martedì 17 dicembre 2013

Alessandro Manzoni: Vita con percorso letterario - Manuale Tellus





ALESSANDRO MANZONI
Vita con percorso letterario


Vita (Milano, 1785 – 1873). Probabilmente padre naturale del Manzoni fu il nobile milanese Giovanni Verri, con il quale Giulia Beccaria aveva una relazione fin da prima di sposare controvoglia il conte Pietro Manzoni, un gentiluomo di campagna che non le si addiceva né per età né per gusti di vita. Giulia era figlia del grande illuminista Cesare Beccaria, autore del celebre saggio Dei delitti e delle pene(1764), nel quale era stata propugnata, con persuasiva efficacia, l’abolizione della tortura e della pena di morte.
Dall’età di sei anni il Manzoni studiò presso collegi religiosi a Merate, Lugano e Milano, mentre la madre, dopo la separazione dal marito, si tra­sferiva a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati. Il giovane Manzoni ricevette un’educazione di tipo classicistico, risentendo nello stesso tempo delle suggestioni illuministiche che gli derivavano dalla famiglia materna, e prediligendo negli studi il Parini e l’Alfieri, per la loro moralità, e il Monti, per l’eleganza dei suoi versi.
Uscito di collegio a quindici anni, il Manzoni scrisse il Trionfo della libertà, un poema inneggiante, in forme artistiche ancora acerbe, alla Rivo­luzione francese e all’ideale repubblicano. Sino a vent’anni fu praticamente solo, conducendo la vita piuttosto dissipata del giovane patrizio ben provvisto di mezzi, ma anelando anche ad emergere nel campo delle lettere. Infatti strinse amicizia con il Monti, conobbe il Foscolo ed ebbe molto da imparare dagli esuli napoletani Francesco Lomonaco e Vincenzo Cuoco, scampati alla rovina della Repubblica Partenopea del 1799. Soprattutto dal Cuoco, autore del Saggio storico sulla rivolu­zione napoletana del 1799, Manzoni derivò l’interesse per la storia, alla luce del pensiero del filosofo napoletano Giambattista Vico, e la convin­zione che la libertà è una conquista lenta, possibile soltanto dopo l’educa­zione dei cittadini.

A questi anni risalgono alcuni sonetti tra i quali Autoritratto, l’idillio Adda, dedicato al Monti, e quattro Sermoni di ispirazione pariniana e alfieriana. In questi componimenti si delinea già il carattere inconfondibile del Manzoni, con la sua austera moralità, la fermezza dei propositi e l’assenza di ogni abbandono sentimentale.
Nel 1805, invitato dalla madre, si recò a Parigi dove trascorse, salvo qualche interruzione, cinque anni decisivi per la sua formazione e per la sua vita. Per consolare la madre della perdita dell’uomo amato, compose nello stesso anno il carme In morte di Carlo Imbonati, l’opera giovanile più importante perché vi è espresso un programma di vita nel quale già si rivela la moralità del futuro uomo e scrittore.
Favorito dalle amicizie della madre, che era donna colta e ricca dl interessi, il Manzoni frequentò alcuni salotti letterari nei quali un gruppo di intellettuali - i cosiddetti Ideologi - manteneva vive le idee della Rivoluzione francese. Particolarmente affettuosa fu l’amicizia stretta con lo storico e letterato Claudio Fauriel, uno dei divulgatori, insieme a Mme de Staël, del Romanticismo in Francia. A lui il Manzoni dedicò Urania (1809), poema neoclassico elegante ma ben lontano dall’autentica ispirazione del giovane autore, che scrisse all’amico: «Sono scontentissimo di questi miei versi, soprattutto per la loro totale mancanza d’interesse; d’or innanzi ne scriverò forse di più brutti, ma di simili a questi mai più». Un chiaro segno della volontà del Manzoni di cercare nuove vie di più solido impegno. Negli anni trascorsi a Parigi egli arricchì ulteriormente le sue conoscenze, trovando conferma agli ideali liberali e umanitari e all’interesse per la storia.
Nel 1808 sposò Enrichetta Blondel, di origine svizzera e di religione calvinista, la quale ben presto si convertì al cattolicesimo. Stimolato dall’esempio della moglie, il Manzoni passò da un atteggiamento religioso piuttosto tiepido all’inquietudine della ricerca e dopo lunghi studi e approfondite riflessioni pervenne nel 1810 alla conversione al cattolicesi­mo, con il proposito, mai tradito, di fare della fede una norma totale di vita. Trasferitosi a Milano nello stesso anno, vi rimase quasi ininterrot­tamente per il resto della sua lunga vita, dimorando ora in città ora nella villa che possedeva a Brusuglio.
Dal 1812 al 1827 in un regime di vita lineare interrotto solo nel 1819-1820 da un viaggio a Parigi per motivi di salute, il Manzoni esaurì la sua breve ma intensa fase creativa, componendo gli Inni sacri, le tragedie Il conte di Carmagnola eAdelchi, e I promessi sposi. Fra le tragedie e il romanzo vanno ricordate leOsservazioni sulla morale cattolica, importan­ti non per l’arte ma per il pensiero del Manzoni. Aderì al Romanticismo, fornendo contributi originali di elaborazione teorica. Nel 1827, dopo la prima edizione dei Promessi sposi, si recò a Firenze per attingere diret­tamente al parlato toscano prima di procedere a una paziente revisione linguistica dell’opera.
Dopo l’edizione definitiva del romanzo (1840-42), il Manzoni si dedicò a studi storici e linguistici: Storia della colonna infame (1842); Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (Lasciato incompiuto e pubblicato postumo); uno studio sulla lingua italiana rimasto anch’esso incompiuto e pubblicato postumo con il titolo Sentir Messa.
Circondato da una larga fama e dal rispetto generale, il grande scrit­tore visse in modo appartato e discreto, a causa del suo carattere riservato e di certi disturbi nervosi che lo travagliarono quasi tutta la vita. Per le stesse ragioni non partecipò alla politica attiva, ma seguì sempre con at­tento interesse le vicende del nostro Risorgimento. Morta l’amatissima Enrichetta nel 1833, quattro anni dopo il Manzoni si risposò con Teresa Borri Stampa. Ma la sua lunghissima vita continuò ad essere turbata da numerosi lutti familiari, sopportati con cristiana e ferma rassegnazione: la morte della madre, della seconda moglie e di sei degli otto figli. (Sulla famiglia Manzoni ha scritto un ottimo romanzo biografico Natalia Ginzburg ed anche Celati con il suo Manzoni). Nel I861 fu nominato senatore e ricevette la visita di Cavour e di Garibaldi.
Nel primo anniversario della sua morte Giuseppe Verdi fece eseguire la Messa da requiem a lui dedicata.

La formazione intellettuale e letteraria. Mentre Leopardi esprime, al livello più alto, la componente lirica del Romanticismo italiano, Manzoni è l’au­tore che da una parte arriva a fornire il quadro teorico più organico e più avanzato del movimento romantico lombardo e dall’altra ne attua nella forma più compiuta la tendenza realistica.
La formazione intellettuale, morale e letteraria del Manzoni deriva da tre componenti:l’Illuminismo, la conversione al cattolicesimo, il Roman­ticismo.

Manzoni e l’Illuminismo. Già nell’infanzia il Manzoni assorbì idee illuministiche nell’ambiente familiare attraverso la madre Giulia Beccaria e le relazioni di questa con gli ambienti milanesi colti, dove era sempre viva l’eredità lasciata dal gruppo del famoso periodico Il Caffè (1764-66). Gli anni trascorsi a Parigi (1805-1810) confermarono e arricchirono le convinzioni che il giovane Manzoni si era già formato a Milano. Infatti, l’amicizia allacciata con gli Ideologi e in particolare con il Fauriel, rafforzò in lui il senso morale già per sé saldo; l’apertura verso le idee di libertà uguaglianza e giustizia; l’insofferenza per gli schemi precostituiti sia in campo politico-sociale sia nell’attività letteraria; la fiducia nella funzione educativa della letteratura.
Ma con l’illuminismo il Manzoni ebbe un confronto critico, in quanto rifiutò quelle componenti che contrastavano con l’etica e con i fondamenti della fede cristiana, come il deismo (la fede in un Dio astratto, variamente configurato, e lontano dagli uomini) e il materialismo (quest’ultimo accet­tato, invece, da Foscolo e da Leopardi). Infatti, anche prima della con­versione egli era intimamente religioso, pur se talvolta ostentava anticlericali.

La conversione. L’adesione al cattolicesimo fu per il Manzoni il passaggio da un atteggiamento morale già intimamente cristiano a una profes­sione aperta della fede, tale da coinvolgere pienamente la sua vita. Del cattolicesimo, studiato profondamente nella dottrina, lo scrittore esaltò soprattutto le componenti evangeliche della giustizia e della donazione di sé agli altri. Un po’ per il suo rigorismo morale, un po’ per influsso della moglie Enrichetta educata al calvinismo, il Manzoni risentì in qualche mo­do di certe tendenze giansenistiche dei sacerdoti che ebbe come direttori spirituali, Eustachio Dègola a Parigi e Luigi Tosi a Milano. (Il giansenismo, che prende nome dal vescovo olandese Cornelio Giansenio, 1585-1638, fu una dottrina che professò un severo rigore morale, necessario perché l’uomo nasce con l’inclinazione al peccato e non è sicuro di essere nel numero dei predestinati ai quali soltanto Dio concede la Grazia. Questa dottrina, giudicata ereticale dalla chiesa cattolica, si diffuse particolarmente in Francia nel secolo XVIII, ricevendo l’adesione di grandi ingegni come lo scrittore, scienziato e filosofo, Blaise Pascal,1623-1662, finché tramontò verso la fine del sec. XVIII per le condanne e le persecuzioni subite). Tracce gian­senistiche rimarranno in Manzoni nel rigore delle convinzioni morali e nella con­cezione pessimistica della storia (più evidente nelle tragedie).
La conversione esaltò, alla luce degli insegnamenti evangelici, quei principi di libertà, di giustizia e di adesione ai bisogni degli oppressi che il Manzoni era venuto formandosi sino a quel momento. Per questo egli non condivise gli atteggiamenti politici assunti dalla Chiesa durante la Restaurazione (il principio dell’alleanza fra il trono e l’altare) e più tardi auspicherà l’annessione dello Stato Pontificio all’Italia, in quanto peso inutile e dannoso per l’azione schiettamente religiosa della Chiesa. Una posizione, questa, che rivela i caratteri innovatori del cat­tolicesimo manzoniano a differenza degli atteggiamenti degli altri cattolici liberali del tempo. Sul versante letterario, la conversione volle dire per il Manzoni la ricerca di temi nuovi permeati di sostanza morale e socialmente utili.

La poetica romantica del Manzoni. Il Manzoni seguì con fervida ade­sione le polemiche dei romantici contro la vecchia cultura italiana ristretta ai cenacoli letterari, e le loro battaglie per una nuova cultura, basata sul­l’osservazione del presente e quindi indirizzata a un pubblico popolare (cioè, borghese, secondo il significato che la parola popolo aveva in quel periodo). Su queste tendenze di fondo, che si allacciavano alla linea della cultura lombarda più viva nel Settecento - quella illuministica - il Manzoni si trovò pienamente d’accordo, perché corrispondevano sia al suo carattere sia alle sue idee.
Ma anch’egli, come il Leopardi, assunse nei confronti del Romanticismo posizioni autonome, attraverso un serio lavoro di riflessione sui documenti teorici dei romantici sia italiani sia stranieri, oltre che attraverso il ripen­samento critico delle opere che veniva componendo (Inni sacri e tragedie). Senza riserve egli accettò la parte polemica del movimento: rifiuto della mitologia anche in considerazione della sua natura pagana; rifiuto delle regole e dell’imitazione dei classici; fastidio per tutto ciò che sapesse di antiquato e libresco. Per quanto riguarda la parte co­struttiva, la tendenza romantica più rispondente al suo mondo morale e poetico gli parve quella realistica, la più idonea per attuare un programma di educazione di un nuovo e più vasto pubblico di lettori. Diffidò, invece, della componente lirico-individualistica, in quanto, a suo giudizio, com­portava il rischio dell’abbandono sentimentale e dell’invenzione fantastica fuorviante e gratuita.
Le linee della poetica manzoniana sono rintracciabili in molte lettere private, soprattutto quelle indirizzate al Fauriel, ma in special modo in due saggi, scritti anch’essi in forma di lettere: Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie (scritta nel ’20 e pubblicata nel ’23: “Lettera al sig. Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia”); Lettera “Sul Romanticismo” al marchese Cesare d’Azeglio, scritta come documento privato nel ‘23 e pubblicata parecchi anni dopo. Insieme alle elaborazioni teoriche del Leopardi, rimaste inedite, i due saggi man­zoniani sono l’espressione più alta del dibattito promosso dal Romanticismo.

I principi della poetica manzoniana possono riassumersi in due punti fondamentali: il “vero storico” e il “vero poetico” .

IL VERO STORICO. Manzoni afferma che «la poesia, e la letteratura in genere, deve proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interes­sante per mezzo».
L’utile per iscopo. In coerenza con gl’insegnamenti ricevuti dal Parini, dall’Alfieri, dall’Illuminismo e alla luce della sua concezione cristiana, il Manzoni vuole un’arte moralmente e socialmente utile. Le opere lettera­rie devono ispirare, con lo svolgimento delle vicende rappresentate o nar­rate, il naturale desiderio del bene e accrescere il patrimonio spirituale civile del pubblico.
Il vero per soggetto. Il vero è per il Manzoni «l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole», poiché «il falso può bensì trastullar la mente, ma non arricchirla, né elevarla». Il vero viene identificato nella storia che, come il Manzoni ha appreso dagli Ideologi, non dovrà essere più soltanto quella tradizionale dei grandi protagonisti e dei popoli vincitori, ma piuttosto quella delle plebi vinte e oppresse, alle quali gli storiografi non hanno ancora prestato la doverosa attenzione.
L’interessante per mezzo. Per ottenere l’utile come fine, la letteratura deve scegliere argomenti verso i quali la massa dei lettori abbia un interes­se derivante dalla realtà vissuta e presente, «dalle memorie e dalle im­pressioni giornaliere della vita». Sino ad ora, invece, la letteratura ha trattato abitualmente argomenti che hanno interessato la sola classe dei letterati.

Il VERO POETICO. Manzoni afferma che «la poesia completa la storia» poiché mentre lo storiografo accerta i fatti guardandoli dal di fuori, il poeta con la sua sensibilità mette in evidenza un altro vero: il vario agitarsi dei sentimenti nel cuore dei protagonisti della storia.

Vero storico e vero poetico dunque concorrono alla formazione di una letteratura rinnovata che da una da una parte, mettendo in luce i sentimenti dei protagonisti della storia, farà conoscere la grandezza e la miseria dell’uo­mo; dall’altra darà una voce alle sofferenze dei popoli vinti e oppressi, che sono passati sulla terra senza lasciarvi traccia.

Inni sacri. Costituiscono le prime opere poetiche valide del Man­zoni,interiormente rinnovato dalla conversione e proteso all’espressione del proprio autentico mondo morale e sentimentale.

Nel progetto del poeta dovevano essere dodici dedicati ciascuno a una grande festa liturgica, ma ne furono composti solo cinque: quattro fra il 1812 e il 1815 (La Resurrezione; Il nome di Maria; Il Natale; La Passione) e l’ultimo, La Pentecoste, terminato, dopo varie riprese, nel 1822. Rimane unframmento di un sesto inno incompiuto, Ognissanti. L’argomento sacro corrisponde alla nuova sensibilità del Manzoni con­vertito da poco, ma nei temi religiosi si riversa tutta la sostanza umana e culturale del poeta con tutto ciò che gli deriva dalla sua prima formazione illuministica. Dal punto di vista artistico gli Innisacricostituiscono un’im­portante novità perché il Manzoni rifiuta la lirica tradizionale di deriva­zione petrarchesca, come anche quella contemporanea influenzata dal Neoclassicismo, per tendere a poesia sliricata, priva cioè di effusioni sentimentali e tutta fondata, al contrario, sulle verità oggettive che costi­tuiscono il patrimonio della religiosità popolare. Nei primi quattro inni la materia dottrinale non sempre si traduce in immagini poetiche e manca un vigoroso disegno unitario che organizzi ivari elementi in una struttura armoniosa. Anche il linguaggio è disuguale, poiché vi si alternano termini letterari, latinismi e espressioni di origine popolare. Non mancano, tut­tavia momenti di poesia autentica là dove il Manzoni tocca la sostanza sociale del cristianesimo come messaggio di uguaglianza e di liberazione per gli uomini più deboli e più bisognosi. In questi punti traspare già quell’adesione ai problemi degli oppressi e dei derelitti che emergerà compiutamente nei Promessi sposi.
Una robusta struttura unitaria e un’ispirazione più matura distinguono inveceLa Pentecoste, dove la rievocazione della discesa dello Spiri­to Santo sugli Apostoli si svolge in un ampio quadro di sintesi storica, e la necessità dell’azione perenne di Dio a favore dell’uomo viene espressa in una calda e vibrante preghiera, che il Manzoni innalza a nome di tutta l’umanità bisognosa di sostegno, di correzione, di conforto.

Le Odi. Sono due: Marzo 1821 e Il Cinque Maggio.
Il Marzo 1821 fu scritto durante i moti carbonari piemontesi, quando sembrava che Carlo Alberto si ponesse alla guida di un movimento di libe­razione nazionale. L’ode, rimasta medita per il volgere degli avvenimenti contrario alle speranze dei patrioti, venne pubblicata solo nel 1848 durante l’insurrezione antiaustriaca milanese (le Cinque Giornate di Milano). Oltre che di motivi patriottici, l’ode è intessuta anche di motivi morali e religiosi, che le danno un rilievo tutto particolare, tipicamente manzoniano, nell’ambito della letteratura romantico-risorgi­mentale. La riscossa degli Italiani rientra, secondo il poeta, nella storia degli oppressi che in ogni tempo si sono ribellati agli oppressori, combat­tendo in nome della giustizia sotto il vigile occhio protettore di Dio. I Tedeschi (il poeta chiama così anche gli Austriaci) che hanno combattuto una guerra giusta contro Napoleone, oppressore della loro libertà, non possono - se non tradendo i loro stessi ideali più sacri - restare come oppressori in quell’Italia che è “una d’arme, di lingua, d’altare’.
La visione religiosa della storia e della vita illumina anche la vicenda terrena di Napoleone nel Cinque Maggio: per il Manzoni, que­st’uomo dalle doti eccezionali diventa veramente grande quando nella mi­seria dell’esilio si riconosce strumento di Dio e nella fiducia in lui trova la vera pace interiore.


Le tragedie. Sono due: Il conte di Carmagnola, pubblicato nel 1820 con dedicata al Fauriel, e Adelchi, pubbucato nel 1822 con dedica alla moglie Enrichetta Blondel. Come le tragedie tradizionali, sino in cinque atti in versi, ma per la prima volta non vi si trovano osservate le unità di tempo e di luogo. Il Manzoni, infatti, come scrive nella Lettre a M. Chauvet, crede indispensabile soltanto l’unità d’azione, concepita come unità d’ispirazione e di struttura fondamentalmente necessaria in ogni opera d’arte, mentre ritiene che le unità di tempo e di luogo siano artificiose, inverosimili e limitatrici della libertà delpoeta. Altra novità èla presenza del Coro:uno nel Conte di Carmagnola,duenell’Adelchi.Il Coro, presente nell’an­tica tragedia greca, viene ripreso dal Manzoni comeun cantuccio dove il poeta possa parlare in persona propria, fare cioè le proprie osserva­zioni morali sulle vicende rappresentate sulla scena.
Lo tragedie sono le prime opere nelle quali il Manzoni applica il criterio del “vero” identificato con la storia, quando ormai la sua poetica e la sua ideologia arrivano a un livello di piena maturità. Con la serietà che lo distingueva, prima di affrontare questo nuovo genere lesse le opere di Shakespeare e studiò leLezioni sull’arte e sulla letteratura drammatica del tedesco August Wilhelm von Schlegel, che insieme, al fratello Friedrich era stato tra i fondatori e i massimi teorici del Romanticismo tedesco.
Segno visibile dello scrupolo del Manzoni sono le prefazioni di carattere storico ed estetico alle sue tragedie.

Il conte dl Carmagnola. Tratta la vicenda di un capitano di ventura della prima metà del sec. XV, Francesco di Bussone, conte di Carmagnola. Dopo essere stato al servizio di Filippo Maria Visconti, di cui è diventato genero, Il Carmagnola viene destituito dal duca, geloso delle sue vittorie, e passa al servizio dei Veneziani. Scop­piata la guerra tra Venezia e Milano, combatte contro il Visconti e lo sconfigge nella battaglia di Maclodio (1427). Ma la liberazione dei prigionieri, dettata da un impulso di generosità, e la conduzione piut­tosto fiacca della guerra insospettiscono il Senato veneziano, che accusa il Carmagnola di tradimento e lo condanna a morte. Tra i senatori c’e Marco, amico del Carmagnola. Questi vorrebbe salvarlo, ma sul senti­mento dell’amicizia deve far prevalere l’interesse dello Stato, sia pure con una decisione molto sofferta. Rimasto solo, il Carmagnola sale sul patibolo dopo aver dato l’ultimo saluto alla moglie e alla figlia.

Il senso della tragedia è pessimistico, poiché la storia appare al Manzoni come il regno della violenza che fa soccombere un innocente e fa piegare alle ragioni della politica le ragioni del cuore, anche se il poeta tempera la sua visione negativa con la luce della fede che alla fine consola il Carmagnola. Ma la conclusione è come giustapposta all’intera vicenda, che risulta costruita quasi su due protagonisti diversi: dapprima il Carma­gnola uomo d’armi, poi il Carmagnola uomo di fede, senza un trapasso plausibile e convincente da una configurazione all’altra. Oltre la mancata unità del personaggio principale, c’è nella tragedia una certa rigidità nella contrapposizione di valori positivi e di valori negativi. Non mancano tut­tavia momenti felici, come il soliloquio di Marco, lacerato tra i doveri dell’amico e quelli dell’uomo di Stato, e come il Coro (S’odea destra uno squillo di tromba...), nel quale il Manzoni, descrivendo la guerra tra Vene­ziani e Milanesi, lancia un richiamo indiretto agli Italiani del suo tempo affinché abbandonino le discordie e le lotte fratricide.
Di esito molto più felice, anzi vero capolavoro, è l’ Adelchi nel quale il Manzoni si ispira alle vicende che determinarono la fine del Regno longobardico in Italia tra il 772 e il 774.

Adelchi. Ermengarda, sposa ripudiata di Carlo re dei Franchi, torna a Pavia presso il padre Desiderio, re dei Longobardi, e il fratello Adelchi, con il proposito di ritirarsi in un convento. Poco dopo giunge un messaggero di Carlo che intima a Desiderio di restituire a papa Adriano I le terre della Chiesa che ha strappato con la forza. I duchi longobardi sono divisi: alcuni propongono di rifiutare l’ordine e di combattere contro i Franchi; altri, incerti, si aggregano a Svarto, un semplice solda­to che complotta contro Desiderio. La guerra viene dichiarata e Carlo scende in Italia. Trova uno sbarramento insuperabile eretto dai Lon­gobardi alleChiuse e sta per tornarein Francia, quando il diacono Martino, mandato dall’arcivescovo di Ravenna, gli rivela l’esistenza di un passaggio segreto per i monti che gli consente di sorprendere alle spalle i Longobardi. La battaglia divampa, mentre gli Italiani, ridotti alla condizione di servi, si illudono nella liberazione da parte dei Fran­chi. Adelchi, anche se è contrario alla politica del padre e si è battuto per evitare la guerra, combatte valorosamente per difendere il padre e l’onore del regno. Molti duchi, invece, guidati da Svarto, tradi­scono il loro re e si arrendono a Carlo. Intanto Ermengarda muore nel convento di S. Salvatore a Brescia. I Longobardi vengono sconfitti e la tragedia si conclude nella tenda di Carlo dove viene portato Adelchi ferito a morte, al cospetto del vincitore Carlo e del padre Desiderio fatto prigioniero.

La tragedia è sorretta da una vigorosa struttura nella quale “vero storico”, e “vero poetico” si integrano perfettamente. Nel grandioso quadro degli avvenimenti storici si manifestano i vari e contrastanti sentimenti degli uomini: da una parte quelli che agiscono in nome della politica (Desiderio e Carlo) o della divorante ambizione (Svarto e Guntigi); dall’altra le due figure più care al Manzoni, Adelchi ed Ermengarda, che agiscono in nome della giustizia e della pietà. Anche se i caratteri degli altri personaggi sono ben approfonditi, lo spazio maggiore è riservato a loro, creature buone e generose che con la sofferenza accettata e patita riscattano le ingiustizie commesse dal loro popolo. Adelchi, costretto dalla devozione filiale e dal senso dell’onore a combattere una guerra che intimamente gli ripugna, vive drammaticamente la contraddizione tra gli ideali di giustizia e la realtà terrena fatta di violenza e di sangue. Incarnazione del pessimismo cristiano del Manzoni, egli è convinto che sulla terra non esista spazio per chi voglia combattere per un ideale giusto e puro, poiché non è pos­sibile evadere dalla condizione di oppressori o di oppressi: “loco a gentile,/ad innocente opra non v’è: non resta/che far torto o patirlo. Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi/dritto” (Atto V, Scena VIII). Il dramma si risolve solo nella rasserenante fiducia in Dio, al quale Adelchi si rivolge, sublimato dal dolore, pregandolo di accogliere la sua “anima stanca”.
I medesimi ideali e le medesime sofferenze sono in Ermengarda, tra­sfusi in una sensibilità più delicata e più trepida. Ripudiata perché sterile, la sua umiliazione è resa più cruda dall’amore fortissimo che sente ancora per Carlo. Vittima degli oppressori, come Adelchi e come tutte le donne italiane che hanno patito per colpa dei Longobardi, anche lei trova con­forto nella fede e diviene, nel bellissimo Coro che la riguarda (Sparsa le trecce morbide...), il simbolo stesso della sofferenza accettata con cristiana adesione agli imperscrutabili disegni di Dio, a quella “provida sventura” che sa trasformare in bene il male della vita e della storia.
Per la perfetta; fusione tra motivi ideologici e motivi sentimentali Adelchi è la più bella tragedia del teatro romantico italiano.
     

 I Promessi sposi. L’ispirazione del Manzoni a un’arte veramente popo­lare, che desse lo spazio dovuto alla categoria degli umili e degli oppressi, fornendo insieme profonda lezione di moralità, trova il pieno raggiun­gimento nel romanzo.
Mentre all’estero il genere letterario  “romanzo” conosceva da tempo una larga fortuna, in Italia veniva disdegnato dai più come un sottopro­dotto letterario. Il Manzoni, con un atto di grande coraggio, scelse di scrivere un romanzo come opera di maggiore impegno, una volta convin­tosi che la prosa narrativa aveva in sé grandi possibilità di interessare, e quindi educare, un vasto pubblico. Gli giovò la lettura dei romanzi storici dell’inglese Walter Scott (1771-1832), in particolareIvanhoe, in quanto gli offriivano un percorso nuovo per l’unione di storia e fantasia, in una prospettiva e in uno spazio ben più ampi di quanto potesse ottenere con un’opera teatrale. Si guardò bene, però, dal seguire da vicino le orme dello Scott, poiché quello che interessava a 1ui non era l’intreccio avventuroso, lo spirito romanzesco, bensì la rappresentazione della vita di un po­polo nélla sua autentica realtà umana e sociale, in una cornice storica rigorosamente accertata (“vero storico” e “vero poetico”).
L’elaborazione del romanzo fu preceduta e accompagnata da un inten­so lavoro di riflessione, come attestano le lettere al Fauriel, in una delle quali il Manzoni scriveva: “Faccio quanto posso per imbevermi dello spiri­to del tempo, per viverci dentro (...) Quanto al progresso della vicenda, all’intreccio, ritengo che il mezzo migliore sia di fare il contrario di quello che han fatto gli altri, di applicarmi a considerare nella realtà il modo di comportarsi degli uomini e di considerarlo appunto in ciò che esso ha di opposto allo spirito romanzesco”.
Dopo una prima stesura dal 1821 al 1823 con il titolo Fermo e Lucia, il Manzoni attese al totale rifacimento del romanzo, che pubblicò nel 1827 con il titolo I promessi sposi (titolo sostituito, mentre il libro era in corso di stampa, al precedente Gli sposi promessi).Esaurita la fase creativa, lo scrittore dedicò circa quindici anni alla revisione linguistica dell’opera, attingendo con ampia libertà al “fiorentino parlato dalle persone colte” (la famosa risciacquatura del romanzo in Arno, nell’intento di renderla facilmente comprensibile al maggior numero possibile di lettori. L’edizione definitiva venne pubblicata a dispense tra il 1840 e il 1842. I promessi sposi sono dunque il risultato di una fatica sfibrante del Manzoni, che vi profuse tutte le energie senza risparmio, dagli scru­polosi studi storici, all’ideazione, alle due stesure che comportarono tagli
e rifacimenti, per arrivare alla totale rielaborazione linguistica.
La vicenda èambientata in Lombardia, tra il 1628 e il 1631, durante la dominazione spagnola in Italia, quando si svolgevano le guerre del Monferrato e della Valtellina, momenti “secondari” della terribile guerra dei Trent’anni (1618-1648) che devastò l’Europa e l’Italia, seminando ovunque rovine, carestia e pestilenza.

Il romanzo prende avvio dall’impedimento del matrimonio di due filatori di seta, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, ad opera di don Rodrigo, un signorotto prepotente e spregiudicato che ha facile presa su don Abbondio, il parroco che dovrebbe celebrare le nozze. Agnese, madre di Lucia, tenta di superare l’ostacolo mandando Renzo a consultare un avvocato, il dottor Azzeccagarbugli,senza sa­pere che costui è abituale ospite della mensa di don Rodrigo. Fallito questo tentativo, Agnese organizza un matrimonio di sorpresa in casa del curato, mentre Lucia invoca l’aiuto di padre Cristoforo, un fra­te santo e coraggioso.Questi si reca in casa di don Rodrigo per convincerlo a desistere dal suo proposito, ma non riesce a piegare il cuore del signorotto tracotante e puntiglioso. Il matrimonio di sorpresa fallisce, mentre per una serie di cause nel villaggio si sca­tena una grande confusione e Lucia corre il rischio di essere rapita dai bravi di don Rodrigo. Interviene padre Cristoforo che, in attesa di momenti più propizi, manda Lucia e Agnese a Monza, presso il con­vento della Signora, e Renzo a Milano, affidandolo alla prote­zione di un confratello, il padre Bonaventura. Il giovane, però, si lascia coinvolgere nel tumulto scoppiato a Milano a causa della carestia e, dopo aver rischiato la prigione, scappa a Bergamo presso un cugino. Lucia viene rapita e portata al castello di un truce signore, l’Innominato, il quale, già in uno stato d’inquietudine, viene colpito dall’atteggiamento della ragazza e con l’aiutodel cardinale Federigo Borromeo si converte. Lucia viene liberata, riconsegnata a sua madre e quindi affidata alle cure di donna Prassede, moglie del polvero­so erudito don Ferrante. Intanto in Lombardia imperversa la guerra, arrivano i Lanzichenecchi e scoppia la peste. Renzo, saputo che Lucia si trova a Milano, va a cercarla, ma apprende che la sua promessa è stata colpita dalla peste. La ritrova, ormai guarita, al lazzaretto dove rivede anche padre Cristoforo, il quale libera i due promessi dal­l’ultimo ostacolo, sciogliendo il voto di verginità fatto da Lucia nel castello dell’Innominato. Nel lazzaretto si trova anche don Rodrigo moribondo. Di lì a poco morirà anche padre Cristoforo. Dopo aver seminato morte e miseria, la peste si placa. I due possono finalmente tornare al loro paese e sposarsi.
Le vicende dolorose di renzo e Lucia si concludono quindi felicemente, in armonia con la concezione del Manzoni, fiduciosa – ma non per questo scontata e pacifica - nell’intervento di Dio, il quale non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande. I guai, afferma il Manzoni alla fine del roman­zo, “quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore“.

Mentre nelle tragedie il Manzoni si era soflermato sull’analisi del dramma che si svolge in alcune coscienze individuali di personaggi della “grande storia” (il conte di Carmagnola, Adelchi, Ermengarda), nei Promessi sposi la sua visione morale e l’indagine sull’agire umano si allargano a un’epoca e al dramma di un intero popolo.
Nel romanzo sono presenti tutte le categorie sociali: contadini, artigiani, osti, piccoli e grandi tiranni, uomini di governo, ecclesiastici, in ambienti che vanno dal piccolo borgo alla campagna, alla città. Ma la novità più impor­tante è il ruolo di protagonisti assegnato agli umili senza voce nella storia ufficiale, quelli che don Rodrigo definisce “gente di nessuno”. Sono due popolani, Renzo e Lucia, che muovono le fila del racconto, mentre i potenti vi entrano come figure subordinate alle loro vicende o in funzione di osta­colo (don Rodrigo, il dottor Azzeccagarbugli, il conte zio, il padre provin­ciale, l’Innominato prima della conversione) o in funzione di aiuto (il cardi­nale Federigo, l’Innominato dopo la conversione). Persino della politica e della guerra si parla nel romanzo solo in quanto provocano enormi scia­gure ai due promessi e alla gente buona e semplice come loro. Per la prima volta nella nostra letteratura entra il mondo dei popolani con la sua autentica realtà di ambienti, di costumi, di credenze; un mondo che pur conoscendo la dura fatica del vivere in un’epoca di soprusi, ingiustizie, taglieggiamenti, va avanti con rassegnazione operosa, confortato dalla fiducia in Dio.

Il popolo incarna per il Manzoni i valori positivi della storia, e questo concetto, acquisito definitivamente nel romanzo, viene a temperare in qual­che modo il pessimismo trasfuso nelle tragedie, dove il male presente nella storia non aveva ancora trovato una definitiva spiegazione. Si tratta del popolo delle campagne, che vive con una sua disinvolta naturalezza i valori evangelici dell’amore, dell’onestà, della laboriosità e subisce la violenza senza ribellarsi. Il popolo cittadino che invece provoca una sommossa contro i governanti è visto dal Manzoni con occhio fortemente critico. E’ da osservare che al Manzoni ripugnava ogni forma di violenza, anche quella dettata da rivendicazioni giuste; mentre d’altro canto la sua è l’ideologia del cattolico liberale moderato che auspica sinceramente il miglioramento delle condizioni di vita delle classi inferiori, ma con la guida serena e l’iniziativa generosa delle classi superiori, sulle quali sovrasta il dovere cristiano del  “servizio”, nei confronti di coloro che versano nel bisogno. Visto nell’ottica del Manzoni, questo è un atteggiamento impron­tato a severa moralità, poiché se la vita dev’essere per tutti un “servizio”, particolarmente lo è per i potenti e per i ricchi sui quali incombe la re­sponsabilità del ruolo che ricoprono, responsabilità aggravata dall’ammoni­zione evangelica secondo la quale è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei Cieli. Il Manzoni esalta il cardinale Federigo e l’Innominato dopo la conversione in quanto uomini che fanno della donazione di se stessi la norma di vita. Condanna, invece, con sprezzante sarcasmo i politici che con la loro azione dissennata e in nome di una guerra inutile e rovinosa provocano la carestia e la peste nel Ducato di Milano. Inoltre il Manzoni mette in evidenza con fine ironia tutto il vuoto che si cela in coloro che incarnano la stoltezza di un’epoca dominata dal costume spagnolesco del culto del potere per il potere, come è per il Conte zio e per il padre provinciale;dall’asservimento ai potenti, come è per il dottor Azzeccagarbugli; da una scienza astratta, superstiziosa e ridicola, come avviene per don Ferrante. C’è poi, tra i grandi, la categoria di coloro che rifiutano il contatto della Grazia, come don Rodrigo, Egidio, la monaca di Monza: per loro nel romanzo non c’è salvezza, anche se le loro storie scellerate sono in qualche modo redente dalla cristiana pietà del Manzoni.
Ma la scoperta del popolo come fattore positivo della storia non sana del tutto il pessimismo delManzoni, che non arriva mai a concepire l’uomo come vero protagonista della storia. Nell’azione umana egli continua a manifestare sfiducia, poiché tutte le iniziative falliscono, anche quelle delle creature buone e ingenue: Agnese, organizzando il matrimonio di sorpresa, provoca lo scompiglio nel paese e la fuga dei due promessi; Renzo, che a Milano si prodiga generosamente per salvare dal linciaggio il vicario di provvisione, si esalta al punto da rischiare la prigione e deve rifugiarsi a Bergamo. Anche il progetto di padre Cristoforo, emblema di purissima carità evangelica, di mettere al riparo Renzo e Lucia provoca guai mag­giori. Ma dai guai di Lucia nasce la conversione dell’Innominato, chiara dimostrazione di come per il Manzoni al di là delle azioni umane, anche le più generose, vi sia un’azione misteriosa, esaltante ma anche inquietante: l’azione della Provvidenza. Questo è il fondo problematico e tormentoso del cattolicesimo manzoniano, che non è certo un approdo acquietante e definitivo, ma una continua e sofferta ricerca.
Il quadro articolato e complesso della varia umanità che agisce nel romanzo se da una parte è sorretto dalla moralità dello scrittore, dall’altra fluisce in modo naturale, con un ritmo del racconto che ha il sapore delle cose vissute. Nella precisione del quadro storico si integra perfettamente la rappresentazione autentica della vita nella Lombardia del Seicento nelle sue varie manifestazioni. L’arte del Manzonisi dispiega nella mirabile configurazione psicologica dei personaggi, dove scopriamo il segno di un profondissimo conoscitore del cuore umano, nella precisa e varia descrizione di situazioni e di ambienti, da quelli nei quali si muovono gli umili, nella semplicità della loro vita e del loro animo, a quelli dei grandi, arroc­cati nei castelli e nei palazzi di città.
La grande efficacia artistica e la straordinaria fortuna presso il pubblico popolare non sarebbero state raggiunte senza l’attento e severo lavoro di revisione linguistica. Nel Fermo e Luciail Manzoni era ricorso ad un’ordi­tura “di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine”; nell’edizione del ‘27 c’era già un largo accostamento al toscano; nell’edizione definitiva definitiva il modello del “fiorentino parlato dalel persone colte” portò il Manzoni alla creazione di un linguaggio narrativo moderno che attraverso lo studio scolastico dei Promessi sposi avrà enorme importanza per la formazione del linguaggio medio nelle classiistruite.
La lingua del romanzo, tanto più se confrontata con quella delle opere italiane sia precedenti sia contemporanee, si rivela un miracolo di chiarezza, agilità ed efficacia. Neanche la prosa   foscoliana dell’Ortis può esserle accostata, densa com’è di lirismo e di enfasi sentimentale. Per farsi un’idea della meritoria fatica del manzoni, basta confrontare il linguaggio degli Inni sacri, delle Odi e delleTragedie, ancora dipendente dalla tradizione letteraria, con quello dei Promessi sposi, che proprio per le sue peculiari caratteristiche di agilità e di chiarezza avyiòi1 processo di superamentodella secolare frattura tra linguaggio degli scrittòri e linguaggio del popolo.
Oltre che popolare (aspirazione irrealizzata degli altri romantici italiani) per lessico e ritmo sintattico, la lingua del Manzoni è estremamente arti­colata nell’esprimere sentimenti e pensieri dei vari personaggi a seconda del loro diverso livello sociale e culturale, nel descrivere situazioni storiche e condizioni ambientali, nel commentare qua e là le azioni di questo o quel personaggio. Si passa così dal tono ampio e disteso del racconto storico a quello sostenuto, non privo di reminiscenze oratoria, dei capitoli dedicati al cardinale Federigo, a quello lirico dei momenti intimistici o delle descrizioni paesistiche, a quello comico soprattutto quando appare la figura di don Abbondio, per arrivare al tono colloquiale, affettuoso, il più vero del romanzo, nei dialoghi dei popolani.

Per tutte questo qualità I promessi sposi sono il romanzo italiano più perfetto dell’ottocento e uno dei grandi romanzi della letteratura di tutti i tempi.



Nessun commento:

Posta un commento