GIACOMO LEOPARDI
PERCORSO LETTERARIO E
VITA
La vita. Giacomo Leopardi
(Recanati, Macerata, 1798 - Napoli, 1837). Nacque dal conte Monaldo e dalla
marchesa Adelaide Antici. Nonostante il sostanziale distacco dai genitori - il
padre spendeva il suo tempo in opere di inutile erudizione; la madre, arcigna e
bigotta, era occupata a curare puntigliosamente il patrimonio familiare -
Leopardi trascorse l’infanzia serenamente. Ma, dopo essere stato istruito da
due sacerdoti sino all’età di undici anni, egli si rinchiuse nella biblioteca
del padre per sette anni di “studio matto e disperatissimo”. Si dette allo
studio delle lingue antiche e di alcune lingue moderne e si formò un bagaglio
sbalorditivo di erudizione. Scrisse saggi eruditi e fece le prime prove
poetiche, ma senza esserne soddisfatto. Verso la fine di questo periodo di
studi, suggestionato dalle teorie dei maggiori filosofi illuministi e dal
Romanticismo, Leopardi che aveva abbandonato la fede cattolica e si andava
progressivamente liberando degli elementi più sorpassati della tradizione
letteraria, cominciò a scrivere le sue prime poesie significative. Sono di
quest’epoca componimenti a sfondo filosofico sulla condizione dell’uomo; canti
di tono civile e patriottico; e i Primi idilli poesie nelle
quali il punto di partenza è sempre un quadro paesistico. Intanto il poeta, che
nei molti anni trascorsi nel chiuso della biblioteca si era provocato una
gravissima distorsione della colonna vertebrale con la conseguenza tristissima
di una gobba anteriore e un’altra posteriore, era tormentato dal desiderio di
uscire da Recanati, stagnante cittadina di provincia nell’arretrato Stato
Pontificio, per allacciare relazioni e amicizie con letterati ed artisti. Dopo
vari tentativi, nel 1827 il poeta ottenne dalla famiglia il permesso di recarsi
a Roma, ospite di un zio materno. Ma questo viaggio lo deluse: l’unica
commozione provata a Roma fu la visita alla tomba del grande Torquato Tasso.
Tornato a Recanati più sconsolato di prima, Leopardi, convinto che i tempi non
fossero adatti alla poesia di immaginazione, approfondì le sue riflessioni
filosofiche sulla condizione dell’uomo. Da queste meditazioni nacquero nel 1824
le Operette morali, stupendi componimenti in prosa di varia lunghezza.
Nel 1825 si aprì finalmente
per il poeta la possibilità di potersi mantenere fuori di Recanati con i
propri mezzi. Ottenne, infatti, dall’editore milanese Stella l’incarico di
curare alcune pubblicazioni. Dopo brevi soggiorni a Milano e Bologna, il Leopardi
si trasferì a Firenze, dove fu accolto con affetto da un gruppo di
intellettuali (Viesseux, Capponi, Colletta.) appartenenti allo schieramento
liberale moderato. A Firenze conobbe anche Manzoni, e Gioberti che ne apprezzò
il genio poetico. Nel 1827 a Pisa dove si era recato per motivi di salute,
Leopardi sentì rinascere in sé “gli antichi affetti” e sorse così la sua
seconda stagione poetica, che annovera i Canti più belli. Ma, a parte
la canzoneA Silvia scritta appunto a Pisa, gli altri componimenti dei Secondi
Idilli furono scritti a Recanati, dove il poeta fu costretto a tornare
alla fine del 1828, perché per ragioni di salute aveva dovuto interrompere il
rapporto di lavoro con l’editore Stella, e la famiglia non era disposta a
mantenerlo fuori casa. Dopo avervi trascorso “sedici mesi di orribile notte” ,
il poeta poté abbandonare definitivamente Recanati nella primavera del 1830,
grazie alla generosità degli amici toscani che gli offrirono una somma di
denaro con discreta delicatezza per non offenderne l'orgoglio. Di nuovo a
Firenze, Leopardi pubblicò sotto il titolo di Canti tutte le poesie composte
sino a quel momento e si legò d’amicizia con Antonio Ranieri, un giovane
liberale napoletano in esilio per motivi politici.
Insieme all’amico nel 1833 si
trasferì a Napoli, dove rimase per il resto della sua breve vita. Qui completò
le poesie del “Ciclo di Aspasia”, iniziato a Firenze dopo l’ultima delusione
d’amore. Tra le opere del periodo napoletano, ricordiamo ancora La
ginestra, capolavoro di riflessione filosofica e di poesia ispirato dal
desolato paesaggio vesuviano, e Il tramonto della luna, l’ultima poesia
sua poesia.
Spossato dai mali di cui da
tempo soffriva, asma e idropisia, Leopardi morì mentre nella città infuriava il
colera.
La formazione culturale. La
prima formazione del Leopardi si svolge secondo le linee del tradizionale
ossequio agli scrittori antichi e le sue prime prove poetiche, ancora acerbe,
risentono dell’influsso di certi poeti settecenteschi e del Neoclassicismo
elegante ma vuoto di Vincenzo Monti.
Tra i diciotto e i diciannove
anni, quando ha già scritto una nutrita serie di saggi eruditi, il Leopardi
attraversa due “crisi”, due momenti di intensa riflessione, prima in campo
letterario e subito dopo in campo filosofico, che imprimono una svolta radicale
alla sua poesia e al suo pensiero.
Crisi letteraria. Si tratta,
per usare le parole dello stesso Leopardi, del passaggio dalla “erudizione” al
“bello”. Egli si accorge di conoscere poco i classici maggiori come Omero,
Virgilio, Dante e di non possedere una lingua poetica autonoma. Si dà quindi a
un intenso lavoro di traduzione da Omero, Esìodo e Virgilio, mentre legge
Alfieri, Parini e Foscolo.
Crisi filosofica, o passaggio
dal “bello”, al “vero”. Si verifica nel 1817, anno in cui il giovane Leopardi
entra in rapporti epistolari e poi di amicizia con il piacentino Pietro
Giordani (1774-1848), redattore della rivista milanese “La biblioteca
italiana”, classicista illuminato e liberale perseguitato per le sue idee
politiche. Il Giordani intuisce subito la grandezza del Leopardi, il quale dal
canto suo agogna di abbandonare i chiusi orizzonti di Recanati per venire a
contatto diretto con il mondo vivo della cultura cittadina.
In questo periodo il Leopardi
viene a conoscenza dei principi fondamentali dell’illuminismo francese,
particolarmente del pensiero di Rousseau, mentre dalle opere divulgative di
M.me de Staël viene informato sul Romanticismo tedesco. Da queste letture e da
un fervido lavoro di riflessione testimoniato nelloZibaldone, Leopardi arriva
allaprima formulazione dei suoi principi di pensiero e di poetica.
Il pensiero. Alla maniera di
Rousseau, il Leopardi vede la storia come un progressivo decadimento
dall’originario stato di “natura”, nel quale l’uomo era felice, a una
condizione sostanzialmente infelice, provocata dalla “civiltà”. L’uomo continua
a nascere felice per opera della Natura che è come una madre benefica, ma poi
la società e il sopravvento della ragione sulla fantasia lo rendono infelice.
Il Leopardi approda così a una visione pessimistica che, essendo fondata su una
particolare visione della storia, è stata definita dagli studiosi “pessimismo
storico”.
Abbandonando la fede
cattolica, il Leopardi aderisce al materialismo illuministico e, come il
Foscolo, è portato a vedere la realtà come un processo meccanico e
immodificabile di aggregazione e disgregazione degli elementi. Ma
dall’illuminismo egli si discosta in un punto fondamentale: il concetto di
ragione. All’ottimismo degli Illuministi, basato sulla piena fiducia nei poteri
positivi della Ragione, il Leopardi contrappone una concezione ambivalente: da
una parte l’uomo sente di realizzarsi mediante la conoscenza, ma dall’altra
provoca la propria infelicità perché svela a se stesso la vera realtà
delle cose, cioè il dolore e il nulla che la buona madre Natura gli vorrebbe
celare. Per il poeta, paradossalmente, sono felici soltanto coloro che vivono
in quella condizione di ignoranza nella quale la Natura li ha messi al mondo:
nella sua esperienza, i contadini e gli artigiani di Recanati; nelle sue
supposizioni, qualche popolo beato che potrebbe vivere nelle foreste della
California.
Ma il pessimismo leopardiano
non è il vittimismo romantico:il poeta, infatti, non piange sulle proprie
disgrazie, che anzi interpreta in una dimensione universale, come esempio cioè
della condizione storica d’infelicità dell’uomo. Per questo egli intende
offrire una lezione agli uomini del suo tempo, invitandoli a guardare la realtà
con coraggio (evidenti gli influssi dell’eroismo alfieriano) e senza facili
fughe nelle illusioni. In campo politico, ad esempio, occorre tenere desto
l’amor patrio ma senza vagheggiare un rinnovamento dell’Italia a breve termine,
viste le condizioni imposte dalla Restaurazione.
La poetica. Le linee della
poetica leopardiana compaiono, oltre che in numerose pagine dello Zibaldone,
soprattutto in due saggi scritti dopo il sorgere del dibattito tra classicisti
e romantici: “Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana” (1816), e “Discorso
di un italiano intorno alle poesia romantica” (1818).
Del Romanticismo il Leopardi
accoglie il principio della libertà nell’arte con l’abbandono della mitologia,
delle regole e del canone dell’imitazione dei classici rimasto nella
tradizione letteraria italiana dopo la grande stagione del Rinascimento (prima
metà del sec. XVI). Del Romanticismo accetta anche la scoperta del regno dei
sentimenti, ma rifiuta alcune espressioni romantiche caratteristiche,
soprattutto, del Romanticismo tedesco: la confusione, cioè, tra effusione dei
sentimenti e analisi razionale di essi (psicologismo); la ricerca non più
dell’eleganza e dell’armonia, bensì dello strano, dell’esotico, dell’orrido. Al
Leopardi non piace nemmeno la volontà dei romantici italiani di dare alla
letteratura una funzione morale e civile e l’uso conseguente, da parte degli
scrittori, del romanzo e del teatro come generi di più immediato contatto con
il pubblico.
Per quanto riguarda la sua
poetica, il Leopardi afferma che la società moderna, corrotta dalla “civiltà”e
dalla ragione, non può essere ispiratrice di poesia perché questa appartiene al
regno della fantasia e dell’istinto. Compito del poeta è quello di liberare la
sensibilità naturale nelle sue espressioni immediate e genuine, ispirandosi
alla poesia delle epoche antiche, come quella di Omero, quando gli uomini,
vicini allo stato di natura, manifestavano i propri sentimenti in forme
immaginose e fantastiche.
Alla poesia di immaginazione
propria degli antichi ci si accosterà, oltre che ovviamente con il superamento
dei non-valori del presente, con l’uso di un linguaggio semplice e musicale e
con il senso della misura e del decoro che distingue poeti come Omero, Virgilio
e il Petrarca. Quest’ultimo, in particolare, viene assunto dal Leopardi a
maestro di una lingua poetica chiara, sobria ed armoniosa, in un orizzonte di
scelte lessicali che spazia comunque nel vasto arco della nostra letteratura,
senza escludere il parlato moderno.
Ma è possibile ai moderni il
recupero della poesia di immaginazione?
Nella prima fase della sua
produzione poetica il Leopardi non sempre ne è sicuro, anzi si orienta perlopiù
verso una poesia di “riflessione filosofica” sulla condizione presente,
decaduta e angosciata, dell’umanità. Trattandosi di espressione della ragione e
non della fantasia, questo tipo di poesia non ha di per sé quasi nulla di
immaginoso e di fantastico, mentre potrebbe definirsi come una sorta di moderna
eloquenza; se non che l’ispirazione lirica pervade ugualmente, in certi
momenti, anche la poesia “filosofica” leopardiana (ad esempio, le canzoni “All’Italia”,
“Ad Angelo Mai”, “Ultimo canto di Saffo”).
Il primo tempo della
poesia leopardiana. La prima produzione poetica matura del Leopardi va dal 1818
al 1822. E’ questo un periodo di intenso lavoro meditativo e creativo durante
il quale il poeta sperimenta varie tematiche e vari generi non sempre coerenti
con i principi teoretici che professa. Quando pubblicherà le sue poesie con il
titolo generale di Canti (1831), egli sceglierà una serie di
componimenti scritti in parte secondo o schema della canzone petrarchesca, in
parte secondo le forme dell’idillio. Quest’ultimo tipo di componimento, di
antica origine greca, nella tradizione soprattutto settecentesca consisteva in
un’opera poetica di breve respiro (idillio piccola immagine) di carattere
agreste. Il Leopardi ne mantiene lo spunto paesaggistico ma trasformandolo, con
spirito romantico, in un paesaggio-stato d’animo, per cui l’idillio diventa,
come egli stesso scrive, l’espressione di “situazioni, affezioni,
avventure storiche del suo animo”.
La canzoni, in numero di nove,
possono essere così distinte in rapporto alla loro tematica:
Canzoni patriottiche: All’Italia,
Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai;
Canzoni civili: A un
vincitore nel gioco del pallone, Nelle nozze della sorella Paolina;
Canzoni “del suicidio”: Bruto
minore, Ultimo canto di Saffo
Canzoni di vagheggiamento
delle età antiche: Alla primavera o delle favole antiche, Inno ai
Patriarchi.
In questi componimenti il
Leopardi, mentre esprime una visione pessimistica dell’età presente, lancia un
fervido invito al recupero delle età eroiche e mitiche del passato,
suscitatrici ora di virtù patriottiche e civili, ora di un vagheggiamento
immaginoso della semplicità e dell’immediatezza degli affetti proprie dei
popoli antichi. I risultati poetici sono disuguali per la commistione di
poesia di immaginazione e di poesia filosofica; tuttavia in ciascun
componimento si possono isolare versi molto belli e motivi che preludono al
Leopardi maggiore. Le canzoni più dense di suggestione poetica sono Ad
Angelo Mai e le due canzoni “del suicidio”: Bruto minore e Ultimo
canto di Saffo, denominate così perché riguardano due personaggi ritratti nel
momento in cui stanno per darsi la morte.
L’espressione lirica trova,
invece, un ritmo più unitario e più felicemente risolto nei sei “Idilli”
composti contemporaneamente alle Canzoni. Essi vengono
chiamati ordinariamente “Piccoli Idilli” o “Primi Idilli” per distinguerli
da una seconda serie che verrà scritta tra il 1828 e il 1830.
Essi sono: L’infinito, La
sera del dì di festa , Alla luna, Il sogno, Lo spavento notturno, La vita
solitaria.
Traendo spunti dalla propria
esperienza , sullo sfondo di un particolare aspetto o momento del paesaggio
recanatese (ad esempio, lo stormire delle fronde nell’Infinito, la calma che
subentra a Recanati dopo un giorno festivo ne La sera del dì di festa), il
Leopardi fa della propria esperienza dolorosa il segno della condizione umana,
con un tono poetico del tutto nuovo che costituisce una svolta
importante nella storia della poesia italiana. Leopardi, infatti, scopre i
temi della rimenbranza e dell’indefinito, dai quali trae
suggestioni e immagini poeticissime che alimentano l’illusione di accostarsi a
un’arte di pura immaginazione e di pacata effusione di sentimenti. Questo
effetto poetico viene ottenuto anche mediante una particolare scelta di parole
che danno un impressione di indeterminatezza, di lontananza, di infinito come
lontano, antico, notte, notturno, rimembranza o di parole antiche che, essendo
cadute dall’uso, hanno in sé un tono vago e immaginoso come ermo (solitario),
sollazzo (divertimento), ostello (abitazione).
Tra i Primi idilli risaltano
per particolare bellezza poetica L’infinito, La sera del dì di festa, Alla
luna.
Poesia d’immaginazione e
poesia di sentimento. La prima caratteristica dell’età primitiva in cui la
natura prevale sulla ragione, la seconda della nostra età, nella quale al
contrario, la ragione prevale sulla natura; si sviluppa in Leopardi la
convinzione che elementi essenziali della Poesia sono il senso dell’infinito e
la rimenbranza, cioè il vago, l’indistinto, il remoto nel tempo e nello spazio,
perché soltanto questi elementi possono salvare la poesia dal predominio della
ragione.
Con Le canzoni del suicidio
comincia ad entrare in crisi, nella concezione del poeta, il suo sistema della
natura benigna e cioè il mito positivo della natura s’incrina. Compaiono
sollecitazioni intrise di dubbio e sconcerto verso la natura. Non solo i
moderni sono infelici, ma anche gli antichi conoscevano il dolore. Compaiono
così nel poeta i primi segni del passaggio da quello che è stato detto
“pessimismo storico” a quello definito “cosmico”, che investe non solo la
storia degli uomini ma la stessa natura. Dunque nei successivi “Primi idilli”
già abbiamo una prima corrosione del mito della natura. Con la formulazione del
“pessimismo cosmico” la poesia scelta da Leopardi sarà la poesia sentimentale,
la sola concessa ai moderni, nutrita di riflessioni e di convincimenti
filosofici.
Le Operette morali.Derivano
dalle riflessioni del Leopardi dopo la e grave delusione subita a Roma.
Convinto che i tempi non consentono la poesia d’immaginazione, il poeta si
propone di esprimere il suo pensiero e le sue immagini in una prosa satirica
alla maniera dell’antico scrittore greco Luciano (Il sec. d.C.) e di alcuni
moderni, come gli illuministi francesi Voltaire e Diderot.
Le Operette morali sono
ventiquattro, di cui diciannove scritte nel 1824 e cinque in anni successivi;
molte hanno la forma del dialogo tra personaggi storici o tra personaggi
fantastici.
Nelle Operette il pessimismo
leopardiano subisce un’evoluzione dalla forma del “Pessimismo storico” a quella
del “Pessimismo cosmico”(cosmico = universale), sulla base di una particolare i
“teoria del piacere”.
Sino a questo momento il
Leopardi ha visto prevalentemente la Natura come una madre benefica; ora,
riflettendo sul fatto che l’istinto naturale al “piacere”, cioè alla felicità,
non si realizza mai, il poeta vede nella Natura non più una madre generosa ma
una crudele matrigna. Essa, infatti, illude l’uomo con molte promesse di
felicità ma poi non concede nulla, perché è mossa dal proposito perverso di
farlo soffrire. Qualche volta, come nel bellissimo Dialogo della Natura e
di un Islandese, la Natura appare del tutto indifferente alla sorte delle sue
creature, il che è ancora peggio. Gli uomini, dunque, in tutto l’universo e in
qualsiasi epoca, nascono con un destino di dolore tanto più grave in quanto la
loro fanciullezza e la giovinezza sono tutte pervase da illusioni di felicità.
Le Operette morali, pur
se scritte in prosa, sono opere di alta poesia dove il Leopardi, con un
linguaggio originalissimo fondato perlopiù su verbi e sostantivi, manifesta
profonda pietà per la sorte dell’uomo che si illude in sogni di irrealizzabile
felicità. Altre volte, invece della pietà, Leopardi adopera l’ironia di fronte
alla stolta boria di coloro che vorrebbero mistificare la loro condizione con
sogni di grandezza e d’immortalità.
Leopardi vuole insegnare agli
uomini il coraggio nel prendere coscienza propria condizione e la fierezza nel
porsi di fronte alle sventure dell’esistenza.
I“Grandi Idilli”.Queste
convinzioni continuano a dominare nel sottofondo dei sei “Grandio Secondi
Idilli”: A Silvia, il passero solitario (già abbozzato ai tempi dei
Primi idilli), Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio.
Questi componimenti si
collegano ai Primi idilli per la poetica e per i temi. Il Leopardi, infatti,
continua a considerare la poesia come effusione sentimentale e trae ancora
spunto dagli elementi paesaggistici e umani di Recanati. Ma essi riflettono un
diverso atteggiamento del pensiero, una mutata disposizione dell’animo e si
risolvono in un canto poetico più maturo.
Ora il Leopardi attribuisce il
male della storia e della vita non più all’uomo artefice della
“civiltà” ma alla Natura matrigna Egli non crede più alla possibilità di
suscitare sentimenti eroici, perché il fine della vita è il nulla quell’ abisso
orrido, immenso dove l’uomo precipitando dimentica ogni cosa. L’unica
consolazione che ci rimane è di indulgere a quella disposizione nativa che ci
porta acolorare di illusione il nostro presente doloroso con la
rimembranza del passato, di quel passato che il tempo trascolora e depura
di ogni nota negativa. In questo periodo il poeta scrive sulle pagine dello Zibaldone che
“quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in
rimembranze, che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente” . E
ancora: “Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche e
chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente o nella poesia o nel nostro
proprio immaginare, perché ci richiamano le rimembranze più remote, quelle
della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e
credenze ci erano familiari e
ordinarie”.
Ecco dunque che il
poeta, a contatto con iluoghi della fanciullezza e della giovinezza, recupera,
sull’onda della memoria, quei periodi che ora gli appaiono trasfigurati per la
lontananza e canta una sua giovinezza ricca di sogni e di speranze, quale in
realtà non era mai stata. Tanto più il passato è caro all’animo del Leopardi in
quanto egli stabilisce un continuo confronto con il presente desolato, in un
fluire di evocazioni e di immagini nel quale, in una sintesi perfetta, i toni
incantati si alternano a quelli elegiaci nel ricordo delle due fanciulle amate,
Silvia e Nerina, a quelli fermamente lucidi che rappresentano il dolore
dell’universo.
I Grandi Idilli sono un puro
canto nel quale anche le riflessioni filosofiche si trasfigurano perfettamente
in immagini poetiche, perdendo i toni duri che avevano talora nei Primi Idilli.
L’ incanto insuperato di queste poesie leopardiane dipende anche dalle scelte
metriche e linguistiche. Il poeta adopera ora l’endecasillabo sciolto già
usato nei Primi Idilli ora, abbandonando la canzone petrarchcsca, usa la
canzone a strofe libera. consistente nella libera alternanza di endecasillabi e
settenari. Nel linguaggio il Leopardi porta a compimento la ricerca iniziata
nelle poesie giovanili, adoperando parole adatte a suggerire immagini vaghe,
indistinte, indefinite, musicali; parole che egli desume sia dal linguaggio
degli scrittori sia dal parlato quotidiano e familiare.
L’ultimo Leopardi. Dopo il
definitivo abbandono di Recanati, soggiornando a Firenze il Leopardi trae
occasione dal deluso amore per la nobildonna Fanny Targioni-Tozzetti, per
comporre le cinque liriche del cosiddetto “ciclo di Aspàsia”: Il pensiero
dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspàsia.
L’amore è considerato dal
poeta come un dono del cielo “terribile ma caro”, che a un tempo esalta e
distrugge l’uomo. Il senso eroico della vita che percorre tutta l’opera
leopardiana qui emerge in primo piano, con una rinnovata volontà del poeta di
aprirsi alla comunicazione con gli uomini, per renderli consapevoli del comune
destino. Alla forza distruttiva della Natura bisogna opporre un atteggiamento
solidale e virile con la rinuncia a ogni iìiuslone. Iltono poetico non e più
quello dell’ idillio ma della meditazione consapevole, ferma, distaccata dalle
pur dolci illusioni della fantasia. I risultati artistici, non sempre del tutto
felici, raggiungono un vertice di scarna grandezza e di eroico, disilluso
coraggio in A se stesso.
In questa prospettiva di
apertura cordiale agli uomini si muove La ginestra, il più lungo canto
leopardiano, scritto a Napoli. Oltre che grandiosa opera di poesia, questo
componimento è la manifestazione finale del pensiero del poeta. Prendendo
spunto dalla ginestra, l’unica pianta che riesca a sopravvivere sulle aride
pendici del Vesuvio “sterminatore”, il Leopardi esorta gli uomini alla
solidarietà universale per difendersi, per quanto possibile, dai colpi che la
Natura può infliggere con i suoi tremendi poteri. Recuperando il valore della
ragione, egli invita i contemporanei ad abbandonare l’illusorio e facile
ottimismo nel progresso, per prendere coraggiosa coscienza della vera
condizione dell’uomo.
Suiggestivo l’ultimo componimento
del Leopardi: Il tramonto della luna.
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