giovedì 19 dicembre 2013

Giacomo Leopardi: Vita con percorso letterario - Manuale Tellus






GIACOMO LEOPARDI
 PERCORSO LETTERARIO E VITA

La vita. Giacomo Leopardi (Recanati, Macerata, 1798 - Napoli, 1837). Nacque dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Nonostante il sostanziale distacco dai geni­tori - il padre spendeva il suo tempo in opere di inutile erudizione; la madre, arcigna e bigotta, era occupata a curare puntigliosamente il patri­monio familiare - Leopardi trascorse l’infanzia serenamente. Ma, dopo essere stato istruito da due sacerdoti sino all’età di undici anni, egli si rinchiuse nella biblioteca del padre per sette anni di “studio matto e disperatissimo”. Si dette allo studio delle lingue antiche e di alcune lingue moderne e si formò un bagaglio sbalorditivo di erudizione. Scrisse saggi eruditi e fece le prime prove poetiche, ma senza esserne soddisfatto. Verso la fine di questo periodo di studi, suggestionato dalle teorie dei maggiori filosofi illuministi e dal Romanticismo, Leopardi che aveva abbandonato la fede cattolica e si andava progressivamente liberando degli elementi più sorpassati della tradizione letteraria, cominciò a scrivere le sue prime poesie significative. Sono di quest’epoca componimenti a sfondo filosofico sulla condizione dell’uomo; canti di tono civile e patriottico; e i Primi idilli poesie nelle quali il punto di partenza è sempre un quadro paesistico. Intanto il poeta, che nei molti anni trascorsi nel chiuso della biblioteca si era provocato una gravissima distorsione della colonna vertebrale con la conseguenza tristissima di una gobba an­teriore e un’altra posteriore, era tormentato dal desiderio di uscire da Recanati, stagnante cittadina di provincia nell’arretrato Stato Pontificio, per allacciare relazioni e amicizie con letterati ed artisti. Dopo vari tentativi, nel 1827 il poeta ottenne dalla famiglia il permesso di recarsi a Roma, ospite di un zio materno. Ma questo viaggio lo deluse: l’unica commozione provata a Roma fu la visita alla tomba del grande Torquato Tasso. Tornato a Recanati più sconsolato di prima, Leopardi, convinto che i tempi non fossero adatti alla poesia di immaginazione, approfondì le sue riflessioni filosofiche sulla condizione dell’uomo. Da queste meditazioni nacquero nel 1824 le Operette morali, stupendi componimenti in prosa di varia lunghezza.
Nel 1825 si aprì finalmente per il poeta la possibilità di potersi mante­nere fuori di Recanati con i propri mezzi. Ottenne, infatti, dall’editore mila­nese Stella l’incarico di curare alcune pubblicazioni. Dopo brevi soggiorni a Milano e Bologna, il Leopardi si trasferì a Firenze, dove fu accolto con affetto da un gruppo di intellettuali (Viesseux, Capponi, Colletta.) appartenenti allo schieramento liberale moderato. A Firenze conobbe anche Manzoni, e Gioberti che ne apprezzò il genio poetico. Nel 1827 a Pisa dove si era recato per motivi di salute, Leopardi sentì rinascere in sé “gli antichi affetti” e sorse così la sua seconda stagione poetica, che annovera i Canti più belli. Ma, a parte la canzoneA Silvia scritta appunto a Pisa, gli altri componimenti dei Secondi Idilli furono scritti a Recanati, dove il poeta fu costretto a tornare alla fine del 1828, perché per ragioni di salute aveva dovuto interrompere il rapporto di lavoro con l’editore Stella, e la famiglia non era disposta a mantenerlo fuori casa. Dopo avervi trascorso “sedici mesi di orribile notte” , il poeta poté abbandonare definitivamente Recanati nella primavera del 1830, grazie alla generosità degli amici toscani che gli offrirono una somma di denaro con discreta delicatezza per non offenderne l'orgoglio. Di nuovo a Firenze, Leopardi pubblicò sotto il titolo di Canti tutte le poesie composte sino a quel momento e si legò d’amicizia con Anto­nio Ranieri, un giovane liberale napoletano in esilio per motivi politici.
Insieme all’amico nel 1833 si trasferì a Napoli, dove rimase per il resto della sua breve vita. Qui completò le poesie del “Ciclo di Aspasia”, ini­ziato a Firenze dopo l’ultima delusione d’amore. Tra le opere del periodo napoletano, ricordiamo ancora La ginestra, capolavoro di riflessione filo­sofica e di poesia ispirato dal desolato paesaggio vesuviano, e Il tramonto della luna, l’ultima poesia sua poesia.
Spossato dai mali di cui da tempo soffriva, asma e idropisia, Leopardi morì mentre nella città infuriava il colera.

La formazione culturale. La prima formazione del Leopardi si svolge secondo le linee del tradizionale ossequio agli scrittori antichi e le sue prime prove poetiche, ancora acerbe, risentono dell’influsso di certi poeti settecenteschi e del Neoclassicismo elegante ma vuoto di Vincenzo Monti.
Tra i diciotto e i diciannove anni, quando ha già scritto una nutrita serie di saggi eruditi, il Leopardi attraversa due “crisi”, due momenti di intensa riflessione, prima in campo letterario e subito dopo in campo filosofico, che imprimono una svolta radicale alla sua poesia e al suo pensiero.

Crisi letteraria. Si tratta, per usare le parole dello stesso Leopardi, del passaggio dalla “erudizione” al “bello”. Egli si accorge di conoscere poco i classici maggiori come Omero, Virgilio, Dante e di non possedere una lingua poetica autonoma. Si dà quindi a un intenso lavoro di tradu­zione da Omero, Esìodo e Virgilio, mentre legge Alfieri, Parini e Foscolo.

Crisi filosofica, o passaggio dal “bello”, al “vero”. Si verifica nel 1817, anno in cui il giovane Leopardi entra in rapporti epistolari e poi di amicizia con il piacentino Pietro Giordani (1774-1848), redattore della rivista milanese “La biblioteca italiana”, classicista illuminato e liberale perseguitato per le sue idee politiche. Il Giordani intuisce subito la grandezza del Leopardi, il quale dal canto suo agogna di abbandonare i chiusi orizzonti di Recanati per venire a contatto diretto con il mondo vivo della cultura cittadina.
In questo periodo il Leopardi viene a conoscenza dei principi fonda­mentali dell’illuminismo francese, particolarmente del pensiero di Rousseau, mentre dalle opere divulgative di M.me de Staël­ viene informato sul Romanticismo tedesco. Da queste letture e da un fervido lavoro di riflessione testimoniato nelloZibaldone, Leopardi arriva allaprima formulazione dei suoi principi di pensiero e di poetica.

Il pensiero. Alla maniera di Rousseau, il Leopardi vede la storia come un progressivo decadimento dall’originario stato di “natura”, nel quale l’uo­mo era felice, a una condizione sostanzialmente infelice, provocata dalla “civiltà”. L’uomo continua a nascere felice per opera della Natura che è come una madre benefica, ma poi la società e il sopravvento della ragio­ne sulla fantasia lo rendono infelice. Il Leopardi approda così a una visione pessimistica che, essendo fondata su una particolare visione della storia, è stata definita dagli studiosi “pessimismo storico”.
Abbandonando la fede cattolica, il Leopardi aderisce al materialismo illuministico e, come il Foscolo, è portato a vedere la realtà come un pro­cesso meccanico e immodificabile di aggregazione e disgregazione degli ele­menti. Ma dall’illuminismo egli si discosta in un punto fondamentale: il concetto di ragione. All’ottimismo degli Illuministi, basato sulla piena fiducia nei poteri positivi della Ragione, il Leopardi contrappone una conce­zione ambivalente: da una parte l’uomo sente di realizzarsi mediante la conoscenza, ma dall’altra provoca la propria infelicità perché svela a se stesso la vera realtà delle cose, cioè il dolore e il nulla che la buona madre Natura gli vorrebbe celare. Per il poeta, paradossalmente, sono felici sol­tanto coloro che vivono in quella condizione di ignoranza nella quale la Natura li ha messi al mondo: nella sua esperienza, i contadini e gli artigiani di Recanati; nelle sue supposizioni, qualche popolo beato che potrebbe vivere nelle foreste della California.
Ma il pessimismo leopardiano non è il vittimismo romantico:il poeta, infatti, non piange sulle proprie disgrazie, che anzi interpreta in una dimensione universale, come esempio cioè della condizione storica d’in­felicità dell’uomo. Per questo egli intende offrire una lezione agli uomini del suo tempo, invitandoli a guardare la realtà con coraggio (evidenti gli influssi dell’eroismo alfieriano) e senza facili fughe nelle illusioni. In cam­po politico, ad esempio, occorre tenere desto l’amor patrio ma senza vagheggiare un rinnovamento dell’Italia a breve termine, viste le condi­zioni imposte dalla Restaurazione.

La poetica. Le linee della poetica leopardiana compaiono, oltre che in numerose pagine dello Zibaldone, soprattutto in due saggi scritti dopo il sorgere del dibattito tra classicisti e romantici: “Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana” (1816), e “Discorso di un italiano intorno alle poesia romantica” (1818).
Del Romanticismo il Leopardi accoglie il principio della libertà nell’arte con l’abbandono della mitologia, delle regole e del canone dell’imi­tazione dei classici rimasto nella tradizione letteraria italiana dopo la grande stagione del Rinascimento (prima metà del sec. XVI). Del Romanticismo accetta anche la scoperta del regno dei sentimenti, ma rifiuta alcune espressioni romantiche caratteristiche, soprattutto, del Romanticismo tedesco: la confusione, cioè, tra effusione dei sentimenti e analisi razionale di essi­ (psicologismo); la ricerca non più dell’eleganza e dell’armonia, bensì dello strano, dell’esotico, dell’orrido. Al Leopardi non piace nemmeno la volontà dei romantici italiani di dare alla letteratura una fun­zione morale e civile e l’uso conseguente, da parte degli scrittori, del romanzo e del teatro come generi di più immediato contatto con il pubblico.
Per quanto riguarda la sua poetica, il Leopardi afferma che la società moderna, corrotta dalla “civiltà”e dalla ragione, non può essere ispiratrice di poesia perché questa appartiene al regno della fantasia e dell’istinto. Compito del poeta è quello di liberare la sensibilità naturale nelle sue espressioni immediate e genuine, ispirandosi alla poesia delle epoche an­tiche, come quella di Omero, quando gli uomini, vicini allo stato di natura, manifestavano i propri sentimenti in forme immaginose e fantastiche.
Alla poesia di immaginazione propria degli antichi ci si accosterà, oltre che ovviamente con il superamento dei non-valori del presente, con l’uso di un linguaggio semplice e musicale e con il senso della misura e del decoro che distingue poeti come Omero, Virgilio e il Petrarca. Quest’ultimo, in particolare, viene assunto dal Leopardi a maestro di una lingua poetica chiara, sobria ed armoniosa, in un orizzonte di scelte lessicali che spazia comunque nel vasto arco della nostra letteratura, senza esclu­dere il parlato moderno.
Ma è possibile ai moderni il recupero della poesia di immaginazione?
Nella prima fase della sua produzione poetica il Leopardi non sempre ne è sicuro, anzi si orienta perlopiù verso una poesia di “riflessione filosofi­ca” sulla condizione presente, decaduta e angosciata, dell’umanità. Trattandosi di espressione della ragione e non della fantasia, questo tipo di poesia non ha di per sé quasi nulla di immaginoso e di fantastico, mentre potrebbe definirsi come una sorta di moderna eloquenza; se non che l’ispirazione lirica pervade ugualmente, in certi momenti, anche la poesia “filosofica” leopardiana (ad esempio, le canzoni “All’Italia”, “Ad Angelo Mai”, “Ultimo canto di Saffo”).


Il primo tempo della poesia leopardiana. La prima produzione poetica matura del Leopardi va dal 1818 al 1822. E’ questo un periodo di intenso lavoro meditativo e creativo durante il quale il poeta sperimenta varie tematiche e vari generi non sempre coerenti con i principi teoretici che professa. Quando pubblicherà le sue poesie con il titolo generale di Canti (1831), egli sceglierà una serie di componimenti scritti in parte secondo o schema della canzone petrarchesca, in parte secondo le forme dell’idil­lio. Quest’ultimo tipo di componimento, di antica origine greca, nella tradizione soprattutto settecentesca consisteva in un’opera poetica di breve respiro (idillio piccola immagine) di carattere agreste. Il Leopardi ne mantiene lo spunto paesaggistico ma trasformandolo, con spirito roman­tico, in un paesaggio-stato d’animo, per cui l’idillio diventa, come egli stesso scrive, l’espressione di “situazioni, affezioni, avventure storiche del suo animo”.
La canzoni, in numero di nove, possono essere così distinte in rapporto alla loro tematica:

Canzoni patriottiche: All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai;
Canzoni civili: A un vincitore nel gioco del pallone, Nelle nozze della sorella Paolina;
Canzoni “del suicidio”: Bruto minore, Ultimo canto di Saffo
Canzoni di vagheggiamento delle età antiche: Alla primavera o delle favole antiche, Inno ai Patriarchi.

In questi componimenti il Leopardi, mentre esprime una visione pes­simistica dell’età presente, lancia un fervido invito al recupero delle età eroiche e mitiche del passato, suscitatrici ora di virtù patriottiche e civili, ora di un vagheggiamento immaginoso della semplicità e dell’immedia­tezza degli affetti proprie dei popoli antichi. I risultati poetici sono disu­guali per la commistione di poesia di immaginazione e di poesia filosofica; tuttavia in ciascun componimento si possono isolare versi molto belli e motivi che preludono al Leopardi maggiore. Le canzoni più dense di suggestione poetica sono Ad Angelo Mai e le due canzoni “del suicidio”: Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, denominate così perché riguar­dano due personaggi ritratti nel momento in cui stanno per darsi la morte.
L’espressione lirica trova, invece, un ritmo più unitario e più felice­mente risolto nei sei “Idilli” composti contemporaneamente alle Canzoni. Essi vengono chiamati ordinariamente “Piccoli Idilli” o “Primi Idilli” per di­stinguerli da una seconda serie che verrà scritta tra il 1828 e il 1830.
Essi sono: L’infinito, La sera del dì di festa , Alla luna, Il sogno, Lo spavento notturno, La vita solitaria.
Traendo spunti dalla propria esperienza , sullo sfondo di un particolare aspetto o momento del paesaggio recanatese (ad esempio, lo stormire delle fronde nell’Infinito, la calma che subentra a Recanati dopo un giorno festivo ne La sera del dì di festa), il Leopardi fa della propria esperienza dolorosa il segno della condizione umana, con un tono poetico del tutto nuovo che costituisce una svolta importante nella storia della poesia italiana. Leopardi, infatti, scopre i temi della rimenbranza e dell’indefinito, dai quali trae suggestioni e immagini poeticissime che alimentano l’illusione di accostarsi a un’arte di pura immaginazione e di pacata effusione di sentimenti. Questo effetto poetico viene ottenuto anche mediante una particolare scelta di parole che danno un impressione di indeterminatezza, di lontananza, di infinito come lontano, antico, notte, notturno, rimembranza o di parole antiche che, essendo cadute dall’uso, hanno in sé un tono vago e immaginoso come ermo (solitario), sollazzo (divertimento), ostello (abitazione).
Tra i Primi idilli risaltano per particolare bellezza poetica L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna.
           

Poesia d’immaginazione e poesia di sentimento. La prima caratteristica dell’età primitiva in cui la natura prevale sulla ragione, la seconda della nostra età, nella quale al contrario, la ragione prevale sulla natura; si sviluppa in Leopardi la convinzione che elementi essenziali della Poesia sono il senso dell’infinito e la rimenbranza, cioè il vago, l’indistinto, il remoto nel tempo e nello spazio, perché soltanto questi elementi possono salvare la poesia dal predominio della ragione.
Con Le canzoni del suicidio comincia ad entrare in crisi, nella concezione del poeta, il suo sistema della natura benigna e cioè il mito positivo della natura s’incrina. Compaiono sollecitazioni intrise di dubbio e sconcerto verso la natura. Non solo i moderni sono infelici, ma anche gli antichi conoscevano il dolore. Compaiono così nel poeta i primi segni del passaggio da quello che è stato detto “pessimismo storico” a quello definito “cosmico”, che investe non solo la storia degli uomini ma la stessa natura. Dunque nei successivi “Primi idilli” già abbiamo una prima corrosione del mito della natura. Con la formulazione del “pessimismo cosmico” la poesia scelta da Leopardi sarà la poesia sentimentale, la sola concessa ai moderni, nutrita di riflessioni e di convincimenti filosofici.

Le Operette morali.Derivano dalle riflessioni del Leopardi dopo la e grave delusione subita a Roma. Convinto che i tempi non consentono la poesia d’immaginazione, il poeta si propone di esprimere il suo pensiero e le sue immagini in una prosa satirica alla maniera dell’antico scrittore greco Luciano (Il sec. d.C.) e di alcuni moderni, come gli illuministi fran­cesi Voltaire e Diderot.
Le Operette morali sono ventiquattro, di cui diciannove scritte nel 1824 e cinque in anni successivi; molte hanno la forma del dialogo tra personaggi storici o tra personaggi fantastici.
Nelle Operette il pessimismo leopardiano subisce un’evoluzione dalla forma del “Pessimismo storico” a quella del “Pessimismo cosmico”(cosmico = universale), sulla base di una particolare i “teoria del piacere”.
Sino a questo momento il Leopardi ha visto prevalentemente la Natura come una madre benefica; ora, riflettendo sul fatto che l’istinto naturale al “piacere”, cioè alla felicità, non si realizza mai, il poeta vede nella Natura non più una madre generosa ma una crudele matrigna. Essa, infatti, illude l’uomo con molte promesse di felicità ma poi non concede nulla, perché è mossa dal proposito perverso di farlo soffrire. Qualche volta, come nel bellissimo Dialogo della Natura e di un Islandese, la Natura appare del tutto indifferente alla sorte delle sue creature, il che è ancora peggio. Gli uomini, dunque, in tutto l’universo e in qualsiasi epoca, nascono con un destino di dolore tanto più grave in quanto la loro fanciullezza e la giovinezza sono tutte pervase da illusioni di felicità.
Le Operette morali, pur se scritte in prosa, sono opere di alta poesia dove il Leopardi, con un linguaggio originalissimo fondato perlopiù su verbi e sostantivi, manifesta profonda pietà per la sorte dell’uomo che si illude in sogni di irrealizzabile felicità. Altre volte, invece della pietà, Leopardi adopera l’ironia di fronte alla stolta boria di coloro che vorrebbero mistificare la loro condizione con sogni di grandezza e d’immortalità.
Leopardi vuole insegnare agli uomini il coraggio nel prendere coscienza propria condizione e la fierezza nel porsi di fronte alle sventure dell’esistenza.

I“Grandi Idilli”.Queste convinzioni continuano a dominare nel sottofon­do dei sei “Grandio Secondi Idilli”: A Silvia, il passero solitario (già abbozzato ai tempi dei Primi idilli), Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio.
Questi componimenti si collegano ai Primi idilli per la poetica e per i temi. Il Leopardi, infatti, continua a considerare la poesia come effusione sentimentale e trae ancora spunto dagli elementi paesaggistici e umani di Recanati. Ma essi riflettono un diverso atteggiamento del pensiero, una mutata disposizione dell’animo e si risolvono in un canto poetico più maturo.
Ora il Leopardi attribuisce il male della storia e della vita non più all’uomo artefice della “civiltà” ma alla Natura matrigna Egli non crede più alla possibilità di suscitare sentimenti eroici, perché il fine della vita è il nulla quell’ abisso orrido, immenso dove l’uomo precipitando di­mentica ogni cosa. L’unica consolazione che ci rimane è di indulgere a quella disposizione nativa che ci porta acolorare di illusione il nostro presente doloroso con la rimembranza del passato, di quel passato che il tempo trascolora e depura di ogni nota negativa. In questo periodo il poeta scrive sulle pagine dello Zibaldone che  “quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranze, che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente” . E ancora: “Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche e chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente o nella poesia o nel no­stro proprio immaginare, perché ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e
credenze ci erano familiari e ordinarie”.
Ecco dunque che il poeta, a contatto con iluoghi della fanciullezza e della giovinezza, recupera, sull’onda della memoria, quei periodi che ora gli appaiono trasfigurati per la lontananza e canta una sua giovinezza ricca di sogni e di speranze, quale in realtà non era mai stata. Tanto più il passato è caro all’animo del Leopardi in quanto egli stabilisce un continuo confronto con il presente desolato, in un fluire di evocazioni e di immagini nel quale, in una sintesi perfetta, i toni incantati si alternano a quelli elegiaci nel ricordo delle due fanciulle amate, Silvia  e Nerina, a quelli fermamente lucidi che rappresentano il dolore dell’universo.
I Grandi Idilli sono un puro canto nel quale anche le riflessioni filosofiche si trasfigurano perfettamente in immagini poetiche, perdendo i toni duri che avevano talora nei Primi Idilli. L’ incanto insuperato di queste poesie leopardiane dipende anche dalle scelte metriche e linguisti­che. Il poeta adopera ora l’endecasillabo sciolto già usato nei Primi Idilli ora, abbandonando la canzone petrarchcsca, usa la canzone a strofe libera. consistente nella libera alternanza di endecasillabi e settenari. Nel linguag­gio il Leopardi porta a compimento la ricerca iniziata nelle poesie giova­nili, adoperando parole adatte a suggerire immagini vaghe, indistinte, indefinite, musicali; parole che egli desume sia dal linguaggio degli scrit­tori sia dal parlato quotidiano e familiare.

L’ultimo Leopardi. Dopo il definitivo abbandono di Recanati, soggiornan­do a Firenze il Leopardi trae occasione dal deluso amore per la nobildon­na Fanny Targioni-Tozzetti, per comporre le cinque liriche del cosiddet­to “ciclo di Aspàsia”: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspàsia.
L’amore è considerato dal poeta come un dono del cielo “terribile ma caro”, che a un tempo esalta e distrugge l’uomo. Il senso eroico della vita che percorre tutta l’opera leopardiana qui emerge in primo piano, con una rinnovata volontà del poeta di aprirsi alla comunicazione con gli uomini, per renderli consapevoli del comune destino. Alla forza di­struttiva della Natura bisogna opporre un atteggiamento solidale e virile con la rinuncia a ogni iìiuslone. Iltono poetico non e più quello dell’ idil­lio ma della meditazione consapevole, ferma, distaccata dalle pur dolci illusioni della fantasia. I risultati artistici, non sempre del tutto felici, raggiungono un vertice di scarna grandezza e di eroico, disilluso coraggio in A se stesso.
In questa prospettiva di apertura cordiale agli uomini si muove La ginestra, il più lungo canto leopardiano, scritto a Napoli. Oltre che grandiosa opera di poesia, questo componimento è la manifestazione finale del pensiero del poeta. Prendendo spunto dalla ginestra, l’unica pianta che riesca a sopravvivere sulle aride pendici del Vesuvio “sterminatore”, il Leopardi esorta gli uomini alla solidarietà universale per difendersi, per quanto possibile, dai colpi che la Natura può infliggere con i suoi tremendi poteri. Recuperando il valore della ragione, egli invita i contemporanei ad abbandonare l’illusorio e facile ottimismo nel progresso, per prendere coraggiosa coscienza della vera condizione dell’uomo.
Suiggestivo l’ultimo componimento del Leopardi: Il tramonto della luna.







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