Giovanni Verga
L’AMANTE
DI GRAMIGNA
a Salvatore Farina
Caro Farina, eccoti non un
racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere
brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi —
interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore.
Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco
colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu
veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto,
senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello
scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia
dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono
passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano,
si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro
andirivieni che spesso sembrano contraddittori, costituirà per lungo tempo
ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento
di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo
scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza
e quello d’arrivo; e per te basterà, — e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo
artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più
minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe,
allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe
resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più
modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra
cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà
mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il
proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano,
che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente
tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si
scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l’affinità e
la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della
creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e
l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà
così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la
mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta
dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver
maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun
punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.
Parecchi anni or sono, laggiù
lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certoGramigna, se non erro, un
nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della
provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri,
soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a
mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta
minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe,
tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i proprietarii non
s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le
lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della
questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e subito in moto pattuglie,
squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo
cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di
notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di
mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po’ troppo sulle
calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle
osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna,
di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri
cascavano stanchi morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in
tutte le stalle; le pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo,Gramigna, non
era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s’arrampicava sui
precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia,
sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia
all’intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua
forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso
dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.
Peppa, una delle più belle
ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu «candela di sego»
che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande
e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse
un pilastro, senza piegare le reni.
La madre di Peppa piangeva dalla
contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a
voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a
quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle,
e anelli d’oro per le dieci dita delle mani: dell’oro ne aveva quanto ne poteva
avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che
cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. «Candela di sego» nel tornare
ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa, e veniva a
dirle che i seminati erano un incanto, se Gramignanon vi appiccava il
fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto
il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di condursi la sposa in casa,
in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse:
— La vostra mula lasciatela
stare, perché non voglio maritarmi —.
Figurati il putiferio! La vecchia
si strappava i capelli, «Candela di sego» era rimasto a bocca aperta.
Che è, che non è, Peppa s’era
scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì,
ch’era un uomo! — Che ne sai? — Dove l’hai visto? — Nulla. Peppa non rispondeva
neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva
come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. — Ah! quel
demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! —
Le comari che avevano invidiato a
Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo
stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta
di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte
in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre
teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era
andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel
diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.
Però ella seguitava a dire che
non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a
lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse,
assetata anch’essa, come lui.
Allora la vecchia la chiuse in
casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le
fessure dell’uscio con immagini di santi.
Peppa ascoltava quello che
dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e
rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia.
Finalmente si sentì che avevano
scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.
— Ha fatto due ore di fuoco! —
dicevano; — c’è un carabiniere morto, e più di trecompagni d’armi feriti.
Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno
trovato un lago di sangue dove egli era stato —.
Una notte Peppa si fece la croce
dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.
Gramigna era proprio nei
fichidindia di Palagonia — non avevano potuto scovarlo in quel forteto da
conigli — lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla
febbre, e colla carabina spianata.
Come la vide venire, risoluta, in
mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell’alba, ci pensò un momento, se
dovesse lasciar partire il colpo.
— Che vuoi? — le chiese. — Che
vieni a far qui?
Ella non rispose, guardandolo
fisso.
— Vattene! — diss’egli, —
vattene, finché t’aiuta Cristo!
— Adesso non posso più tornare a
casa, — rispose lei; — la strada è tutta piena di soldati.
— Cosa m’importa? Vattene! —
E la prese di mira colla
carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni
addosso:
— Dunque? ... Sei pazza? ... O
sei qualche spia?
— No, — diss’ella, — no!
— Bene, va a prendermi un fiasco
d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è così —.
Peppa andò senza dir nulla, e
quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra
sé:
— Queste erano per me —.
Ma poco dopo vide ritornare la
ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso,
assetato, e poich’ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:
— Vuoi venire con me?
— Sì, — accennò ella col capo
avidamente, — sì —.
E lo seguì per valli e monti,
affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d’acqua o un tozzo di
pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate,
il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.
Una notte c’era la luna, e si
udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramignabalzò in piedi a
un tratto, e le disse:
— Tu resta qui, o t’ammazzo com’è
vero Dio! —
Lei addossata alla rupe, in fondo
al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi,
gli venivano incontro giusto da quella parte.
— Ferma! ferma! —
E le schioppettate fioccarono.
Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava
appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.
— È finita! — disse lui. —
Ora mi prendono —; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli
del lupo.
Appena cadde sui rami secchi come
un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono addosso tutti in una
volta.
Il giorno dopo lo strascinarono
per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente
gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata,
come una ladra, lei che ci aveva dell’oro quanto Santa Margherita!
La povera madre di Peppa dovette
vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli orecchini d’oro, e gli anelli
per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di
nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in
collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come
una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di
stenti, e si dovette vendere la casa.
Allora, di notte, se ne andò via
dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro
neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch’era in carcere Gramigna.
Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate,
cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e
scacciata ad ogni passo.
Finalmente seppe che il suo
amante non era più lì, l’avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e
colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov’era, a buscarsi il pane
rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella
stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che
le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di
tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza, ed era sempre per
la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la
chiamavano «lo strofinacciolo della caserma». Soltanto quando partivano per
qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e
pensava a Gramigna.
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