GiOVANNI PASCOLI
Biografia, ideologia, poetica.
Myricae,
Canti di Castelvecchio,
Poemetti, Poemi Conviviali.
Cura CDS
Merito di Pascoli è stato quello
di inserire la poesia italiana nel gran fiume del simbolismo europeo. Cioè in
quella corrente di lirica pura che, con Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé
(i quattro simbolisti più autentici perché poeti puri, poeti in senso assoluto)
affida alla poesia la scoperta delle illuminazioni, dei rapporti simbolici che
corrono tra le cose, tra gli uomini e le cose, tra gli uomini e il loro
inconscio. Oltre e fuori del linguaggio comune, pratico, che serve alla
comunicazione, i simbolisti svuotano la parola del suo senso originario,
etimologico, contenutistico e la usano non per descrivere realisticamente, per
fissare oggettivamente dei paesaggi, delle figure umane o storie, ma per
suggerire il diverso, per evocare il mistero, per richiamare ed esprimere
l’inconosciuto che circonda e assedia l'uomo.
I - TRAGEDIA BIOGRAFICA E
IDEOLOGIA
Due fatti fondamentali gettano la
loro ombra sulla vita di Giovanni Pascoli (nato a San Mauro di Romagna, 1855 e
morto a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca, nel 1912; ordinario di
letteratura latina alle Università di Messina e di Pisa, quindi successore di
Carducci nella prestigiosa cattedra dell'ateneo bolognese): l’assassinio del
padre e la militanza anarchico-socialisteggiante.
a) La morte del padre (il nido
distrutto)
L'uccisione del padre Ruggero
Pascoli, amministratore di una tenuta dei principi di Torlonia, per mano di
ignoti mentre sul suo calesse ritornava dal mercato di Cesena (leggere le
liriche X agosto, II nido dei farlotti, La cavalla storna) e la
mancata punizione del colpevole rappresentano un'esperienza traumatica per il
dodicenne Zvanì (Giovanni), facendogli conoscere precocemente il
dolore e il male (che è “più grande di Dio”). Le difficoltà economiche, le
altre sciagure domestiche, la morte della sorella Margherita, della madre e poi
ancora del fratello Luigi, il disperdersi della famiglia (il nido distrutto)
producono nell’ adolescente una crisi profonda destinata a durare anche negli
anni maturi; gli fanno concepire un sentimento negativo, terrorizzato del
mondo, dove dominano la morte e la malvagità, la crudele ingiustizia degli
uomini.
b) Il socialismo umanitario
L'ingiustizia sofferta per la
morte del padre (l'assassino non fu mai trovato), la miseria e l'amara
inquietudine orientano il giovane Pascoli verso la predicazione
anarchico-rivoluzionaria del socialista romagnolo Andrea Costa. Durante gli
anni universitari a Bologna, partecipa a dimostrazioni antigovernative, subisce
l'arresto e tre mesi di carcere; più tardi Pascoli scriverà che allora “si
processavano come malfattori quelli che aspiravano a togliere il male dal
mondo”. Il riellismo anarchico e socialista di Pascoli resta sostanzialmente
umanitario e non classista. Il socialismo pascoliano non conosce la lotta di
classe e la dottrina marxista, nel convincimento “che il fallo d'amore e di
carità ha maggior importanza e consistenza, dirò così scientifica, che le
vostre teorie economiche e sociali”, L'idea e la speranza di una umanità libera
dal bisogno, l'interesse per lo causa degli emigranti (nel poemetto Italy)
e il duro lavoro in terra straniera determinano un altro connotato del
socialismo pascoliano che è insieme nazionalista e internazionalista. Secondo
Pascoli, i socialisti “come nella lotta economica sostengono gli operai contro
i padroni, così nella lotta politica devono sostenere le nazioni (povere e
proletarie) contro gli imperi (ricchi ed egemoni)”.
Per questa strada Pascoli arriva
al discorso ufficiale, di forte, pericoloso accento nazionalista, La
grande proletaria (l'Italia) s’è mossa, del 1911, in cui
accetta e giustifica la campagna coloniale di Libia come fosse un'impresa di
giustizia socialisticamente cavalleresca, rimangiandosi tulle le invettive alla
guerra, tutte le condanne del militarismo precedentemente avanzate in nome
degli ideali umanitari e della pace sociale.
II - LA POETICA DEL “FANCIULLINO”
Anche per Pascoli la poesia
assume l'ufficio proprio di tutto il Decadentismo di rivelazione. Il
poeta cerca di scoprire il mistero dell’universo precluso alla conoscenza
scientifica, quel mistero, quell'ignoto che la ragione e la scienza non hanno
saputo esplorare. L'intuizione visionaria del mistero attraverso la poetica del
fanciullino. Manifesto organico dell'idea e della funzione pascoliana di poesia
è appunto Il fanciullino, un articolo pubblicato sul “Marzocco” (giornale
dell'estetismo decadente fiorentino) nel 1897 e in edizione definitiva nel
1902.
Riprendendo e reinterpretando
un'immagine platonica (nel dialogo Fedone Cebes dice a
Socrate che ognuno ha dentro di sé un fanciullino che teme la morte e deve
essere rassicurato), Pascoli afferma che tutti gli uomini si portano dentro un fanciullino,
cioè un modo pre-razionale, intuitivo e poetco, di guardare gli aspetti del
mondo, di sentire le paure e le gioie della vita con gli occhi freschi,
stupefatti dell'infanzia, con l’anima calda e fantasiosa propria del fanciullo
che vede la prima volta. Questo fanciullino (nascosto e silenzioso negli adulti
perché occupati, distratti da interessi pratici, ma pronto a rivelarsi, a
parlare anche in loro quando maggiormente soffrono, si entusiasmano
e si commuovono) “alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose
parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle popola l'ombra di fantasmi ed il
cielo di dei”.
Il fanciullino cerca la poesia
nelle piccole cose; anche nelle cose quotidiane, familiari “come la pimpinella
(erba aromatica) sul greppo dietro la casa, è il nuovo per chi sa vederlo” Opppure
trova nelle grandi cose tramandate dalla leggenda e dalla storia il
piccolo, cioè il particolare modesto, puro.
La poesia non deve proporsi
intenzionalmente scopi utilitari, non deve essere “poesia applicata”. Il poeta-fanciullo “è
poeta, non oratore, non tribuno, non filosofo, non istorico, non maestro, non
tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte”. La socialità della poesia
sta nel suo essere solo poesia, nel suo ridursi al “cantuccio” del cuore. Ma
proprio per questo, per essere sogno e visione, meraviglia e conforto, la
poesia abolisce l'odio e affratella gli uomini.
III.- TEMI E TECNICHE ESPRESSIVE
Dalla tragedia familiare ai
mistero dell'universo.
Abbiamo detto che i temi
fondamentali, più profondi e qualificanti della poesia pascoliana si esprimono con
strutture e linguaggio simbolista. Quali temi? La tragedia familiare, mai
placata e rassegnata, che ritorna sempre dolorosamente ossessiva alla memoria.
La rivelazione dell'inconscio, la discesa nelle zone torbide degli istinti e
degli affetti bloccati, l'ambiguità e l'inquietudine dell'adolescenza, certi
momenti autobiografici di sessualità ambigua e sofferta. Le vicende del mondo
dei campi (dapprima il paesaggio romagnolo, la «Romagna solatia», poi la
Garfagnana di Castelvecchio in Toscana al posto della nativa Romagna
troppo legata a luttuose memorie) perché “nella vita semplice e familiare e
nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è una gran
consolazione”, il mistero dell'universo, l'immenso ciclo e gli abissi cosmici
che danno, a pensarli e più ancora a sentirli, una sconvolgente vertigine, un
“freddo orrore” e un brivido di morte.
Simboli, fonosimboli, onomatopee
Questi quattro temi, dramma
familiare, penetrazione autobiografica dell'inconscio, natura e campagna
consolatrici, mistero cosmico, vengono realizzati con nuove strutture e
tecniche espressive che usano i simboli (immagini simboliche e figure onìriche,
di sogno), i fonosimboli (analogie e sinestesìe), le onomatopee.
Significativi i sìmboli
pascoliani, prodotti dall'esistenza intima del poeta, violata e offesa dagli
uomini, sconvolta dal trauma della tragedia familiare che lo ha marcato per
sempre: il simbolo del nido, del nido distrutto, la famiglia,
l'ambiente familiare, luogo sicuro, caldo di affetti, colpito ingiustamente e
distrutto dalla violenza e dal male degli uomini. Altro simbolo, questa volta
cosmico, il libro (nella lirica omonima); sfogliato da una mano
invisibile, il libro sta a indicare la grande ombra del cosmo e della
vita, in cui gli uomini vanamente si perdono senza trovare risposta agli
interrogativi del loro esistere (il libro del mistero).
Oltre che a livello figurativo,
di immagini simboliche come il nido distrutto, il libro, e altre che
vedremo esaminando la raccolta Myricae, il simbolismo di Pascoli procede
anche più scopertamente sulla parola con interventi tecnici a livello
fonico-metrico. Agendo sulla parola indipendentemente dal suo significato, dal
suo valore semantico, Pascoli privilegia il gioco dei suoni, manovra gli
accordi musicali, fonicamente imitativi che la parola stessa può suggerire. Il simbolismo
fonico o fonosimbolismo pascoliano introduce una fitta rete di analogie e
di sinestesie, di suoni e dì onomatopee per evocare, suggerire realtà lontane,
profonde e misteriose.
Frequenti le analogie e le
sinestesie che legano, associano in maniera inedita e audace impressioni
sensoriali diverse come: Là, voci di tenebra azzurra, associazione,
ripetiamo, di termini diversi, di differente appartenenza sensoriale (voci, riguarda
l'udito; tenebra azzurra, riguarda la vista) per esprimere il suono delle
campane nella notte. Altre sinestesie: strepere nerodi un treno; pende un silenzio
tremulo, opalino, dove ricorrono fusioni e scambi traslati tra sfere sensoriali
auditive (strepere, pende un silenzio) e visive, cromatiche (nero, opalino).
Sono vocaboli fonoespressivi: strosciando e sibilando il vento; a onde
lunghe romba (la campana e l'eco diffuso dei suoi rintocchi); cartocci
strepitosi (le foglie secche del granoturco sotto i movimenti dei monelli
che ruzzano, fanno strepito). Famose le onomatopee, i segni creati su
imitazione di rumori naturali con cui Pascoli riproduce il suono delle campane
(din-don o don-don) e il richiamo, il grido notturno dell'assiuolo (chiù).
IV. SVOLGIMENTO DELL'OPERA
Quadro sintetico
I. “Myricae”
la natura misteriosa e simbolica
analisi di Lavandare (l'aratro
simbolo della solitudine esistenziale)
analisi de // bove (paesaggio
cosmico minaccioso e inquietante)
analisi di X Agosto (la
rondine-padre uccisa e la casa-nido distrutta)
analisi de L'assiuolo (il
grido del chiù presentimento e avvertimento di morte)
IL I «Poemettì» e i «Canti di
Castelvecchio»
il ciclo delle stagioni e il
lavoro agricolo nella Garfagnana
analisi de La siepe (simbolo
ideologico della piccola proprietà)
i fiori e la loro simbologia
sessuale
analisi di Digitale purpurea (l'ambiguità
e il fascino della tentazione giovanile)
analisi di Il gelsomino
notturno (il mistero carnale e miracoloso del generare)
III. I “Poemi Conviviali”, i
miti dell'antichità classica aggiornati e interpretati come moderni
simboli esistenziali
simboli esistenziali
I “Myricae”: una
realtà naturale misteriosa e simbolica
Nella prima raccolta di poesie
1891-1903, col titolo di Myricae, tolto a un verso della quarta
egloga di Virgilio (dove il nome delle umili piante, le tamerici, indicava
argomenti e figure in stile dimesso) incontriamo, secondo quanto avverte la prefazione dello
stesso Pascoli, “frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare
di campane”, dedicati alla memoria del padre morto (“Rimangano rimangano
questi canti su la tomba di mio padre!...”).
Sono brevi orizzonti di campi nel
giro delle stagioni (albe festive, vespri, temporali, sere d'ottobre, notti di
neve), rapide note e colori del paesaggio e della natura romagnola, degli animali
e degli uccelli, momenti e aspetti dei mestieri e della fatica quotidiana
(cucitrici, lavandaie, carrettieri, aratori, mietitori). Tutti questi elementi
vengono tuttavia colti e rappresentati con sensibilità e modi espressivi
nuovi. Non solo nella loro evidenza realistica, attraverso i contorni
netti, visibili delle loro presenze materiali, ma anche nel clima allusivo
e segreto, nel significato simbolico e musicale di una loro diversa, più
profonda e misteriosa realtà.
a) In «Lavandare» l'«aratro»
abbandonato esprime la solitudine
Per misurare la grande distanza
che separa questo originale atteggiamento poetico pascoliano dal
Naturalismo/Verismo, consideriamo in Myricae il madrigale Lavandare (1894)
dove ricorrono impressioni visive e uditive che nonsono più solo realistiche,
ma soprattutto allusive e simboliche.
L'aratro che resta nel
campo, dimenticato tra le nebbie mattinali di novembre dopo
l'aratura, esce dall'ambito realistico di un quadro stagionale, dalle
linee di un paesaggio-roba di tipo verghiano per diventare una figura emblematica,
un segno negativo del vivere. L'aratro senza buoi è il simbolo
di una condizione umana dolorosa e turbata: quella della lavandaia
stornellatrice che mentrerisciacqua e batte i panni (suggestive cadenze
onomatopeiche dello sciabordare e dei tonfi spessi) soffre
interiormente la solitudine e l'abbandono: “quando partisti (un tu sempre
presente al cuore, l'amante, il promesso sposo) come son rimasta! / come
l'aratro in mezzo alla maggese”. Lo stato di solitudine, la situazione
esistenziale dell'abbandono e della dimenticanza - dimenticato l'aratro,dimenticata
forse la donna -, resa con simbolismo visivo dall'aratro immobile,senza
buoi, viene dunque completata e approfondita musicalmente, per
analogia musicale, dalla lunga cantilena popolaresca che parla
di vento, dineve, della partenza tanto tempo fa di una persona cara che
non è ancora tornata.
b) Ne “II bove” un “più
grande mondo” sconvolto e inquietante.
Confrontiamo ancora il famoso
sonetto carducciano Il bove (1872) con l'altro di Pascoli Il bove (1890),
sempre in Myricae. Carducci, con forte senso nostalgico del paesaggio
maremmano e sulla traccia culturale e «georgica» del suo Virgilio (poeta
latino da lui prediletto) sta in ammirazione davanti al «pio bove»; vede la
«possente e placida bestia» (come spiega in una lettera), pura e sacra, nel momento
in cui si erge monumentale in mezzo ai «campi liberi e fecondi»,
oppure quando paziente e “contento” sotto il giogo aiuta l'uomo nel lavoro dei
campi.
Diversa la prospettiva
pascoliana. Non lo sguardo del poeta, non la sua ammirante
contemplazione del “pio bove” (che gli infonde nell'animo un “sentimento
di vigore e di pace”), ma i “grandi occhi” del bove stesso agiscono
in Pascoli come punto di vista nel sonetto. Il mondo d'intorno,
visto con i «grandi occhi» del bue, attraverso la sua ottica macroscopica
che si suppone ingrandisca enormemente le cose, porta Pascoli a sconvolgere
il paesaggio, ad alterarne non solo le proporzioni, le misure (il «rio sottile»,
il piccolo ruscello che si trasforma in azzurro, «cenilo» fiume) ma a
cambiarne, a deformarne lo stesso significato. Il paesaggio cresce come un
pauroso, misterioso incubo, man mano che scendono le ombre della sera. La natura
dilaga e si altera in una apparenza visionaria, nelle dimensioni di un mistero
cosmico quanto mai minaccioso e inquietante; uccelli e nubi assumono al
tramonto strane forme irreali; diventano “immagini grifagne” (figure rapaci)
e «tacite chimere» (mostri mitologici).
Dilatando e scavando in direzione
metafisica, Il bue di Pascoli rispetto a quello
naturalistico e georgico di Carducci rappresenta - con nuovo procedimento
decadente - un'altra realtà inquieta e inconoscibile, un altro
universo, la presenza assillante e misteriosa di “un più grande mondo”.
e) La lirica “X Agosto” e
il simbolo del “nido distrutto”. I più significativi simboli
pascoliani derivano dalla tragica esperienza infantile del poeta, dal
dramma familiare (l'assassinio impunito del padre) che lo ha sconvolto, lo ha
segnato per sempre, destinandolo - anche da adulto, anche da uomo maturo
- ad una dolente, inguaribile angoscia, ad una lunga paura e ad una difesa
continua, allarmata della propria vita nei confronti degli altri uomini.
Abbiamo già citato il simbolo del nido distrutto. Vediamo come la
lirica X Agosto (1896) svolge questo simbolo, radicato nel
sangue e nella memoria.
Scritta nell'anniversario
dell'uccisione del padre avvenuta trent'anni prima (10 agosto 1867), la
poesia segue la leggenda popolare che vede nel fenomeno estivo delle stelle cadenti
le lacrime di San Lorenzo; interpreta e rivive questa leggenda come prova
dell'invincibile presenza e ricorrenza del Male sulla terra (nel calendario
liturgico il martirio del santo cade appunto il 10 agosto). La memoria tenace,
ossessiva di Pascoli dilata il crudele avvenimento privato a dramma universale
del Male onnipresente al mondo, indifferente e sordo alle sofferenze degli
uomini. E inventa una serie di simboli istintivi e dolorosi: la rondine-padre uccisa
mentre tornava alla sua casa-nido; la rondine uccisa, crocifissa,protesa
in terra come in croce, con ancora in bocca Vinsetto-cena per i suoirondinini-figli; la famiglia-nido che
aspetta inutilmente, e si disfa, muoreanch'essa, consunta dalla fame (il nido nell'ombra “che
attende/che pigola sempre più piano”).
d) Sogni e simboli onirici. La
simbologia degli uccelli e ”L'assiuolo”
Tipici materiali e forme poetiche
decadenti, i sogni e i simboli onirici ricorrono nella
breve lirica Carrettiere (sempre in Myricae), col
protagonista, un carrettiere di carbone che sogna la gioia semplice e
favolosa del Natale durante il suo viaggiare notturno tra le gole dei
monti. Anche nel paesaggio astratto, metafisico di Scalpitìo il
«piano deserto, infinito» e
l'incubo prodotto dal galoppo misterioso (che significa morte) sono
elementi di appartenenza onirica, proiezioni nel sogno di uno stato psicologico
d'angoscia. Simboli fonici e onomatopee ricorrono spesso
inMyricae dove Pascoli rifa il verso agli uccelli (un tac tac di
capinere, un tin tin di pettirossi, un rerere di cardellini),
ottenendo risultati poetici folgoranti (“Virò...disse la rondine. E fu
giorno”). La simbologia degli uccelli assume spesso un significato di
morte. Come nelle doppie quartine di novenari de L'assiuolo.
Il brivido di morte che il canto
all'alba dell'assiuolo (un rapace notturno detto anche chiù, portatore di
lutti e disgrazie secondo la credenza popolare) trasmette all'uomo viene
espresso da Pascoli coi mezzi di un simbolismo fonico accorto e sensibilissimo.
Nella lirica L'assiuolo, tutta intonata al richiamo lugubre e
angosciante dell'uccello, chiù, ogni strofa termina col motivo, col
ritornello onomatopeico e significante, col richiamo monosillabico chiùdell'uccello
notturno (“veniva una voce dai campi: /chiù...”; “Sonava lontano il
singulto: chiù...”; “e c'era quel pianto di morte... chiù”) ad
indicare oscuro dolore, a suggerire inconscio turbamento, misterioso
presentimento e avvertimento di morte, pianto di morte per l'uomo.
Gli uccelli notturni, la civetta,
l'assiuolo, con il loro canto luttuoso (la “stridula risata” della
civetta, la voce lontana e il “singulto” del chiù) smuovono nelle zone
dell'inconscio una presenza di morte, un senso mortale di angoscia che
invade e turba la vita. La simbologia degli uccelli notturni pascoliani
ridesta nel subcosciente dell'uomo stati psicologici di turbamento e
indistinta paura, brividi misteriosi e profondi di morte.
II. I “Poemetti” e i “Canti di
Castelvecchio”: un più vasto disegno
Le brevi, folgoranti liriche di Myricae diventano
i lunghi
racconti in versi nei Primi
poemetti (1897-1904) dei Nuovi poemetti (1909) e dei Canti
di Castelvecchio (1903-1907-1912). 1 temi della campagna, raggnippati in
altrettante sezioni intitolate al lavoro della terra, La sementa,
L'accestire (erbe e piante che crescono), La mietitura, La vendemmia raccontano
poeticamente le vicende stagionali e agresti della Garfagnana di
Castelvecchio in Toscana (dove Pascoli possedeva una casa). Le descrizioni
procedono larghe, ricche di particolari, con una conoscenza precisa,
addirittura tecnica dei lavori agricoli, con vocaboli riferiti spesso
direttamente dal linguaggio vernacolo della gente garfagnina.
a) II mondo agreste e salvifico
della «piccola proprietà» ne «La siepe».
Tuttavia anche l'ambiente rurale
e la storia reale-allegorica del nascere, del fiorire dell'amore di Rosa e di Rigo
e del formarsi della loro famiglia finiscono idealizzati e trasfigurati.
Anche i gesti contadini, le abitudini quotidiane e le pratiche stagionali
della gente dei campi diventano momenti e simboli di un rito esistenziale,
rappresentano una vita esemplare, vista e considerata come modello da
vivere a contatto con la natura buona che consola e protegge.
Significative, indizianti, sotto
questo profilo, nei Primi Poemetti, le terzine de La siepe, che
vengono lette oggi in chiave sociologica, allegorico-sociologica come il manifesto
del Pascoli borghese e piccolo proprietario terriero. La «siepe,
utile e pia» cinge «il campetto» come «l'anello al dito»; è sacra e
indissolubile come il vincolo, la fede matrimoniale. Per essa, difeso dalla
sua recinzione (“non mai abbastanza tenace e folta e spinosa”, afferma
Pascoli in un articolo dove esalta il sentimento agricolo della terra), il poeta-proprietario può
vivere “libero e sovrano”. La sieperappresenta dunque il simbolo, questa
volta ideologico oltre che esistenziale, della proprietà privata che
garantisce e difende la vita e i beni del poeta contro la vastità estranea
e nemica del mondo.
b) «Digitale purpurea», «II
gelsomino notturno» e i loro simboli sessuali.
Le linea di tendenza simbolistica
di Pascoli non si smentisce. E proprio nei Primi Poemetti e nei Canti
di Castel-vecchio risaltano esempi efficaci del simbolismo pascolia-no da
collocare nell'area dell'inconscio, nelle zone torbide degli istinti,
delle paure e dei sentimenti bloccati. Abbiamo visto in Myricae il
messaggio di morte che trasmettono gli uccelli notturni. E dopo L'assiuolo, ritroviamo Ilchiù nei Nuovi
poemetti dove ritorna a indicare (col suo “dolce/mesto verbo eternamente
uguale”) la solitudine, la paura di Viola per sua sorella che, sposandosi,
è andata incontro «a chi sa qual martirio». Ebbene, come gli uccelli
specie quelli notturni, anche le immagini dei fiori e la natura campestre
sono usate da Pascoli per comunicare col mondo inquietante oltre la realtà
visibile.Al simbolismo floreale pascoliano appartengono Digitale purpurea (nei Primi
poemetti) e // gelsomino notturno (ne / Canti di
Castelvecchio), due liriche visionarie e ipnoti-che, simbolistiche e
decadenti che portano nel titolo due nomi di fiori.
Nella trama di Digitale
purpurea s'incontrano due antiche compagne di collegio, due educande: la
bionda, virtuosa Maria (la sorella stessa del poeta, “semplice di vesti e
di sguardi”) e la meno virtuosa Rachele, bruna, dagli occhi che
«ardono». Nel loro dialogo ricordano la digitale purpurea, il «fiore
di morte» dal profumo affascinante e venefico che un giorno lontano ha turbato
la loro adolescenza. Mentre Maria ha resistito alla morbosa suggestione
del fiore proibito (a forma di dita, come una mano umana “macchiata
di sangue”), Rachele ha invece ceduto alla tentazione. Il fondo erotico
del poemetto nel suo simbolismo floreale indica la repulsione-attrazione
giovanile del piacere, allude all'ambiguità e al fascino della tentazione. La
sessualità introversa e morbosa diDigitale purpurea, nella sua insinuante
dolcezza (“E dirmi sentia: vieni!/Vie-ni/E fu molta la dolcezza! moltal/tanta,
che, vedi.../... si muore!”) significa anche misteriosa attrattiva e
desolazione della morte, secondo il gusto decadente che identifica amore
e morte, piacere e morte, Eros e Thanatos (per dirlo in termini freudiani).
Un altro fiore, il gelsomino
di Spagna, la cosiddetta “bella di notte” che apre i suoi petali le sere
d'estate e li chiude all'alba, esprime simbolicamente con simbologia
floreale ne Il gelsomino notturno un momento autobiografico
disessualità pascoliana dolcemente ambigua e sofferta. La lirica viene
scritta per l'occasione del matrimonio di un caro amico, come risulta da
una nota dello stesso Pascoli: “E a me pensi Gabriele Briganti risentendo
l'odor del fiore che olezza nell'ombra e nel silenzio: l'odore del gelsomino
notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino...: voglio dire, gli
nacque il suo Dante Gabriele Giovanni”(nacque, nel senso di: fu concepito/
Ne Il gelsomino
notturno due vicende parallele occupano l'arco di tempo che va dalla
sera all'alba. Quella dei giovani sposi che nella casa accogliente e
silenziosa vivono la loro prima notte di nozze. E quella del poeta che dal
difuori (“ape tardiva” che trova “già prese le celle”), come un escluso,
un uomo senza donna, privo d'amore (votato autobiograficamente
Pascoli ad una condizione perpetua di celibato «forzatamente casta e
orribilmente mesta»), inparte vede la notte nuziale che si prepara (“Splende un
lume là nella sala”; “Passa il lume su per la scala;/brilla al primo
piano: s'è spento...”) e in parte indovina il mistero carnale e miracoloso del
generare (che sta avvenendo), con trasalimenti di infantile, regredita
curiosità. Fino a quando, all'alba, “si chiudono i petali un poco
gualciti” a significare l'atto amoroso ormai consumato, con concepimento
nuziale di un'altra creatura umana (“l'urna molle e segreta” indica appunto il
seno materno che «cova», cioè prepara, matura la sperata felicità di un
nuovo essere).
Con Digitale purpurea e Il gelsomino
notturno Pascoli evoca zone altrimenti indecifrabili del mistero,
scende nel l'oscurità del subcosciente dove la creatura umana, Rachele in Digitale
purpurea, il poeta stesso nel Gelsominonotturno, subiscono
esperienze psichiche traumatizzanti e shock esistenziali.
III. Nei “Poemi Conviviali” i
miti ripensati come simboli esistenziali.
La tendenza a svolgimenti
poetico-narrativi di vasta portata prosegue neiPoemi conviviali, 1904
(così detti dalla rivista dell'estetismo romano «II Convito» in cui apparvero
dapprima), con l'elaborazione pascoliana di miti, di leggende classiche e
dei primi tempi cristiani. I personaggi dell'antichità pagana, Saffo, Achille,
Ulisse, Omero, Esiodo, Alessandro Magno, vengono ripensati alla luce di
un'umanità moderna, simbolica e precristiana, diventano creature che sentono la vanità
della loro vita proprio mentre questa raggiunge il culmine.
Giunto con le sue conquiste ai
limiti della terra, Alexan-dros si trova di fronte l'Oceano, deserto immenso
che rappresenta l'ansia perenne, la suggestione del mistero tuttora insoddisfatto
dopo tanti avventurosi traguardi. L'ultimo viaggio reinterpreta il
mito di Ulisse in chiave di decadentismo esistenziale, con Circe, le Sirene,
che raffigurano le vane lusinghe dei sensi e il naufragio all'isola di Calipso
(la Nasconditrice) che esprime il tramonto di ogni illusione.
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