziato e filosofo, Blaise Pascal,1623-1662,
finché tramontò verso la fine del sec. XVIII per le condanne e le persecuzioni
subite). Tracce giansenistiche rimarranno in Manzoni nel rigore delle
convinzioni morali e nella concezione pessimistica della storia (più evidente
nelle tragedie).
La conversione esaltò, alla
luce degli insegnamenti evangelici, quei principi di libertà, di giustizia e di
adesione ai bisogni degli oppressi che il Manzoni era venuto formandosi sino a
quel momento. Per questo egli non condivise gli atteggiamenti politici assunti
dalla Chiesa durante la Restaurazione (il principio dell’alleanza fra il trono
e l’altare) e più tardi auspicherà l’annessione dello Stato Pontificio
all’Italia, in quanto peso inutile e dannoso per l’azione schiettamente
religiosa della Chiesa. Una posizione, questa, che rivela i caratteri
innovatori del cattolicesimo manzoniano a differenza degli atteggiamenti degli
altri cattolici liberali del tempo. Sul versante letterario, la conversione
volle dire per il Manzoni la ricerca di temi nuovi permeati di sostanza morale
e socialmente utili.
La poetica romantica del
Manzoni. Il Manzoni seguì con fervida adesione le polemiche dei romantici
contro la vecchia cultura italiana ristretta ai cenacoli letterari, e le loro
battaglie per una nuova cultura, basata sull’osservazione del presente e
quindi indirizzata a un pubblico popolare (cioè, borghese, secondo il
significato che la parola popolo aveva in quel periodo). Su queste
tendenze di fondo, che si allacciavano alla linea della cultura lombarda più
viva nel Settecento - quella illuministica - il Manzoni si trovò pienamente
d’accordo, perché corrispondevano sia al suo carattere sia alle sue idee.
Ma anch’egli, come il
Leopardi, assunse nei confronti del Romanticismo posizioni autonome, attraverso
un serio lavoro di riflessione sui documenti teorici dei romantici sia italiani
sia stranieri, oltre che attraverso il ripensamento critico delle opere che
veniva componendo (Inni sacri e tragedie). Senza riserve egli accettò
la parte polemica del movimento: rifiuto della mitologia anche in
considerazione della sua natura pagana; rifiuto delle regole e dell’imitazione
dei classici; fastidio per tutto ciò che sapesse di antiquato e libresco. Per
quanto riguarda la parte costruttiva, la tendenza romantica più
rispondente al suo mondo morale e poetico gli parve quella realistica, la più
idonea per attuare un programma di educazione di un nuovo e più vasto pubblico
di lettori. Diffidò, invece, della componente lirico-individualistica, in quanto,
a suo giudizio, comportava il rischio dell’abbandono sentimentale e
dell’invenzione fantastica fuorviante e gratuita.
Le linee della poetica
manzoniana sono rintracciabili in molte lettere private, soprattutto quelle
indirizzate al Fauriel, ma in special modo in due saggi, scritti anch’essi in
forma di lettere: Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans
la tragédie (scritta nel ’20 e pubblicata nel ’23: “Lettera al sig.
Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia”); Lettera “Sul
Romanticismo” al marchese Cesare d’Azeglio, scritta come documento privato
nel ‘23 e pubblicata parecchi anni dopo. Insieme alle elaborazioni teoriche del
Leopardi, rimaste inedite, i due saggi manzoniani sono l’espressione più alta
del dibattito promosso dal Romanticismo.
I principi della poetica
manzoniana possono riassumersi in due punti fondamentali: il “vero storico” e
il “vero poetico” .
IL VERO STORICO. Manzoni
afferma che «la poesia, e la letteratura in genere, deve proporsi l’utile per
iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo».
L’utile per iscopo. In
coerenza con gl’insegnamenti ricevuti dal Parini, dall’Alfieri,
dall’Illuminismo e alla luce della sua concezione cristiana, il Manzoni vuole un’arte
moralmente e socialmente utile. Le opere letterarie devono ispirare, con
lo svolgimento delle vicende rappresentate o narrate, il naturale desiderio
del bene e accrescere il patrimonio spirituale civile del pubblico.
Il vero per soggetto. Il vero
è per il Manzoni «l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole», poiché «il
falso può bensì trastullar la mente, ma non arricchirla, né elevarla». Il vero
viene identificato nella storia che, come il Manzoni ha appreso dagli Ideologi,
non dovrà essere più soltanto quella tradizionale dei grandi protagonisti e dei
popoli vincitori, ma piuttosto quella delle plebi vinte e oppresse, alle quali
gli storiografi non hanno ancora prestato la doverosa attenzione.
L’interessante per mezzo. Per
ottenere l’utile come fine, la letteratura deve scegliere argomenti verso i
quali la massa dei lettori abbia un interesse derivante dalla realtà vissuta e
presente, «dalle memorie e dalle impressioni giornaliere della vita». Sino ad
ora, invece, la letteratura ha trattato abitualmente argomenti che hanno interessato
la sola classe dei letterati.
Il VERO POETICO. Manzoni
afferma che «la poesia completa la storia» poiché mentre lo storiografo accerta
i fatti guardandoli dal di fuori, il poeta con la sua sensibilità mette in
evidenza un altro vero: il vario agitarsi dei sentimenti nel cuore dei
protagonisti della storia.
Vero storico e vero
poetico dunque concorrono alla formazione di una letteratura rinnovata che
da una da una parte, mettendo in luce i sentimenti dei protagonisti della
storia, farà conoscere la grandezza e la miseria dell’uomo; dall’altra darà
una voce alle sofferenze dei popoli vinti e oppressi, che sono passati sulla
terra senza lasciarvi traccia.
Inni sacri. Costituiscono
le prime opere poetiche valide del Manzoni,interiormente rinnovato dalla
conversione e proteso all’espressione del proprio autentico mondo morale e
sentimentale.
Nel progetto del poeta
dovevano essere dodici dedicati ciascuno a una grande festa liturgica, ma ne
furono composti solo cinque: quattro fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione; Il
nome di Maria; Il Natale; La Passione) e l’ultimo, La Pentecoste, terminato,
dopo varie riprese, nel 1822. Rimane unframmento di un sesto inno incompiuto, Ognissanti. L’argomento
sacro corrisponde alla nuova sensibilità del Manzoni convertito da poco, ma
nei temi religiosi si riversa tutta la sostanza umana e culturale del poeta con
tutto ciò che gli deriva dalla sua prima formazione illuministica. Dal punto di
vista artistico gli Innisacricostituiscono un’importante novità perché il
Manzoni rifiuta la lirica tradizionale di derivazione petrarchesca, come
anche quella contemporanea influenzata dal Neoclassicismo, per tendere a poesia
sliricata, priva cioè di effusioni sentimentali e tutta fondata, al contrario,
sulle verità oggettive che costituiscono il patrimonio della religiosità
popolare. Nei primi quattro inni la materia dottrinale non sempre si
traduce in immagini poetiche e manca un vigoroso disegno unitario che organizzi
ivari elementi in una struttura armoniosa. Anche il linguaggio è disuguale,
poiché vi si alternano termini letterari, latinismi e espressioni di origine
popolare. Non mancano, tuttavia momenti di poesia autentica là dove il Manzoni
tocca la sostanza sociale del cristianesimo come messaggio di uguaglianza e di
liberazione per gli uomini più deboli e più bisognosi. In questi punti traspare
già quell’adesione ai problemi degli oppressi e dei derelitti che emergerà
compiutamente nei Promessi sposi.
Una robusta struttura unitaria
e un’ispirazione più matura distinguono inveceLa Pentecoste, dove la
rievocazione della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli si svolge in un
ampio quadro di sintesi storica, e la necessità dell’azione perenne di Dio a
favore dell’uomo viene espressa in una calda e vibrante preghiera, che il
Manzoni innalza a nome di tutta l’umanità bisognosa di sostegno, di correzione,
di conforto.
Le Odi. Sono due: Marzo
1821 e Il Cinque Maggio.
Il Marzo 1821 fu
scritto durante i moti carbonari piemontesi, quando sembrava che Carlo Alberto
si ponesse alla guida di un movimento di liberazione nazionale. L’ode, rimasta
medita per il volgere degli avvenimenti contrario alle speranze dei patrioti,
venne pubblicata solo nel 1848 durante l’insurrezione antiaustriaca milanese
(le Cinque Giornate di Milano). Oltre che di motivi patriottici, l’ode è
intessuta anche di motivi morali e religiosi, che le danno un rilievo tutto
particolare, tipicamente manzoniano, nell’ambito della letteratura
romantico-risorgimentale. La riscossa degli Italiani rientra, secondo il
poeta, nella storia degli oppressi che in ogni tempo si sono ribellati agli
oppressori, combattendo in nome della giustizia sotto il vigile occhio
protettore di Dio. I Tedeschi (il poeta chiama così anche gli Austriaci) che
hanno combattuto una guerra giusta contro Napoleone, oppressore della loro
libertà, non possono - se non tradendo i loro stessi ideali più sacri - restare
come oppressori in quell’Italia che è “una d’arme, di lingua, d’altare’.
La visione religiosa della
storia e della vita illumina anche la vicenda terrena di Napoleone nel Cinque
Maggio: per il Manzoni, quest’uomo dalle doti eccezionali diventa veramente
grande quando nella miseria dell’esilio si riconosce strumento di Dio e nella
fiducia in lui trova la vera pace interiore.
Le tragedie. Sono due: Il
conte di Carmagnola, pubblicato nel 1820 con dedicata al Fauriel, e Adelchi, pubbucato
nel 1822 con dedica alla moglie Enrichetta Blondel. Come le tragedie
tradizionali, sino in cinque atti in versi, ma per la prima volta non vi si
trovano osservate le unità di tempo e di luogo. Il Manzoni, infatti, come
scrive nella Lettre a M. Chauvet, crede indispensabile soltanto
l’unità d’azione, concepita come unità d’ispirazione e di struttura
fondamentalmente necessaria in ogni opera d’arte, mentre ritiene che le unità
di tempo e di luogo siano artificiose, inverosimili e limitatrici della libertà
delpoeta. Altra novità èla presenza del Coro:uno nel Conte di Carmagnola,duenell’Adelchi.Il
Coro, presente nell’antica tragedia greca, viene ripreso dal Manzoni comeun
cantuccio dove il poeta possa parlare in persona propria, fare cioè le proprie
osservazioni morali sulle vicende rappresentate sulla scena.
Lo tragedie sono le prime
opere nelle quali il Manzoni applica il criterio del “vero” identificato con la
storia, quando ormai la sua poetica e la sua ideologia arrivano a un livello di
piena maturità. Con la serietà che lo distingueva, prima di affrontare questo
nuovo genere lesse le opere di Shakespeare e studiò leLezioni sull’arte e sulla
letteratura drammatica del tedesco August Wilhelm von Schlegel, che
insieme, al fratello Friedrich era stato tra i fondatori e i massimi teorici
del Romanticismo tedesco.
Segno visibile dello scrupolo
del Manzoni sono le prefazioni di carattere storico ed estetico alle sue
tragedie.
Il conte dl Carmagnola. Tratta
la vicenda di un capitano di ventura della prima metà del sec. XV, Francesco di
Bussone, conte di Carmagnola. Dopo essere stato al servizio di Filippo Maria
Visconti, di cui è diventato genero, Il Carmagnola viene destituito dal duca,
geloso delle sue vittorie, e passa al servizio dei Veneziani. Scoppiata la
guerra tra Venezia e Milano, combatte contro il Visconti e lo sconfigge nella
battaglia di Maclodio (1427). Ma la liberazione dei prigionieri, dettata da un
impulso di generosità, e la conduzione piuttosto fiacca della guerra
insospettiscono il Senato veneziano, che accusa il Carmagnola di tradimento e
lo condanna a morte. Tra i senatori c’e Marco, amico del Carmagnola. Questi
vorrebbe salvarlo, ma sul sentimento dell’amicizia deve far prevalere l’interesse
dello Stato, sia pure con una decisione molto sofferta. Rimasto solo, il
Carmagnola sale sul patibolo dopo aver dato l’ultimo saluto alla moglie e alla
figlia.
Il senso della tragedia è
pessimistico, poiché la storia appare al Manzoni come il regno della violenza
che fa soccombere un innocente e fa piegare alle ragioni della politica le
ragioni del cuore, anche se il poeta tempera la sua visione negativa con la
luce della fede che alla fine consola il Carmagnola. Ma la conclusione è come
giustapposta all’intera vicenda, che risulta costruita quasi su due
protagonisti diversi: dapprima il Carmagnola uomo d’armi, poi il Carmagnola
uomo di fede, senza un trapasso plausibile e convincente da una configurazione
all’altra. Oltre la mancata unità del personaggio principale, c’è nella
tragedia una certa rigidità nella contrapposizione di valori positivi e di
valori negativi. Non mancano tuttavia momenti felici, come il soliloquio di
Marco, lacerato tra i doveri dell’amico e quelli dell’uomo di Stato, e come il
Coro (S’odea destra uno squillo di tromba...), nel quale il Manzoni,
descrivendo la guerra tra Veneziani e Milanesi, lancia un richiamo indiretto
agli Italiani del suo tempo affinché abbandonino le discordie e le lotte
fratricide.
Di esito molto più felice, anzi
vero capolavoro, è l’ Adelchi nel quale il Manzoni si ispira alle
vicende che determinarono la fine del Regno longobardico in Italia tra il 772 e
il 774.
Adelchi. Ermengarda, sposa
ripudiata di Carlo re dei Franchi, torna a Pavia presso il padre Desiderio, re
dei Longobardi, e il fratello Adelchi, con il proposito di ritirarsi in un
convento. Poco dopo giunge un messaggero di Carlo che intima a Desiderio di
restituire a papa Adriano I le terre della Chiesa che ha strappato con la
forza. I duchi longobardi sono divisi: alcuni propongono di rifiutare l’ordine
e di combattere contro i Franchi; altri, incerti, si aggregano a Svarto, un
semplice soldato che complotta contro Desiderio. La guerra viene dichiarata e
Carlo scende in Italia. Trova uno sbarramento insuperabile eretto dai Longobardi
alleChiuse e sta per tornarein Francia, quando il diacono Martino, mandato
dall’arcivescovo di Ravenna, gli rivela l’esistenza di un passaggio segreto per
i monti che gli consente di sorprendere alle spalle i Longobardi. La battaglia
divampa, mentre gli Italiani, ridotti alla condizione di servi, si illudono
nella liberazione da parte dei Franchi. Adelchi, anche se è contrario alla
politica del padre e si è battuto per evitare la guerra, combatte valorosamente
per difendere il padre e l’onore del regno. Molti duchi, invece, guidati da
Svarto, tradiscono il loro re e si arrendono a Carlo. Intanto Ermengarda muore
nel convento di S. Salvatore a Brescia. I Longobardi vengono sconfitti e la
tragedia si conclude nella tenda di Carlo dove viene portato Adelchi ferito a
morte, al cospetto del vincitore Carlo e del padre Desiderio fatto prigioniero.
La tragedia è sorretta da una
vigorosa struttura nella quale “vero storico”, e “vero poetico” si integrano
perfettamente. Nel grandioso quadro degli avvenimenti storici si manifestano i
vari e contrastanti sentimenti degli uomini: da una parte quelli che agiscono
in nome della politica (Desiderio e Carlo) o della divorante ambizione (Svarto
e Guntigi); dall’altra le due figure più care al Manzoni, Adelchi ed
Ermengarda, che agiscono in nome della giustizia e della pietà. Anche se i
caratteri degli altri personaggi sono ben approfonditi, lo spazio maggiore è
riservato a loro, creature buone e generose che con la sofferenza accettata e
patita riscattano le ingiustizie commesse dal loro popolo. Adelchi, costretto
dalla devozione filiale e dal senso dell’onore a combattere una guerra che
intimamente gli ripugna, vive drammaticamente la contraddizione tra gli ideali
di giustizia e la realtà terrena fatta di violenza e di sangue. Incarnazione
del pessimismo cristiano del Manzoni, egli è convinto che sulla terra
non esista spazio per chi voglia combattere per un ideale giusto e puro, poiché
non è possibile evadere dalla condizione di oppressori o di oppressi: “loco a
gentile,/ad innocente opra non v’è: non resta/che far torto o patirlo. Una
feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi/dritto” (Atto V, Scena VIII). Il
dramma si risolve solo nella rasserenante fiducia in Dio, al quale Adelchi si
rivolge, sublimato dal dolore, pregandolo di accogliere la sua “anima stanca”.
I medesimi ideali e le
medesime sofferenze sono in Ermengarda, trasfusi in una sensibilità più
delicata e più trepida. Ripudiata perché sterile, la sua umiliazione è resa più
cruda dall’amore fortissimo che sente ancora per Carlo. Vittima degli
oppressori, come Adelchi e come tutte le donne italiane che hanno patito per
colpa dei Longobardi, anche lei trova conforto nella fede e diviene, nel
bellissimo Coro che la riguarda (Sparsa le trecce morbide...), il
simbolo stesso della sofferenza accettata con cristiana adesione agli
imperscrutabili disegni di Dio, a quella “provida sventura” che sa
trasformare in bene il male della vita e della storia.
Per la perfetta; fusione tra
motivi ideologici e motivi sentimentali Adelchi è la più bella
tragedia del teatro romantico italiano.
I Promessi sposi.
L’ispirazione del Manzoni a un’arte veramente popolare, che desse lo spazio
dovuto alla categoria degli umili e degli oppressi, fornendo insieme profonda
lezione di moralità, trova il pieno raggiungimento nel romanzo.
Mentre all’estero il genere
letterario “romanzo” conosceva da tempo una larga fortuna, in Italia
veniva disdegnato dai più come un sottoprodotto letterario. Il Manzoni, con un
atto di grande coraggio, scelse di scrivere un romanzo come opera di maggiore
impegno, una volta convintosi che la prosa narrativa aveva in sé grandi
possibilità di interessare, e quindi educare, un vasto pubblico. Gli giovò la
lettura dei romanzi storici dell’inglese Walter Scott (1771-1832), in
particolareIvanhoe, in quanto gli offriivano un percorso nuovo per
l’unione di storia e fantasia, in una prospettiva e in uno spazio ben più ampi
di quanto potesse ottenere con un’opera teatrale. Si guardò bene, però, dal
seguire da vicino le orme dello Scott, poiché quello che interessava a 1ui non
era l’intreccio avventuroso, lo spirito romanzesco, bensì la rappresentazione
della vita di un popolo nélla sua autentica realtà umana e sociale, in una
cornice storica rigorosamente accertata (“vero storico” e “vero poetico”).
L’elaborazione del romanzo fu
preceduta e accompagnata da un intenso lavoro di riflessione, come attestano
le lettere al Fauriel, in una delle quali il Manzoni scriveva: “Faccio quanto
posso per imbevermi dello spirito del tempo, per viverci dentro (...) Quanto
al progresso della vicenda, all’intreccio, ritengo che il mezzo migliore sia di
fare il contrario di quello che han fatto gli altri, di applicarmi a
considerare nella realtà il modo di comportarsi degli uomini e di considerarlo
appunto in ciò che esso ha di opposto allo spirito romanzesco”.
Dopo una prima stesura dal
1821 al 1823 con il titolo Fermo e Lucia, il Manzoni attese al totale
rifacimento del romanzo, che pubblicò nel 1827 con il titolo I promessi
sposi (titolo sostituito, mentre il libro era in corso di stampa, al
precedente Gli sposi promessi).Esaurita la fase creativa, lo scrittore
dedicò circa quindici anni alla revisione linguistica dell’opera,
attingendo con ampia libertà al “fiorentino parlato dalle persone colte” (la
famosa risciacquatura del romanzo in Arno, nell’intento di renderla facilmente
comprensibile al maggior numero possibile di lettori. L’edizione definitiva
venne pubblicata a dispense tra il 1840 e il 1842. I promessi sposi sono
dunque il risultato di una fatica sfibrante del Manzoni, che vi profuse tutte
le energie senza risparmio, dagli scrupolosi studi storici, all’ideazione,
alle due stesure che comportarono tagli
e rifacimenti, per arrivare alla totale rielaborazione linguistica.
e rifacimenti, per arrivare alla totale rielaborazione linguistica.
La vicenda èambientata in
Lombardia, tra il 1628 e il 1631, durante la dominazione spagnola in Italia,
quando si svolgevano le guerre del Monferrato e della Valtellina, momenti
“secondari” della terribile guerra dei Trent’anni (1618-1648) che devastò
l’Europa e l’Italia, seminando ovunque rovine, carestia e pestilenza.
Il romanzo prende avvio dall’impedimento
del matrimonio di due filatori di seta, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, ad
opera di don Rodrigo, un signorotto prepotente e spregiudicato che ha facile
presa su don Abbondio, il parroco che dovrebbe celebrare le nozze. Agnese,
madre di Lucia, tenta di superare l’ostacolo mandando Renzo a consultare un
avvocato, il dottor Azzeccagarbugli,senza sapere che costui è abituale ospite
della mensa di don Rodrigo. Fallito questo tentativo, Agnese organizza un
matrimonio di sorpresa in casa del curato, mentre Lucia invoca l’aiuto di padre
Cristoforo, un frate santo e coraggioso.Questi si reca in casa di don Rodrigo
per convincerlo a desistere dal suo proposito, ma non riesce a piegare il cuore
del signorotto tracotante e puntiglioso. Il matrimonio di sorpresa fallisce,
mentre per una serie di cause nel villaggio si scatena una grande confusione e
Lucia corre il rischio di essere rapita dai bravi di don Rodrigo. Interviene
padre Cristoforo che, in attesa di momenti più propizi, manda Lucia e Agnese a
Monza, presso il convento della Signora, e Renzo a Milano, affidandolo alla
protezione di un confratello, il padre Bonaventura. Il giovane, però, si
lascia coinvolgere nel tumulto scoppiato a Milano a causa della
carestia e, dopo aver rischiato la prigione, scappa a Bergamo presso un
cugino. Lucia viene rapita e portata al castello di un truce signore,
l’Innominato, il quale, già in uno stato d’inquietudine, viene colpito
dall’atteggiamento della ragazza e con l’aiutodel cardinale Federigo Borromeo
si converte. Lucia viene liberata, riconsegnata a sua madre e quindi affidata
alle cure di donna Prassede, moglie del polveroso erudito don Ferrante.
Intanto in Lombardia imperversa la guerra, arrivano i Lanzichenecchi e scoppia
la peste. Renzo, saputo che Lucia si trova a Milano, va a cercarla, ma apprende
che la sua promessa è stata colpita dalla peste. La ritrova, ormai guarita, al
lazzaretto dove rivede anche padre Cristoforo, il quale libera i due promessi
dall’ultimo ostacolo, sciogliendo il voto di verginità fatto da Lucia nel
castello dell’Innominato. Nel lazzaretto si trova anche don Rodrigo moribondo.
Di lì a poco morirà anche padre Cristoforo. Dopo aver seminato morte e miseria,
la peste si placa. I due possono finalmente tornare al loro paese e sposarsi.
Le vicende dolorose di renzo e
Lucia si concludono quindi felicemente, in armonia con la concezione del
Manzoni, fiduciosa – ma non per questo scontata e pacifica - nell’intervento di
Dio, il quale non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro
una più certa e più grande. I guai, afferma il Manzoni alla fine del romanzo,
“quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e
li rende utili per una vita migliore“.
Mentre nelle tragedie il
Manzoni si era soflermato sull’analisi del dramma che si svolge in alcune
coscienze individuali di personaggi della “grande storia” (il conte di
Carmagnola, Adelchi, Ermengarda), nei Promessi sposi la sua visione
morale e l’indagine sull’agire umano si allargano a un’epoca e al dramma di un
intero popolo.
Nel romanzo sono presenti
tutte le categorie sociali: contadini, artigiani, osti, piccoli e grandi
tiranni, uomini di governo, ecclesiastici, in ambienti che vanno dal piccolo
borgo alla campagna, alla città. Ma la novità più importante è il ruolo di
protagonisti assegnato agli umili senza voce nella storia ufficiale, quelli che
don Rodrigo definisce “gente di nessuno”. Sono due popolani, Renzo e Lucia, che
muovono le fila del racconto, mentre i potenti vi entrano come figure
subordinate alle loro vicende o in funzione di ostacolo (don Rodrigo, il
dottor Azzeccagarbugli, il conte zio, il padre provinciale, l’Innominato prima
della conversione) o in funzione di aiuto (il cardinale Federigo, l’Innominato
dopo la conversione). Persino della politica e della guerra si parla nel
romanzo solo in quanto provocano enormi sciagure ai due promessi e alla gente
buona e semplice come loro. Per la prima volta nella nostra letteratura entra
il mondo dei popolani con la sua autentica realtà di ambienti, di costumi, di
credenze; un mondo che pur conoscendo la dura fatica del vivere in un’epoca di
soprusi, ingiustizie, taglieggiamenti, va avanti con rassegnazione operosa,
confortato dalla fiducia in Dio.
Il popolo incarna per il
Manzoni i valori positivi della storia, e questo concetto, acquisito
definitivamente nel romanzo, viene a temperare in qualche modo il pessimismo
trasfuso nelle tragedie, dove il male presente nella storia non aveva ancora
trovato una definitiva spiegazione. Si tratta del popolo delle campagne, che
vive con una sua disinvolta naturalezza i valori evangelici dell’amore,
dell’onestà, della laboriosità e subisce la violenza senza ribellarsi. Il
popolo cittadino che invece provoca una sommossa contro i governanti è visto
dal Manzoni con occhio fortemente critico. E’ da osservare che al Manzoni
ripugnava ogni forma di violenza, anche quella dettata da rivendicazioni
giuste; mentre d’altro canto la sua è l’ideologia del cattolico liberale
moderato che auspica sinceramente il miglioramento delle condizioni di vita
delle classi inferiori, ma con la guida serena e l’iniziativa generosa delle
classi superiori, sulle quali sovrasta il dovere cristiano del
“servizio”, nei confronti di coloro che versano nel bisogno. Visto nell’ottica
del Manzoni, questo è un atteggiamento improntato a severa moralità, poiché se
la vita dev’essere per tutti un “servizio”, particolarmente lo è per i potenti
e per i ricchi sui quali incombe la responsabilità del ruolo che ricoprono,
responsabilità aggravata dall’ammonizione evangelica secondo la quale è più
facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel
regno dei Cieli. Il Manzoni esalta il cardinale Federigo e l’Innominato dopo la
conversione in quanto uomini che fanno della donazione di se stessi la norma di
vita. Condanna, invece, con sprezzante sarcasmo i politici che con la loro
azione dissennata e in nome di una guerra inutile e rovinosa provocano la
carestia e la peste nel Ducato di Milano. Inoltre il Manzoni mette in evidenza
con fine ironia tutto il vuoto che si cela in coloro che incarnano la stoltezza
di un’epoca dominata dal costume spagnolesco del culto del potere per il
potere, come è per il Conte zio e per il padre provinciale;dall’asservimento ai
potenti, come è per il dottor Azzeccagarbugli; da una scienza astratta,
superstiziosa e ridicola, come avviene per don Ferrante. C’è poi, tra i grandi,
la categoria di coloro che rifiutano il contatto della Grazia, come don
Rodrigo, Egidio, la monaca di Monza: per loro nel romanzo non c’è salvezza,
anche se le loro storie scellerate sono in qualche modo redente dalla cristiana
pietà del Manzoni.
Ma la scoperta del popolo come
fattore positivo della storia non sana del tutto il pessimismo delManzoni, che
non arriva mai a concepire l’uomo come vero protagonista della storia.
Nell’azione umana egli continua a manifestare sfiducia, poiché tutte le
iniziative falliscono, anche quelle delle creature buone e ingenue: Agnese,
organizzando il matrimonio di sorpresa, provoca lo scompiglio nel paese e la
fuga dei due promessi; Renzo, che a Milano si prodiga generosamente per salvare
dal linciaggio il vicario di provvisione, si esalta al punto da rischiare la
prigione e deve rifugiarsi a Bergamo. Anche il progetto di padre Cristoforo,
emblema di purissima carità evangelica, di mettere al riparo Renzo e Lucia
provoca guai maggiori. Ma dai guai di Lucia nasce la conversione
dell’Innominato, chiara dimostrazione di come per il Manzoni al di là delle
azioni umane, anche le più generose, vi sia un’azione misteriosa, esaltante ma
anche inquietante: l’azione della Provvidenza. Questo è il fondo
problematico e tormentoso del cattolicesimo manzoniano, che non è certo un
approdo acquietante e definitivo, ma una continua e sofferta ricerca.
Il quadro articolato e
complesso della varia umanità che agisce nel romanzo se da una parte è sorretto
dalla moralità dello scrittore, dall’altra fluisce in modo naturale, con un
ritmo del racconto che ha il sapore delle cose vissute. Nella precisione del
quadro storico si integra perfettamente la rappresentazione autentica della
vita nella Lombardia del Seicento nelle sue varie manifestazioni. L’arte del
Manzonisi dispiega nella mirabile configurazione psicologica dei personaggi,
dove scopriamo il segno di un profondissimo conoscitore del cuore umano, nella
precisa e varia descrizione di situazioni e di ambienti, da quelli nei quali si
muovono gli umili, nella semplicità della loro vita e del loro animo, a quelli
dei grandi, arroccati nei castelli e nei palazzi di città.
La grande efficacia artistica
e la straordinaria fortuna presso il pubblico popolare non sarebbero state
raggiunte senza l’attento e severo lavoro di revisione linguistica. Nel Fermo
e Luciail Manzoni era ricorso ad un’orditura “di frasi un po’ lombarde, un po’
toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine”; nell’edizione del ‘27 c’era già
un largo accostamento al toscano; nell’edizione definitiva definitiva il
modello del “fiorentino parlato dalel persone colte” portò il Manzoni alla creazione
di un linguaggio narrativo moderno che attraverso lo studio scolastico dei Promessi
sposi avrà enorme importanza per la formazione del linguaggio medio nelle
classiistruite.
La lingua del
romanzo, tanto più se confrontata con quella delle opere italiane sia
precedenti sia contemporanee, si rivela un miracolo di chiarezza, agilità ed
efficacia. Neanche la prosa foscoliana dell’Ortis può esserle
accostata, densa com’è di lirismo e di enfasi sentimentale. Per farsi un’idea
della meritoria fatica del manzoni, basta confrontare il linguaggio degli Inni
sacri, delle Odi e delleTragedie, ancora dipendente dalla tradizione
letteraria, con quello dei Promessi sposi, che proprio per le sue
peculiari caratteristiche di agilità e di chiarezza avyiòi1 processo di
superamentodella secolare frattura tra linguaggio degli scrittòri e linguaggio
del popolo.
Oltre che popolare
(aspirazione irrealizzata degli altri romantici italiani) per lessico e ritmo
sintattico, la lingua del Manzoni è estremamente articolata nell’esprimere
sentimenti e pensieri dei vari personaggi a seconda del loro diverso livello
sociale e culturale, nel descrivere situazioni storiche e condizioni
ambientali, nel commentare qua e là le azioni di questo o quel personaggio. Si
passa così dal tono ampio e disteso del racconto storico a quello sostenuto,
non privo di reminiscenze oratoria, dei capitoli dedicati al cardinale
Federigo, a quello lirico dei momenti intimistici o delle descrizioni
paesistiche, a quello comico soprattutto quando appare la figura di don
Abbondio, per arrivare al tono colloquiale, affettuoso, il più vero del
romanzo, nei dialoghi dei popolani.
Per tutte questo qualità I promessi
sposi sono il romanzo italiano più perfetto dell’ottocento e uno dei
grandi romanzi della letteratura di tutti i tempi.
Nessun commento:
Posta un commento