GIACOMO LEOPARDI
La sera del dì di festa
con Laforgue che imita
con Laforgue che imita
Leopardi è un autore talmente ben occultato da star sotto
agli occhi di tutti. Nella manualistica scolastica così come negli scaffali
delle librerie familiari. Decenni di diffusione edulcorata nella scuola e di
preoccupati smussamenti cattolici e moderati – che a partire da Tommaseo e
Manzoni addebitarono la sua riflessione pessimistica al petto a piccione e alla
gobba – hanno “silenziato” quel tris che la Musa gli aveva messo fra le mani
come splendido gioco di scrittura. E che Giordani riconobbe al volo: «Sommo
filologo, sommo poeta, sommo filosofo». Certamente è vero che Leopardi con
Timpanaro e Severino è stato posto dentro una cornice filosofica con esiti
saggistici fondamentali, ma questi contributi non raggiungono i giovani
studenti e i lettori. Credo che il MANUALE TELLUS possa ovviare in parte a
questa impotenza (non proponendo sunti di letture critiche che esulano dalla
sua missione divulgativa) diffondendo fra studenti e lettori le poesie
leopardiane che sono diventate una specie di brivido ri-scritto da simbolisti e
poeti come Jules Laforgue e Pessoa.
Prendiamo la poesia “La sera del dì di festa”. Compare nei
Canti. Il poeta la compose nel 1820. Gli studiosi delle sue carte non sono
riusciti a scoprire se la scrisse con i peschi in fiore o con le prime foglie
autunnali verso il suolo. La poesia, questo è certo, fu pubblicata con altri
idilli (Come l’ “Infinito”, “Alla luna”, “Il sogno”, “La vita solitaria”, il
“Frammento XXXVII”) nel 1825 col titolo “La sera del giorno festivo”. Poi col
titolo e forma definitiva nella seconda edizione dei Canti. Ed era il 1835.
L'edizione da me proposta è quella einaudiana nella NUE, Giacomo Lepardi,
Canti, commento di Cesare Garboli, e nel 2005 riproposta dal quotidiano La
Repubblica nella collana “Magnifica”.
LA SERA DEL DÌ DI FESTA
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceàno?
Tutto è pace e silenzio e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.
Prima di trattare della ri-scrittura che il poeta simbolista
francese Jules Laforgue fece di questa poesia operiamo una necessaria traccia didascalica.
Leopardi accosta in
un calco di a-temporalità dell’io poetico l’angoscia di quand’era adolescente dopo
il giorno di festa con quella vissuta da adulto; angosce che si addipanano nel
filo della continuità tra delusione e spasmo. Però questo intreccio temporale
rileva anche una differenza ancor più negativa rispetto all’oggi: la
sofferenza-delusione dell’adolescente era affidata all’istinto nutrito di
inconsapevolezza, quella dell’uomo-poeta è argomentata nel consegnarsi alla
con-sapevolezza che miseria e caducità orbitano sopra le cose umane.
Jules Laforgue (1860-1887) una delle voci più significative
del simbolismo di lingua francese ri-scrisse la poesia leopardiana –
testimoniando così la penetrazione del recanatese in area europea, (che nessun
manuale scolastico ricorda) – nella breve raccolta Le sanglot de la terre (1811
ma pubblicata postuma assieme ad altre poesie) spingendo ancor più in avanti
l’esistenzialismo di questi versi.
SOIR DE CARNEVAL
Paris chahute au gaz. L’horloge comme un glas
Sonne une heure. Chantez ! dansez! la vie est brève,
Tout est
vain, - et, là-haut, voyez, la Lune rêve
Aussi
froide qu’aux temps où l’Homme n’était pas.
Ah ! quel destin banal! Tout miroite et puis passe,
Nous leurrant d’infini par le Vrai, par l’Amour;
Et nous
irons ainsi, jusqu’à ce qu’à son tour
La terre crève aux cieux, sans laisser nulle trace.
Où
réveiller l’écho de tous ces cris, ces pleurs,
Ces
fanfares d’orgueil que l’Histoire nous nomme,
Babylone,
Menphis, Bénares, Thèbes, Rome,
Ruines où
le vent sème aujourd’hui des fleurs?
Et moi,
combien de jours me reste-t-il à vivre?
Et je me
jette à terre, et je crie et frémis
Devant les
siècles d’or pour jamais endormis
Dans le Néant sans cœur dont nul dieu ne délivre!
Et voici que j’entends, dans la paix de la nuit,
Un pas sonore, un chant mélancolique et bête
D’ouvrier ivre-mort qui revient de la fête
Et regagne
au hasard quelque ignoble réduit.
Oh ! la vie
est trop triste, incurablement triste!
Aux fêtes
d’ici-bas j’ai toujours sangloté:
«Vanité,
vanité, tout n’est que vanité!»
–Puis je
songeais: où sont les cendres du Psalmiste?
SERA DI CARNEVALE
Parigi impazza al lucore del gas. Simile a una campana a
morto
Rintocca un’ora. Cantate! Folleggiate! La vita è corta,
Tutto è inutile, - e aguzzate gli occhi, lassù, la Luna
sogna
Scostante come ai tempi in cui l’uomo non c’era in giro.
Ah! Che destino banale! Tutto brilla e poi svanisce,
Adescandoci d’infinito con il Vero e l’Amore maiuscoli;
E così andremo, finché madre terra
Esploderà come altri pianeti senza lasciare segno.
E al sottoscritto quanti giorni restano da vivere?
Mi butto per terra, grido, rabbrividisco.
Davanti ai secoli ritenuti d’oro per sempre sonnacchiosi
Nel Nulla senza cuore dal quale non c’è un Dio che ci salvi.
Ed ecco che nella notturna quiete ascolto
Un trepestio sonoro, un sempliciotto canto melanconico
D’un operaio di ritorno dalla festa che cerca ubriaco
Qualche derelitto cantuccio.
Oh! la vita è troppo triste, incurabilmente triste!
Nelle feste comandate e terrene ho sempre singhiozzato!
«Vanità, vanità, tutto è vanità!»
–E poi pensavo tra me: dove saranno finite le ceneri
del cantore dei salmi?
(Traduzione di Claudio Di Scalzo)
La poesia di Leopardi, e la ri-scrittura di Laforgue, sono
versi abitati da corpi. Ho parlato di esistenzialismo a proposito di questi
versi e il mio rimando va a L’Essere e il Nulla di Sartre. infatti la voce che
parla nella sera del dì di festa scopre che può trascendere la situazione
reale, il mondo, affidandosi all’immaginazione, la donna pensata dormiente
quieta nelle sue stanze, ma questo sforzo di libertà oltre l’esperienza reale
conduce il soggetto che ne fa uso, Leopardi e ogni lettore che in esso si
identifichi, ad una opacità vischiosa e assurda del presente. Di fatto alla
nausea, a sentirsi esclusi perché “di troppo” rispetto alla vita. Conoscere il
pavimento, l’urlo, sulle mattonelle fredde, il fremito ne è diretta
conseguenza. Sarà poi la voce di Laforgue a dirci che nella metropoli parigina
la coscienza coincide con il Nulla, un nulla che non deriva dal mondo
circostante se non per abbagli, è l’uomo che lo porta in se stesso. Il
solitario a Recanati, il solitario irridente nella via parigina, dimostrano con
Sartre che «l’esistenza precede l’essenza». L’uomo inventa se stesso con
l’esistere, non è definito da nessuna essenza o Dio prestabilito, è, soltanto
quanto diventa, ciò che sceglie di essere. Libertà di coscienza totale. Libertà
che però impone di proiettarsi nel nulla della notte festiva, nel riconoscere
la volatilità del tempo: e l’angoscia che ne turba la scansione. Non è
tranquillizzante Leopardi. La sua è una riflessione imperniata sul singolo.
Laforgue nella “Sera di carnevale” sa come ogni mito ci
adeschi, sia esso l’Amore o l’Ideologia, o la Norma. Il Nulla che abbiamo nel
cuore, nell’essere, non può togliercelo alcun dio. Possiamo soltanto illuderci
– e anche Leopardi parlerà di Illusioni (che tanti progressisti hanno voluto
vedere come un programma positivo di riscatto) – e innalzare valori che
inevitabilmente l’esperienza scoprirà come convenzionali e inutili. Addirittura
gli imperi che avevano inventato massicce mitologie e eserciti sono stati
inghiottiti con corpi-pensieri-mura dal tempo. Ma il pavimento che conosce
l’orma del corpo fremente angoscia rivela al soggetto la nuda realtà, la
gratuità delle cose, il loro non senso, e insieme la scelta per affrontare il
fondamento della propria libertà nel Nulla che abita la coscienza. E magari
sorridere mestamente anche dei salmi, di chi ne cantò l’eccezionalità, mentre
svelavano con l’Ecclesiaste la vanità del tutto. E qui Laforgue riprende
un’altra poesia di Leopardi: “A se stesso”. Dal celebre verso finale: «E
l’infinita vanità del tutto».
Fondamentale per aprire un’impronta interpretativa in
Leopardi è la questione dello sguardo e del guardare in rapporto all’amore; in
Laforgue manca questo tratto esistenzialistico. Il corpo nella sera festiva
viene scoperto come una cosa abbandonata fra le cose: i mobili della stanza, la
lampada accesa e poi spenta, le coperte. Ma il corpo secondo Sartre ha anche
un’altra possibilità: quella di essere conosciuto con lo sguardo come “corpo
vissuto”. Guardare e essere guardati. Affidarsi alla corporeità altrui. La
ragazza a Recanati si è affidata a questa scoperta e gioco. Leopardi ha
rinunciato anche a ciò. La riconoscibilità è negata. In “A Silvia” questo
tratto del “guardare” è ancora più esplicito. «Non ti molceva il core/ La dolce
lode or delle nere chiome,/ or degli sguardi innamorati e schivi;/ né teco le
compagne ai dì festivi/ ragionavan d’amore». Ma ogni sguardo rende cosa fra le
cose. Anche i corpi. Anche l’amore che possono emanare. Leopardi chiuso in casa
senza andare alla festa paradossalmente si salva da un altro annichilimento, da
una nuova limitazione alla sua libertà. Cosa che invece non fa l’operaio che
torna ubriaco a casa. «Esisto per me come conosciuto da altri a titolo di
corpo» (Sartre). La “vergogna” di Leopardi a girare per Recanati viene prodotta
dallo sguardo altrui che riduce la persona a corpo-cosa e a conti fatti ad
essenza dei rapporti interpersonali. Dunque anche l’amore non riscatta
l’assurdità di vivere. L’amore non apre all’altro o all’altra perché il
tentativo di “farsi amare” dal partner è il mascheramento del tentativo di
asservire la libertà altrui. Il protagonista de “La sera del dì di festa” è
pertanto in salvo. (CDS 1999)
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