giovedì 26 novembre 2015

Giovanni Verga: L'Amante di Gramigna. Con lettera a Salvatore Farina. Cura Claudio Di Scalzo






Giovanni Verga

L’AMANTE DI GRAMIGNA

a Salvatore Farina

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi — interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contraddittori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, — e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.




Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certoGramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i proprietarii non s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po’ troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo,Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all’intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.
Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu «candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.
La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le dieci dita delle mani: dell’oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. «Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramignanon vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse:
— La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi —.
Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, «Candela di sego» era rimasto a bocca aperta.
Che è, che non è, Peppa s’era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì, ch’era un uomo! — Che ne sai? — Dove l’hai visto? — Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. — Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! —
Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.
Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch’essa, come lui.
Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi.
Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia.
Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.
— Ha fatto due ore di fuoco! — dicevano; — c’è un carabiniere morto, e più di trecompagni d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato —.
Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.
Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia — non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli — lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata.
Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell’alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.
— Che vuoi? — le chiese. — Che vieni a far qui?
Ella non rispose, guardandolo fisso.
— Vattene! — diss’egli, — vattene, finché t’aiuta Cristo!
— Adesso non posso più tornare a casa, — rispose lei; — la strada è tutta piena di soldati.
— Cosa m’importa? Vattene! —
E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso:
— Dunque? ... Sei pazza? ... O sei qualche spia?
— No, — diss’ella, — no!
— Bene, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è così —.
Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé:
— Queste erano per me —.
Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich’ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:
— Vuoi venire con me?
— Sì, — accennò ella col capo avidamente, — sì —.
E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d’acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.
Una notte c’era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramignabalzò in piedi a un tratto, e le disse:
— Tu resta qui, o t’ammazzo com’è vero Dio! —
Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.
— Ferma! ferma! —
E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.
—  È finita! — disse lui. — Ora mi prendono —; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo.
Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono addosso tutti in una volta.
Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell’oro quanto Santa Margherita!
La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.
Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch’era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.
Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l’avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov’era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano «lo strofinacciolo della caserma». Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.






martedì 24 novembre 2015

Gustave Courbet. Funerali a Ornans. Sintesi divulgativa. A cura di Claudio Di Scalzo





Gustave Courbet (1819 - 1877)
Sintesi Divulgativa 
a cura di Claudio Di Scalzo

Fu Ornans, la piccola cittadina dello Jura, ai confini tra Francia e Svizzera, a dare i natali a Gustave Courbet, uno dei grandi innovatori, forse il più audace, della pittura ottocentesca. Siamo nel 1819, precisamente il 10 giugno. Gustave è primogenito di Eleonor Regis, un agiato proprietario terriero che nel 1831 lo iscrive al Seminario di Ornans per poi inviarlo sei anni dopo al Collegio Reale di Besançon. Fin dai primi anni il giovane Gustave, si mette in evidenza, oltre che per il carattere particolarmente indisciplinato, per l'attitudine al disegno. Ebbe grande importanza per la sua formazione l'amicizia con Max Bouchon, cornpagno di collegio, che lo portò verso il socialismo in politica e il realismo nell'arte. Nel 1840 si stabilisce a Parigi dove abbandona gli studi di diritto per dedicarsi interamente alla pittura: frequenta gli atelier di vari artisti, ma soprattutto analizza e copia i capolavori del Louvre. Sono ancora in auge in quegli anni i canoni della pittura romantica e Courbet vi si adegua: specialmente nei numerosi autoritratti, nei quali il pittore trasfigura per l'appunto romanticamente la propria immagine: (Le Desespéré, L'hom-me blessé, Le Violoncelliste). Vale la pena comunque di ricordare che l'autoritratto fu un'esigenza che accompagnò tutta la vicenda artistica del pittore francese (con un’assiduita pari al solo Rembrandt), testimoniando la forte componente narcisistica del suo carattere. 




Nel '44 Courbet espone per la prima volta una propria tela al Salon parigino, che costituiva il tempio della cultura artistica ufficiale.

Ci avviciniamo così agli anni caldi del '48 che furono determinati per l'evoluzione del suo pensiero e della sua arte: cade il trono di Luigi Filippo e sale al potere la II Repubblica.

Courbet frequenta la Brasserie Andler, tempio della cultura non ufficiale, dove entra in amicizia con Baudelaire, Corot, Daumier e altre interessanti personalità: proprio da questi incontri nascono le idee base del Realismo di cui l'artista si fa agguerrito paladino. Nel ‘49 inizia la gigantesca tela Un funerale a Ornans, (Parigi, Museo d’Orsay), vero e proprio manifesto della pittura realista. I contadini e i borghesi di Ornans, tutti i volti noti all'artista, sfilano sulla tela con la loro umile ma autentica dignità. "È il Romanticismo che viene sepolto" disse lo stesso Courbet riferendosi al quadro. In effetti d'ora in poi la sua pittura sarà rivolta unicamente al reale: nei ritratti, nei seducenti nudi femminili come nei meravigliosi paesaggi, non si tratta più di rievocare visioni fantasistiche o simboliche, quanto piuttosto di portare sulla tela, per farla rivivere in intensità e pienezza, la realtà. Soltanto la realtà che l'occhio vede, e niente di più. 





Furono in molti a non capirlo e a criticarlo violentemente, in particolare nell'ambiente del Salone parigino, che non poteva sopportare di vedere il popolo, la gente di paese, quella realtà che a Courbet, anche in quanto socialista, stava più a cuore, elevata a soggetto di un’opera d'arte. La polemica toccò il culmine durante l'Esposizione Universale del '55, quando la giuria si rifiutò di esporre il Funerale a Ornans e L'atelier del pittore, (Parigi, Museo d’Orsay), che Courbet aveva appena completato. Nel primo dipinto, la più grande tela dipinta dall'artista (3,61 X 5,98 cm), il pittore si era ritratto in atto di dipingere un paesaggio, circondato dagli amici che frequentavano abitualmente il suo studio (“la storia morale e fisica del mio atelier” come egli stesso definì l'opera). Il rifiuto convinse Courbet ad allestire, in polemica coll'Esposizione, il Padiglione del Realismo, dove presentò 40 suoi quadri e 4 disegni. Proseguendo con ostinazione e coraggio la strada intrapresa, nel ‘57 espose al Salone Ragazze sulle rive della Senna (Parigi, Petit Palais), dove ritrasse, cogliendo il dramma della loro stanca umanità, due donne di facili costumi sdraiate sulla riva del fiume. Il quadro non fece che gettare olio sul fuoco delle critiche; ma a coloro che lo rimproveravano non solo per la "volgarità" del soggetto ma anche per la mancanza di carica ideale dell'opera, il pittore rispondeva enunciando i principi della sua estetica: “Considero un uomo come considero un cavallo, un albero, un oggetto qualsiasi della natura”.





Nel 1867 Courbet inviò all'Esposizione Universale quattro quadri ma, come dodici anni prima, allestì contemporaneamente una mostra personale. La sua produzione in questi ultimi anni verte soprattutto sui ritratti e sui paesaggi, tra cui spiccano le marine e le scogliere dipinte a Etrétat nell'estate del ‘69. L'anno seguente, dopo aver clamorosamente rifiutato, insieme a Daumier, il conferimento della Legion d'onore, Courbet si trova coinvolto nei drammatici avvenimenti che si abbattono sulla Francia: il 31 agosto Napoleone III è sbaragliato dai Prussiani a Sedan e il 18 settembre inizia l'assedio di Parigi. L'artista entra a far parte della Comune ed è eletto presidente della commissione per la protezione delle opere d'arte. Dopo la caduta della Comune e le sanguinose repressioni, viene giudicato ingiustamente responsabile dell'abbattimento della Colonna Vendôme, viene condannato a sei mesi di reclusione, durante la quale continua a dipingere, eseguendo il celebre Autoritratto a Sainte-Pélagie (il carcere parigino). 





Perseguitato dalla giustizia anche dopo la scarcerazione, (è condannato a ricostruire la colonna a sue spese), l’artista fugge e si rifugia in Svizzera a La Tour-de-Peilz, nei pressi di Vevey. Qui dipinge ancora numerosi paesaggi, tra cui le meravigliose visioni del Castello di Chillon. Da lungo tempo malato, Gustave Courbet muore il 31 dicembre 1877, lasciando in eredità ai pittori che lo seguiranno, tra cui gli espressionisti, un sentimento della realtà e della natura di profondità e verità straordinarie.



lunedì 23 novembre 2015

Jean-Baptiste Camille Corot. Sintesi bio-percorso artistico a cura di Claudio Di Scalzo





Jean-Baptiste Camille Corot
(1796 - 1875)
A cura di CDS

Jean-Baptiste Camille Corot nasce a Parigi da un agiato mercante di stoffe e da una modista svizzera, Corot frequenta dapprima il liceo classico di Rouen, ma al termine degli studi (1814) è costretto a intraprendere il mestiere del padre: tuttavia la sua precisa vocazione artistica lo spinge verso la realizzazione di ben altri obiettivi. È solo nel 1822, all'età di 26 anni, che riesce a sottrarsi ai programmi della famiglia e ad iniziare la propria carriera artistica. Anche se in contatto con gli artisti come Michaillon, Bertin, Alligny, che si erano dedicati alla pittura di paesaggio e appartenevano alla tradizione figurativa neoclassica, Corot ha tuttavia una formazione fondamentalmente da autodidatta.





Importantissimi in questo senso appaiono i viaggi in Italia: il primo di questi, iniziato nel settembre 1825 e protrattosi per tre anni, porta Corot a Roma, Napoli, Venezia. Memore di Constable, che in quegli anni esorta i giovani “a seguire la propria natura”, Corot affronta la pittura di paesaggio con un taglio estremamente personale, spontaneo, spregiudicato: in Italia dipinge opere come Il Colosseo visto dai giardini Farnese, Il Tevere a Castel S. Angelo, Italiana di profilo con un’anfora in testa, tutte esposte al Louvre, che rivelano nell'immediatezza della pittura, nella genuinità di riproduzione dei soggetti, nel tocco delicato o nella luminosa stesura del colore, una ricerca pittorica intesa a rappresentare paesaggio e natura in assenza di regole o di modelli precostituiti. Corot Per la “squisitezza della sensibilità, per il giusto sentimento dei valori, per la poesia dell' atmosfera e per la freschezza della tavolozza, precede e prepara Sisley” (Focillon). In effetti, fin dalle prime opere, Corot dimostra una profonda capacità di rinnovamento della pittura di paesaggio anticipatrice delle modalità espressive degli impressionisti e della pittura en plein air che ad essi prelude.






Dall'Italia invia un quadro Il ponte di Narni, (Parigi, Louvre), che gli permetterà di partecipare per la prima volta all'esposizione del Salon nel 1827; ma ritornato in Francia riprende a dipingere vasti panorami dall'impianto neoclassico, con temi ripresi da scene di sapore biblico o mitologico, ricchi di pastori e di ninfe, di canti e di danze, secondo i dettami del gusto in voga. 





Ritorna una seconda volta in Italia nel 1834, alla ricerca dello “splendore del sole” mediterraneo e di quella luminosità dell'atmosfera, di fronte alla quale Corot dichiara: “Sento l'impotenza della mia tavolozza”. Visita così Genova, Firenze, Venezia, soggiorna sui laghi lombardi, si reca poi in Provenza e nel Languedoc: il viaggio gli permette di dipingere opere come Firenze vista dal Giardino di Boboli (1834, Parigi, Louvre). Ma anche se il suo stile si fa col tempo più sicuro, più attento “il disegno è la prima cosa da cercare, poi i valori; ecco i punti di appoggio: quindi il colore ed infine l'esecuzione” secondo quanto dichiara lo stesso Corot, che continua ad inviare alle esposizioni dei Salon opere più tradizionali, più affini al gusto del pubblico; opere che pur nella coerenza pittorica di un paesaggio riprodotto con toni sobri e delicati, ricchi di grigi, di bruni, di sfumature perlacee, purtuttavia mancano di quella volontà di rinnovamento presente nei piccoli quadri di panorami francesi e italiani. Ai Salon invia cosi Agar nel deserto (1833); Diana sorpresa da Atteone (1836); Omero e i pastori (1845), mentre conserva per sé, senza farle conoscere al pubblico, le tavolette intimiste con i panorami, i paesaggi, le vedute, dipinte durante i suoi viaggi. Si reca in Italia per l'ultima volta nel 1843: qui dipinge Tivoli: i giardini di villa d'Este (1843, Parigi, Louvre), Manetta, l'odalisca romana (1843, Parigi, Museo delle Belle Arti).
  
Tornato in patria, Corot realizza i suoi primi successi; consacrati definitivamente con l'acquisto di una sua opera alla Esposizione Universale (1855), Ricordo di Marcussis, da parte di Napoleone III, successi riconfermati con un secondo acquisto dell'imperatore nel 1867: La solitudine





Sono tuttavia i suoi paesaggi ufficiali, le sue vedute classicheggiami, i panorami a soggetto mitologico che ottengono uno specifico riconoscimento. Attratto dagli orizzonti campestri, compie un'altra serie di viaggi, fra il 1854 e il 1862, nelle regioni francesi. Ormai libero da ogni impedimento accademico, il suo stile diventa più leggero, il colore più luminoso, la forma meno definita, alla ricerca di risultati formali di elevatissimo livello qualitativo. Il disegno si perde ormai a favore di una pittura fatta di mezzetinte, di giochi di luce dal sapore impressionistico, Corot scopre nel frattempo la figura umana, dipinge immagini di fanciulle e di donne, piccoli ritratti di persone amiche e familiari, riprodotti in atteggiamento assorto, talvolta incantato: Donna con perla (1868-‘70, Parigi, Louvre); Giovane donna al pozzo (1865-70, Otterloo, Museo). 





Infaticabile com’era sempre stato per lutto il corso della vita, continua ancora freneticamente a dipingere nonostante gli anni; ormai, sicuro delle proprie affermazioni, presenta ai Salon i paesaggi luminosi, le vedute che era solito conservare per sé: Ricordo di Mortefontaine (Parigi,Louvre); La chiesa di Marissel (1867, ivi). Ancora negli ultimi anni produce piccoli quadri la cui freschezza ricorda i dipinti del primo viaggio in Italia: Il campanile di Dottai (1871), La Cattedrale (1874) o La Donna in blu (1874) tutte al Louvre. 





Muore nel febbraio1875, dopo alcuni mesi di malattia, con il rimpianto a suo giudizio di non aver mai saputo fare un cielo: «Ora lo vedo più rosa, più profondo, più trasparente: come vorrei poterlo rendere, per mostrare dove vanno questi immensi orizzonti!».




Giovanni Pascoli: Biografia, ideologia, poetica. Myricae, Canti di Castelvecchio, Poemetti, Poemi Conviviali.







GiOVANNI PASCOLI
Biografia, ideologia, poetica. 
Myricae, Canti di Castelvecchio, 
Poemetti, Poemi Conviviali. 
Cura CDS

Merito di Pascoli è stato quello di inserire la poesia italiana nel gran fiume del simbolismo europeo. Cioè in quella corrente di lirica pura che, con Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé (i quattro simbolisti più autentici perché poeti puri, poeti in senso assoluto) affida alla poesia la scoperta delle illuminazioni, dei rapporti simbolici che corrono tra le cose, tra gli uomini e le cose, tra gli uomini e il loro inconscio. Oltre e fuori del linguaggio comune, pratico, che serve alla comunicazione, i simbolisti svuotano la parola del suo senso originario, etimologico, contenutistico e la usano non per descrivere realisticamente, per fissare oggettivamente dei paesaggi, delle figure umane o storie, ma per suggerire il diverso, per evocare il mistero, per richiamare ed esprimere l’inconosciuto che circonda e assedia l'uomo.







I - TRAGEDIA BIOGRAFICA E IDEOLOGIA

Due fatti fondamentali gettano la loro ombra sulla vita di Giovanni Pascoli (nato a San Mauro di Romagna, 1855 e morto a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca, nel 1912; ordinario di letteratura latina alle Università di Messina e di Pisa, quindi successore di Carducci nella prestigiosa cattedra dell'ateneo bolognese): l’assassinio del padre e la militanza anarchico-socialisteggiante.

a) La morte del padre (il nido distrutto)
L'uccisione del padre Ruggero Pascoli, amministratore di una tenuta dei principi di Torlonia, per mano di ignoti mentre sul suo calesse ritornava dal mercato di Cesena (leggere le liriche X agosto, II nido dei farlotti, La cavalla storna) e la mancata punizione del colpevole rappresentano un'esperienza traumatica per il dodicenne Zvanì (Giovanni), facendogli conoscere precocemente il dolore e il male (che è “più grande di Dio”). Le difficoltà economiche, le altre sciagure domestiche, la morte della sorella Margherita, della madre e poi ancora del fratello Luigi, il disperdersi della famiglia (il nido distrutto) producono nell’ adolescente una crisi profonda destinata a durare anche negli anni maturi; gli fanno concepire un sentimento negativo, terrorizzato del mondo, dove dominano la morte e la malvagità, la crudele ingiustizia degli uomini.

b) Il socialismo umanitario
L'ingiustizia sofferta per la morte del padre (l'assassino non fu mai trovato), la miseria e l'amara inquietudine orientano il giovane Pascoli verso la predicazione anarchico-rivoluzionaria del socialista romagnolo Andrea Costa. Durante gli anni universitari a Bologna, partecipa a dimostrazioni antigovernative, subisce l'arresto e tre mesi di carcere; più tardi Pascoli scriverà che allora “si processavano come malfattori quelli che aspiravano a togliere il male dal mondo”. Il riellismo anarchico e socialista di Pascoli resta sostanzialmente umanitario e non classista. Il socialismo pascoliano non conosce la lotta di classe e la dottrina marxista, nel convincimento “che il fallo d'amore e di carità ha maggior importanza e consistenza, dirò così scientifica, che le vostre teorie economiche e sociali”, L'idea e la speranza di una umanità libera dal bisogno, l'interesse per lo causa degli emigranti (nel poemetto Italy) e il duro lavoro in terra straniera determinano un altro connotato del socialismo pascoliano che è insieme nazionalista e internazionalista. Secondo Pascoli, i socialisti “come nella lotta economica sostengono gli operai contro i padroni, così nella lotta politica devono sostenere le nazioni (povere e proletarie) contro gli imperi (ricchi ed egemoni)”.
Per questa strada Pascoli arriva al discorso ufficiale, di forte, pericoloso accento nazionalista, La grande proletaria (l'Italia) s’è mossa, del 1911, in cui accetta e giustifica la campagna coloniale di Libia come fosse un'impresa di giustizia socialisticamente cavalleresca, rimangiandosi tulle le invettive alla guerra, tutte le condanne del militarismo precedentemente avanzate in nome degli ideali umanitari e della pace sociale.





  
II - LA POETICA DEL “FANCIULLINO”

Anche per Pascoli la poesia assume l'ufficio proprio di tutto il Decadentismo di rivelazione. Il poeta cerca di scoprire il mistero dell’universo precluso alla conoscenza scientifica, quel mistero, quell'ignoto che la ragione e la scienza non hanno saputo esplorare. L'intuizione visionaria del mistero attraverso la poetica del fanciullino. Manifesto organico dell'idea e della funzione pascoliana di poesia è appunto Il fanciullino, un articolo pubblicato sul “Marzocco” (giornale dell'estetismo decadente fiorentino) nel 1897 e in edizione definitiva nel 1902.
Riprendendo e reinterpretando un'immagine platonica  (nel dialogo Fedone Cebes dice a Socrate che ognuno ha dentro di sé un fanciullino che teme la morte e deve essere rassicurato), Pascoli afferma che tutti gli uomini si portano dentro un fanciullino, cioè un modo pre-razionale, intuitivo e poetco, di guardare gli aspetti del mondo, di sentire le paure e le gioie della vita con gli occhi freschi, stupefatti dell'infanzia, con l’anima calda e fantasiosa propria del fanciullo che vede la prima volta. Questo fanciullino (nascosto e silenzioso negli adulti perché occupati, distratti da interessi pratici, ma pronto a rivelarsi, a parlare anche in loro quando maggiormente  soffrono, si entusiasmano e si commuovono)  “alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle popola l'ombra di fantasmi ed il cielo di dei”.
Il fanciullino cerca la  poesia nelle piccole cose; anche nelle cose quotidiane, familiari “come la pimpinella (erba aromatica) sul greppo dietro la casa, è il nuovo per chi sa vederlo”  Opppure trova nelle grandi cose tramandate dalla leggenda e dalla storia il piccolo, cioè il particolare modesto, puro.
La poesia non deve proporsi intenzionalmente scopi utilitari, non deve essere “poesia applicata”. Il poeta-fanciullo “è poeta, non oratore, non tribuno, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte”. La socialità della poesia sta nel suo essere solo poesia, nel suo ridursi al “cantuccio” del cuore. Ma proprio per questo, per essere sogno e visione, meraviglia e conforto, la poesia abolisce l'odio e affratella gli uomini.


  
III.- TEMI E TECNICHE ESPRESSIVE

Dalla tragedia familiare ai mistero dell'universo.
Abbiamo detto che i temi fondamentali, più profondi e qualificanti  della poesia  pascoliana  si  esprimono  con strutture e linguaggio simbolista. Quali temi? La tragedia familiare, mai placata e rassegnata, che ritorna sempre dolorosamente ossessiva alla memoria. La rivelazione dell'inconscio, la discesa nelle zone torbide degli istinti e degli affetti bloccati, l'ambiguità e l'inquietudine dell'adolescenza, certi momenti autobiografici di sessualità ambigua e sofferta. Le vicende del mondo dei campi (dapprima il paesaggio romagnolo, la «Romagna solatia», poi la Garfagnana di Castelvecchio in Toscana al posto della nativa Romagna troppo legata a luttuose memorie) perché “nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è una gran consolazione”, il mistero dell'universo, l'immenso ciclo e gli abissi cosmici che danno, a pensarli e più ancora a sentirli, una sconvolgente vertigine, un “freddo orrore” e un brivido di morte.

Simboli, fonosimboli, onomatopee
Questi quattro temi, dramma familiare, penetrazione autobiografica dell'inconscio, natura e campagna consolatrici, mistero cosmico, vengono realizzati con nuove strutture e tecniche espressive che usano i simboli (immagini simboliche e figure onìriche, di sogno), i fonosimboli (analogie e sinestesìe), le onomatopee.

Significativi i sìmboli pascoliani, prodotti dall'esistenza intima del poeta, violata e offesa dagli uomini, sconvolta dal trauma della tragedia familiare che lo ha marcato per sempre: il simbolo del nido, del nido distrutto, la famiglia, l'ambiente familiare, luogo sicuro, caldo di affetti, colpito ingiustamente e distrutto dalla violenza e dal male degli uomini. Altro simbolo, questa volta cosmico, il libro (nella lirica omonima); sfogliato da una mano invisibile, il libro sta a indicare la grande ombra del cosmo e della vita, in cui gli uomini vanamente si perdono senza trovare risposta agli interrogativi del loro esistere (il libro del mistero).
Oltre che a livello figurativo, di immagini simboliche come il nido distrutto, il libro, e altre che vedremo esaminando la raccolta Myricae, il simbolismo di Pascoli procede anche più scopertamente sulla parola con interventi tecnici a livello fonico-metrico. Agendo sulla parola indipendentemente dal suo significato, dal suo valore semantico, Pascoli privilegia il gioco dei suoni, manovra gli accordi musicali, fonicamente imitativi che la parola stessa può suggerire. Il simbolismo fonico o fonosimbolismo pascoliano introduce una fitta rete di analogie e di sinestesie, di suoni e dì onomatopee per evocare, suggerire realtà lontane, profonde e misteriose.
Frequenti le analogie e le sinestesie che legano, associano in maniera inedita e audace impressioni sensoriali diverse come: Là, voci di tenebra azzurra, associazione, ripetiamo, di termini diversi, di differente appartenenza sensoriale (voci, riguarda l'udito; tenebra azzurra, riguarda la vista) per esprimere il suono delle campane nella notte. Altre sinestesie: strepere nerodi un treno; pende un silenzio tremulo, opalino, dove ricorrono fusioni e scambi traslati tra sfere sensoriali auditive (strepere, pende un silenzio) e visive, cromatiche (nero, opalino). Sono vocaboli fonoespressivi: strosciando e sibilando il vento; a onde lunghe romba (la campana e l'eco diffuso dei suoi rintocchi); cartocci strepitosi (le foglie secche del granoturco sotto i movimenti dei monelli che ruzzano, fanno strepito). Famose le onomatopee, i segni creati su imitazione di rumori naturali con cui Pascoli riproduce il suono delle campane (din-don o don-don) e il richiamo, il grido notturno dell'assiuolo (chiù).






IV. SVOLGIMENTO DELL'OPERA

Quadro sintetico

I. “Myricae”
la natura misteriosa e simbolica
analisi di Lavandare (l'aratro simbolo della solitudine esistenziale)
analisi de // bove (paesaggio cosmico minaccioso e inquietante)
analisi di X Agosto (la rondine-padre uccisa e la casa-nido distrut­ta)
analisi de L'assiuolo (il grido del chiù presentimento e avvertimen­to di morte)

IL I «Poemettì» e i «Canti di Castelvecchio»
il ciclo delle stagioni e il lavoro agricolo nella Garfagnana
analisi de La siepe (simbolo ideologico della piccola proprietà)
i fiori e la loro simbologia sessuale
analisi di Digitale purpurea (l'ambiguità e il fascino della tentazio­ne giovanile)
analisi di Il gelsomino notturno (il mistero carnale e miracoloso del generare)

III. I “Poemi Conviviali”, i miti dell'antichità classica aggiornati e interpretati come moderni
simboli esistenziali


I  “Myricae”: una realtà naturale misteriosa e simbolica
Nella prima raccolta di poesie 1891-1903, col titolo di Myricae, tolto a un verso della quarta egloga di Virgilio (dove il nome delle umili piante, le tamerici, indicava argo­menti e figure in stile dimesso) incontriamo, secondo quanto avverte la prefazione dello stesso Pascoli, “frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane”, dedicati alla memoria del padre morto (“Rimangano rimangano que­sti canti su la tomba di mio padre!...”).
Sono brevi orizzonti di campi nel giro delle stagioni (albe festive, vespri, temporali, sere d'ottobre, notti di neve), rapide note e colori del paesaggio e della natura romagnola, degli animali e degli uccelli, momenti e aspetti dei mestieri e della fatica quotidiana (cucitrici, lavandaie, carrettieri, aratori, mie­titori). Tutti questi elementi vengono tuttavia colti e rappre­sentati con sensibilità e modi espressivi nuovi. Non solo nella loro evidenza realistica, attraverso i contorni netti, visibili delle loro presenze materiali, ma anche nel clima allusivo e segreto, nel significato simbolico e musicale di una loro di­versa, più profonda e misteriosa realtà.
a) In «Lavandare» l'«aratro» abbandonato esprime la soli­tudine
Per misurare la grande distanza che separa questo origina­le atteggiamento poetico pascoliano dal Naturalismo/Veri­smo, consideriamo in Myricae il madrigale Lavandare (1894) dove ricorrono impressioni visive e uditive che nonsono più solo realistiche, ma soprattutto allusive e simbo­liche.
L'aratro che resta nel campo, dimenticato tra le nebbie mattinali di novembre dopo l'aratura, esce dall'ambito realistico di un quadro stagionale, dalle linee di un pae­saggio-roba di tipo verghiano per diventare una figura em­blematica, un segno negativo del vivere. L'aratro senza buoi è il simbolo di una condizione umana dolorosa e turbata: quella della lavandaia stornellatrice che mentrerisciacqua e batte i panni (suggestive cadenze onomatopeiche dello sciabordare e dei tonfi spessi) soffre interiormente la solitudine e l'abbandono: “quando partisti (un tu sempre presente al cuore, l'amante, il promesso sposo) come son rimasta! / come l'aratro in mezzo alla maggese”. Lo stato di solitudine, la situazione esistenziale dell'ab­bandono e della dimenticanza - dimenticato l'aratro,dimenticata forse la donna -, resa con simbolismo visivo dall'aratro immobile,senza buoi, viene dunque completa­ta e approfondita musicalmente, per analogia musicale, dalla lunga cantilena popolaresca che parla di vento, dineve, della partenza tanto tempo fa di una persona cara che non è ancora tornata.
b) Ne “II bove” un “più grande mondo”  sconvolto e inquie­tante.
Confrontiamo ancora il famoso sonetto carducciano Il bove (1872) con l'altro di Pascoli Il bove (1890), sempre in Myricae. Carducci, con forte senso nostalgico del paesag­gio maremmano e sulla traccia culturale e «georgica» del suo Virgilio (poeta latino da lui prediletto) sta in ammira­zione davanti al «pio bove»; vede la «possente e placida bestia» (come spiega in una lettera), pura e sacra, nel mo­mento in cui si erge monumentale in mezzo ai «campi li­beri e fecondi», oppure quando paziente e “contento” sot­to il giogo aiuta l'uomo nel lavoro dei campi.
Diversa la prospettiva pascoliana. Non lo sguardo del poeta, non la sua ammirante contemplazione del “pio bove” (che gli infonde nell'animo un “sentimento di vigo­re e di pace”), ma i “grandi occhi” del bove stesso agisco­no in Pascoli come punto di vista nel sonetto. Il mondo d'intorno, visto con i «grandi occhi» del bue, attraverso la sua ottica macroscopica che si suppone ingrandisca enor­memente le cose, porta Pascoli a sconvolgere il paesaggio, ad alterarne non solo le proporzioni, le misure (il «rio sot­tile», il piccolo ruscello che si trasforma in azzurro, «ceni­lo» fiume) ma a cambiarne, a deformarne lo stesso signifi­cato. Il paesaggio cresce come un pauroso, misterioso in­cubo, man mano che scendono le ombre della sera. La natura dilaga e si altera in una apparenza visionaria, nelle dimensioni di un mistero cosmico quanto mai minaccioso e inquietante; uccelli e nubi assumono al tramonto strane forme irreali; diventano “immagini grifagne” (figure rapa­ci) e «tacite chimere» (mostri mitologici).
Dilatando e scavando in direzione metafisica, Il bue di Pascoli rispetto a quello naturalistico e georgico di Car­ducci rappresenta - con nuovo procedimento decadente - un'altra realtà inquieta e inconoscibile, un altro universo, la presenza assillante e misteriosa di “un più grande mon­do”.
e) La lirica “X Agosto” e il simbolo del “nido distrutto”. I più significativi simboli pascoliani derivano dalla tragica esperienza infantile del poeta, dal dramma familiare (l'as­sassinio impunito del padre) che lo ha sconvolto, lo ha se­gnato per sempre, destinandolo - anche da adulto, anche da uomo maturo - ad una dolente, inguaribile angoscia, ad una lunga paura e ad una difesa continua, allarmata della propria vita nei confronti degli altri uomini. Abbia­mo già citato il simbolo del nido distrutto. Vediamo come la lirica X Agosto (1896) svolge questo simbolo, radicato nel sangue e nella memoria.
Scritta nell'anniversario dell'uccisione del padre avvenuta trent'anni prima (10 agosto 1867), la poesia segue la leg­genda popolare che vede nel fenomeno estivo delle stelle cadenti le lacrime di San Lorenzo; interpreta e rivive que­sta leggenda come prova dell'invincibile presenza e ricor­renza del Male sulla terra (nel calendario liturgico il mar­tirio del santo cade appunto il 10 agosto). La memoria te­nace, ossessiva di Pascoli dilata il crudele avvenimento privato a dramma universale del Male onnipresente al mondo, indifferente e sordo alle sofferenze degli uomini. E inventa una serie di simboli istintivi e dolorosi: la rondi­ne-padre uccisa mentre tornava alla sua casa-nido; la ron­dine uccisa, crocifissa,protesa in terra come in croce, con ancora in bocca Vinsetto-cena per i suoirondinini-figli; la famiglia-nido che aspetta inutilmente, e si disfa, muoreanch'essa, consunta dalla fame (il nido nell'ombra “che at­tende/che pigola sempre più piano”).
d) Sogni e simboli onirici. La simbologia degli uccelli e ”L'assiuolo”
Tipici materiali e forme poetiche decadenti, i sogni e i simboli onirici ricorrono nella breve lirica Carrettiere (sempre in Myricae), col protagonista, un carrettiere di carbone che sogna la gioia semplice e favolosa del Natale durante il suo viaggiare notturno tra le gole dei monti. Anche nel paesaggio astratto, metafisico di Scalpitìo il
«piano deserto, infinito» e l'incubo prodotto dal galoppo misterioso (che significa morte) sono elementi di apparte­nenza onirica, proiezioni nel sogno di uno stato psicologi­co d'angoscia. Simboli fonici e onomatopee ricorrono spesso inMyricae dove Pascoli rifa il verso agli uccelli (un tac tac di capinere, un tin tin di pettirossi, un rerere di cardellini), ottenendo risultati poetici folgoranti (“Virò...disse la rondine. E fu giorno”). La simbologia degli uccelli assume spesso un significato di morte. Come nelle doppie quartine di novenari de L'assiuolo.
Il brivido di morte che il canto all'alba dell'assiuolo (un rapace notturno detto anche chiù, portatore di lutti e di­sgrazie secondo la credenza popolare) trasmette all'uomo viene espresso da Pascoli coi mezzi di un simbolismo fo­nico accorto e sensibilissimo. Nella lirica L'assiuolo, tutta intonata al richiamo lugubre e angosciante dell'uccello, chiù, ogni strofa termina col motivo, col ritornello ono­matopeico e significante, col richiamo monosillabico chiùdell'uccello notturno (“veniva una voce dai campi: /chiù...”; “Sonava lontano il singulto: chiù...”; “e c'era quel pianto di morte... chiù”) ad indicare oscuro dolore, a suggerire inconscio turbamento, misterioso presentimento e avvertimento di morte, pianto di morte per l'uomo.
Gli uccelli notturni, la civetta, l'assiuolo, con il loro canto luttuoso (la “stridula risata” della civetta, la voce lontana e il “singulto” del chiù) smuovono nelle zone dell'incon­scio una presenza di morte, un senso mortale di angoscia che invade e turba la vita. La simbologia degli uccelli notturni pascoliani ridesta nel subcosciente dell'uomo stati psicologici di turbamento e indistinta paura, brividi miste­riosi e profondi di morte.




  
II. I “Poemetti” e i “Canti di Castelvecchio”: un più vasto disegno
Le brevi, folgoranti liriche di Myricae diventano i lunghi
racconti in versi nei Primi poemetti (1897-1904) dei Nuovi poemetti (1909) e dei Canti di Castelvecchio (1903-1907-1912). 1 temi della campagna, raggnippati in al­trettante sezioni intitolate al lavoro della terra, La sementa, L'accestire (erbe e piante che crescono), La mietitura, La vendemmia raccontano poeticamente le vicende stagionali e agresti della Garfagnana di Castelvecchio in Toscana (dove Pascoli possedeva una casa). Le descrizioni procedono larghe, ricche di particolari, con una conoscenza precisa, addirittura tecnica dei lavori agricoli, con vocaboli riferiti spesso diretta­mente dal linguaggio vernacolo della gente garfagnina.
   
a) II mondo agreste e salvifico della «piccola proprietà» ne «La siepe».
Tuttavia anche l'ambiente rurale e la storia reale-allegorica del nascere, del fiorire dell'amore di Rosa e di Rigo e del formarsi della loro famiglia finiscono idealizzati e trasfigurati. Anche i gesti contadini, le abitudini quoti­diane e le pratiche stagionali della gente dei campi diven­tano momenti e simboli di un rito esistenziale, rappresen­tano una vita esemplare, vista e considerata come modello da vivere a contatto con la natura buona che consola e protegge.
Significative, indizianti, sotto questo profilo, nei Primi Poemetti, le terzine de La siepe, che vengono lette oggi in chiave sociologica, allegorico-sociologica come il manife­sto del Pascoli borghese e piccolo proprietario terriero. La «siepe, utile e pia» cinge «il campetto» come «l'anello al dito»; è sacra e indissolubile come il vincolo, la fede ma­trimoniale. Per essa, difeso dalla sua recinzione (“non mai abbastanza tenace e folta e spinosa”, afferma Pascoli in un articolo dove esalta il sentimento agricolo della terra), il poeta-proprietario può vivere “libero e sovrano”. La sieperappresenta dunque il simbolo, questa volta ideologico ol­tre che esistenziale, della proprietà privata che garantisce e difende la vita e i beni del poeta contro la vastità estra­nea e nemica del mondo.
   
b) «Digitale purpurea», «II gelsomino notturno» e i loro sim­boli sessuali.
Le linea di tendenza simbolistica di Pascoli non si smenti­sce. E proprio nei Primi Poemetti e nei Canti di Castel-vecchio risaltano esempi efficaci del simbolismo pascolia-no da collocare nell'area dell'inconscio, nelle zone torbide degli istinti, delle paure e dei sentimenti bloccati. Abbia­mo visto in Myricae il messaggio di morte che trasmetto­no gli uccelli notturni. E dopo L'assiuolo, ritroviamo Ilchiù nei Nuovi poemetti dove ritorna a indicare (col suo “dolce/mesto verbo eternamente uguale”) la solitudine, la paura di Viola per sua sorella che, sposandosi, è andata incontro «a chi sa qual martirio». Ebbene, come gli uccel­li specie quelli notturni, anche le immagini dei fiori e la natura campestre sono usate da Pascoli per comunicare col mondo inquietante oltre la realtà visibile.Al simbolismo floreale pascoliano appartengono Digitale purpurea (nei Primi poemetti) e // gelsomino notturno (ne / Canti di Castelvecchio), due liriche visionarie e ipnoti-che, simbolistiche e decadenti che portano nel titolo due nomi di fiori.
Nella trama di Digitale purpurea s'incontrano due antiche compagne di collegio, due educande: la bionda, virtuosa Maria (la sorella stessa del poeta, “semplice di vesti e di sguardi”) e la meno virtuosa Rachele, bruna, dagli occhi che «ardono». Nel loro dialogo ricordano la digitale pur­purea, il «fiore di morte» dal profumo affascinante e vene­fico che un giorno lontano ha turbato la loro adolescenza. Mentre Maria ha resistito alla morbosa suggestione del fiore proibito (a forma di dita, come una mano umana “macchiata di sangue”), Rachele ha invece ceduto alla tentazione. Il fondo erotico del poemetto nel suo simboli­smo floreale indica la repulsione-attrazione giovanile del piacere, allude all'ambiguità e al fascino della tentazione. La sessualità introversa e morbosa diDigitale purpurea, nella sua insinuante dolcezza (“E dirmi sentia: vieni!/Vie-ni/E fu molta la dolcezza! moltal/tanta, che, vedi.../... si muore!”) significa anche misteriosa attrattiva e desolazione della morte, secondo il gusto decadente che identifica amore e morte, piacere e morte, Eros e Thanatos (per dir­lo in termini freudiani).
Un altro fiore, il gelsomino di Spagna, la cosiddetta “bella di notte” che apre i suoi petali le sere d'estate e li chiude all'alba, esprime simbolicamente con simbologia floreale ne Il gelsomino notturno un momento autobiografico disessualità pascoliana dolcemente ambigua e sofferta. La lirica viene scritta per l'occasione del matrimonio di un caro amico, come risulta da una nota dello stesso Pascoli: “E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l'odor del fiore che olezza nell'ombra e nel silenzio: l'odore del gelsomino notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino...: voglio dire, gli nacque il suo Dante Gabriele Giovanni”(nacque, nel senso di: fu concepito/
Ne Il gelsomino notturno due vicende parallele occupano l'arco di tempo che va dalla sera all'alba. Quella dei gio­vani sposi che nella casa accogliente e silenziosa vivono la loro prima notte di nozze. E quella del poeta che dal difuori (“ape tardiva” che trova “già prese le celle”), come un escluso, un uomo senza donna, privo d'amore (votato autobiograficamente Pascoli ad una condizione perpetua di celibato «forzatamente casta e orribilmente mesta»), inparte vede la notte nuziale che si prepara (“Splende un lume là nella sala”; “Passa il lume su per la scala;/brilla al primo piano: s'è spento...”) e in parte indovina il miste­ro carnale e miracoloso del generare (che sta avvenendo), con trasalimenti di infantile, regredita curiosità. Fino a quando, all'alba, “si chiudono i petali un poco gualciti” a significare l'atto amoroso ormai consumato, con concepi­mento nuziale di un'altra creatura umana (“l'urna molle e segreta” indica appunto il seno materno che «cova», cioè prepara, matura la sperata felicità di un nuovo essere).
Con Digitale purpurea e Il gelsomino notturno Pascoli evoca zone altrimenti indecifrabili del mistero, scende nel l'oscurità del subcosciente dove la creatura umana, Rachele in Digitale purpurea, il poeta stesso nel Gelsominonotturno, subiscono esperienze psichiche traumatizzanti e shock esistenziali.





III. Nei “Poemi Conviviali” i miti ripensati come simboli esistenziali.
La tendenza a svolgimenti poetico-narrativi di vasta por­tata prosegue neiPoemi conviviali, 1904 (così detti dalla rivi­sta dell'estetismo romano «II Convito» in cui apparvero dap­prima), con l'elaborazione pascoliana di miti, di leggende classiche e dei primi tempi cristiani. I personaggi dell'antichi­tà pagana, Saffo, Achille, Ulisse, Omero, Esiodo, Alessandro Magno, vengono ripensati alla luce di un'umanità moderna, simbolica e precristiana, diventano creature che sentono la vanità della loro vita proprio mentre questa raggiunge il culmine.
Giunto con le sue conquiste ai limiti della terra, Alexan-dros si trova di fronte l'Oceano, deserto immenso che rappre­senta l'ansia perenne, la suggestione del mistero tuttora in­soddisfatto dopo tanti avventurosi traguardi. L'ultimo viaggio reinterpreta il mito di Ulisse in chiave di decadentismo esi­stenziale, con Circe, le Sirene, che raffigurano le vane lusin­ghe dei sensi e il naufragio all'isola di Calipso (la Nasconditrice) che esprime il tramonto di ogni illusione.





Vita del realista Gustave Courbet con testimonianze e frammenti diaristici. Cura Claudio Di Scalzo





Claudio Di Scalzo
VITA DEL REALISTA GUSTAVE COURBET
(con testimonianze e frammenti lirici)

È nota la leggenda che circonda Gustave Courbet (Ornans, 1819 - La Tour-de-Peilz, Svizzera 1877).  Il realista, l'«apostolo del brutto», il demolitore della colonna Vendôme, non sono che uno dei profili di una personalità ricca quanto contraddittoria. Si proclamava «senza ideale né religione ma», innanzitutto, pittore. Al pubblicista Francis Wey egli dichiara: «Io dipingo come un dio» e quest'orgoglio, spesso deriso, evidente nel suo gusto quasi narcisistico per l'autoritratto, è quello di un uomo con un'esperienza straordinaria le cui ambizioni, anche se confuse, sono sempre confortate dal successo pittorico. È evidente, in Courbet, il ruolo dell'atavismo familiare  e geografico.



Il padre, mezzo signorotto di campagna e mezzo contadino, il nonno materno, fedele ai principi del 1789, e la madre, prudente  e accorta, spiegano, in larga parte, la psicologia dell'artista. Inoltre, Ornans e la valle  dalla  Loue, rappresenteranno  una  fonte continua di ispirazione. La sua vocazione si manifesta molto presto: dopo gli studi presso il piccolo seminario di Ornans, poi a Besançon, ove si accosta alla pittura, e successivamente a Parigi nel 1840.



I  suoi  inizi sono oscuri: si sa solo che frequenta diversi atelier in qualità di allievo esterno. Ma il fatto che egli si sottragga al cursus accademico, non deve indurci a sottovalutare la formazione e la cultura del giovane Courbet. Le opere degli anni 1840-'48 che, secondo il soggetto (Le Guitarrero, 1845, collezione privata) o lo stile (L'homme à la pipe, 1846, museo di Montpellier) si possono definire romantiche, sorprendono per la qualità immediata dell'esperienza acquisita e la complessità delle influenze: i modelli cui  il  pittore fa riferimento sono italiani, da Venezia a Napoli, spagnoli, nordici. In "Courbet au chien noir" (1842, Petit Palais, Parigi) l'autorità della composizione, l'eleganza del contorno che circonda animale e padrone, la semplicità dell'effetto del chiaroscuro e infine la luminosità  del paesaggio appartengono a un sapiente pittore che rende omaggio a Bellini, a Tiziano e anche  a  Bronzino. Con un bagaglio narrativo ridotto all'essenziale, "Les amants dans la campagne" (versioni al Petit Palais e a Lione) denotano un lirismo niente affatto scialbo, ma immediatamente popolare.



  
L'artista si afferma al Salone del 1849. Fra le sette tele che egli invia, mentre "L'homme à la ceinture de cuir", definito «studio dai Veneziani», appartiene alla generazione degli autoritratti precedenti, "l' Aprésdîner à Ornans" (offre qualcosa di nuovo. Questa riunione  di  amici  sorprende  per  il formato:  Courbet  osa trattare in grande la scena di maniera. Del resto, l'influenza di un viaggio compiuto in Olanda è stata decisiva: «Rembrandt incanta le intelligenze e stordisce gli imbecilli  [...], Van Ostade, Van Craesbeeck mi seducono». Il romanziere e critico Champfleury eleva l'opera all'altezza «delle grandi assemblee di borgomastri di Van  der  Helst»: il paragone è, però, giusto solo a metà: Courbet è infatti più vicino ai pittori monocromi che non alla brillantezza di Van der Helst. Con il Enterrement à Ornans (Salone del 1850-'51), oggetto, allo stesso tempo, di scandalo e di successo, nasce la leggenda di Courbet. Insieme di ritratti (hanno posato gli abitanti di Ornans, dal  sindaco al becchino) "l'Enterrement" sbalordisce sia per il suo verismo sia per le dimensioni.


   
Un episodio banale è trattato con la stessa cura e la stessa attenzione psicologica del Sacre de Napolèon di David. Le reazioni sono violente: «È mai possibile dipingere gente così orrenda?», si chiedono i borghesi in un disegno di Daumier. «Feroce accesso di misantropia»,  «ignobili  caricature  che  ispirano disgusto e sono solo fonte di risate», questi sono i giudizi della critica. «Per essere realista, non occorre tanto fare  il  vero. Occorre invece fare il  brutto», verseggia de Banville. In ciò risiede il controsenso che l'opera di  Courbet continua  a suscitare.




In effetti, l'Enterrement, Funerale a Ornans,  è una pagina di umanità in cui Courbet, con un'attenzione scrupolosa unita alla simpatia per un «paese», mostra  come  un villaggio re agisce di fronte alla morte. «È forse colpa del pittore, si chiede Champfleury, se gli interessi materiali, gli egoismi sordidi, le meschinità di provincia [...] graffiano  il  volto, spengono questi occhi, corrugano le fronti?» Ma Courbet non ha dimenticato né l'emozione né la vera afflizione, e la sua commedia umana è complessa quanto quella di Balzac. La lezione satirica e il giudizio morale passano in  secondo  piano;  di  fatto,  la realtà  è magnificata e diventa verità generale, grazie all'ampiezza della trattazione, alla scienza dell'assembramento disordinato degli astanti, al lirismo del colore.




Ormai Courbet è consacrato dalla critica capo dei realisti, a fianco di Champfleury. Le  provocazioni del personaggio, i discorsi tenuti alla birreria Andler, luogo di riunione del  cenacolo,  spiegano  la  celebrità  chiassosa  che sarà propria della scuola. Ma le etichette vanno accettate solo con prudenza. Quando Courbet,  all'Esposizione internazionale del 1855, deciderà arditamente di organizzare una presentazione separata delle sue opere, egli stesso spiegherà nella prefazione del suo catalogo: «La qualifica di realista mi è stata imposta così  come  agli  artisti del 1830 venne imposta quella di romantici [...] Essere in grado di tradurre i costumi, le idee, gli aspetti del mio tempo, secondo la mia valutazione, [...] in una parola fare arte viva, ecco il mio scopo». Del resto, Courbet vede prima di pensare. "Casseurs de pierres" (Salone del 1850-51, dipinto andato distrutto a Dresda durante l'ultima guerra), opera socialista secondo Proudhon, è nato, prima di tutto, da un incontro, da una visione di miseria su una strada: «Senza volerlo, semplicemente dipingendo ciò che ho visto, ho sollevato ciò che chiamano la questione sociale».



Courbet sarà definito «occhio» da Ingres. Les demoiselles de  village (Salone del 1852, New York, Metropolitan Museum) rappresentano senz'altro un soggetto sociale, l'elemosina fatta dalle sorelle del pittore a una pastorella, ma, per l'artista, l'essenziale era costituito da un problema pittorico, quello di inserire dei personaggi in un luogo. Allo stesso modo, il quadro delle "Bagnanti" (Montpellier), che si dice sia stato preso a scudisciate da Napoleone III al Salone del 1853, è quasi staccato dal soggetto. Quanto di più accademico di un nudo in un paesaggio? «Nulla sarebbe la volgarità delle forme, ma la volgarità  e l'inutilità del pensiero sono abominevoli», annota Delacroix nel suo Diario, associandosi a Ingres e annunciando Baudelaire in  un'alleanza paradossale ma comprensibile contro una pittura così disinteressata e «antisovrannaturalista».



Nello  stesso  tempo,  sotto  l'influenza  di Proudhon e come sospinto dalla propria reputazione, Courbet si convince di essere un pittore socialista e partecipa alla  stesura  di "Du principe de l'art et de sa destination sociale "(1865) che propone una nuova lettura della sua opera. Così,  la  nudità deformata  delle "Bagnanti" diventa un monito contro i pericoli della vita oziosa e debilitante della borghesia, mentre "Les demoiselles des  bords  de  la Seine" (Salone del 1857, Petit Palais) rappresentano l'immagine dell'universo triste del lusso. "L'Atelier du peintre" «allegoria reale, interno del mio studio  che  ha determinato sette anni della mia vita artistica» (Esposizione del 1855, Louvre) è un'ambiziosa sintesi  dell'ideologia  di  Courbet.  Il relativo insuccesso deriva dal fatto che la trascrizione simbolica è ancora confusa e, soprattutto, troppo sensibile alle «porzioni»,  come quella della donna nuda che osserva Courbet mentre questi dipinge. "Le retour de la confèrence" (Salone del 1863, quadro distrutto),  pesante satira che mostra alcuni preti euforici dopo un buon pranzo, è troppo picaresco per essere realista. La volontà di satira  ne  impedisce  la riuscita.




 Paradossalmente, Courbet trionfa con i dipinti senza «problemi». "La femme au perroquet" (New York, Metropolitan Museum) suggerisce, secondo Castagnary, il paragone con Tiziano, mentre le sue  conturbanti  donne addormentate riescono a sedurre l'ambasciatore di Turchia, Khalil Bey, acquirente del "Bain turc" di Ingres. Le grandi composizioni, quali il "Combat des cerfs" e "La remise des chevreuils" (1861 e 1866 rispettivamente, Louvre) o L'hallali du cerf (1867, Besançon), gli valgono un deciso successo popolare. In esse, egli dà prova di tutta la sua conoscenza della natura e degli animali, confermata dai soggiorni nelle foreste germaniche, con una verve e una facilità talvolta fin troppo disinvolte.



Il Courbet pittore di successo merita la Legion d'onore, ma il Courbet socialista olimpico non esita a rifiutarla. La guerra del 1870  e  gli  avvenimenti  della Comune sconvolgeranno la vita di Courbet. Presidente della commissione nominata dagli artisti per vigilare sulla conservazione dei musei e delle ricchezze artistiche, egli svolge le funzioni di un sovrintendente alle Belle Arti. Si mette in mostra con la petizione del 14 settembre 1870 che richiede la rimozione della colonna Vendôme, «monumento privo di ogni valore artistico e tendente a perpetuare, con il suo significato, le idee di guerra  e  di  conquista  respinte dal sentimento di una nazione repubblicana», ed è presente, il 16 maggio 1871, al suo abbattimento. Dopo il crollo della Comune, Courbet  «il rivoluzionario» viene arrestato e deferito al Consiglio di guerra: viene condannato a sei mesi di carcere. Il seguito della  sua  vita  è dominato dalla preoccupazione per i suoi debiti. Viene anche respinto al Salone del 1873. Quando l'Assemblea approva il progetto di ricostruzione della colonna Vendôme, Gustave Courbet è ormai obbligato a recarsi in esilio in Svizzera. La vendita giudiziaria del 1877 lo prostra definitivamente: muore il 31 dicembre dello stesso anno. «Non compatiamolo [...], egli è passato attraverso le grandi correnti [...], ha sentito battere, come colpi di  cannone,  il  cuore  di  un popolo e ha terminato nel cuore della natura, in mezzo agli alberi» dirà, quale orazione funebre, Jules Vallés.