sabato 25 aprile 2015

Lavoro e cultura nel ‘900 italiano 3 (Il ’68, cinema sul lavoro) – A cura di Claudio Di Scalzo


Lavoro e cultura nel ‘900 italiano 3 
(Il ’68, cinema sul lavoro) 
a cura di Claudio Di Scalzo


LE LOTTE OPERAIE: 1968-73. Le origini dell’ ”autunno caldo” del 1969. Gli studenti italiani si erano dunque dati il compito di “andare verso il popolo” per realizzare un profondo mutamento sociale; questa loro scelta in effetti poggiava su basi più solide di quelle, dello stesso tenore, compiute da altri movimenti e gruppi di avanguardia in vari momenti della storia nazionale  o europea. Già precedentemente nel 1962 una nuova fase di tensioni e radicalismo aveva toccato le fabbriche settentrionali e dato origine ai disordini di Piazza Statuto a Torino . Le condizioni che stavano alla base di questi avvenimenti- rigidità del mercato del lavoro settentrionale, alienazione degli operai comuni, rabbia degli immigrati meridionali- non erano scomparse negli anni tra il 1962 e il 1968; c'erano stati cambiamenti significativi, ma erano serviti ad aumentare piuttosto che ad attenuare il conflitto di classe.
In primo luogo, non si era arrestata l’emigrazione dal Sud verso il Centro-Nord. Gli anni 1965-66 avevano fatto registrare un marcato declino del fenomeno, ma nel 1967 il saldo migratorio del meridione verso il centro e il settentrione aveva superato di nuovo le 120000 unità all’anno e non scese al di sotto delle 100000 fino al 1974. Questo massiccio nuovo esodo rinnovò la pressione sulle strutture delle principali città e rese molto più difficile il processo di integrazione: gli immigrati del periodo 1958-63 avevano appena trovato una decente sistemazione, e già una nuova ondata si riversava entro le decrepite aree dei centri cittadini come corso Garibaldi a Milano o via Garibaldi a Torino. Questa seconda ondata di immigrati si differenziava in parte dalla prima , in quanto un numero rilevante di essi oltre a provenire dalle are rurali più misere del Meridione, proveniva anche dalle aree più sviluppate del Mezzogiorno, da aggiungersi ad una piccola minoranza di operai che giunse a Torino dalla Germania, dal Belgio, dalla Francia, richiamati dai nuovi posti di lavoro alla Fiat. Nonostante la ripresa economica successiva al 1966, non si crearono sufficienti posti di lavoro per soddisfare le aspettative di tutti i nuovi immigranti. Il mercato del lavoro, tuttavia, era profondamente frammentato, e quindi c’era ancora una certa carenza di quel tipo di lavoratori che le principali aziende stavano cercando nel 1967-68. La Fiat, la Pirelli e altre fabbriche avevano bisogno di manodopera maschile oltre i 21 anni, con un diploma di scuola  e una minima esperienza delle condizioni di vita cittadina. L’offerta di una simile forza-lavoro dalla provincia lombarda e piemontese si stava ormai prosciugando, e aziende come la Fiat assunsero, per la prima volta, un gran numero di lavoratori, provenienti dal meridione; la priorità, comunque, andava a quelli che ritornavano dal nord Europa e a chi proveniva dalle città o dalle aree industriali del Sud. Un altro fatto che riguarda la forza-lavoro e il mercato del lavoro merita di essere ricordato. L’aumento delle opportunità nel campo dell’istruzione durante gli anni ’60 aveva avuto  un duplice effetto: da una parte aveva tenuto fuori dalle fabbriche un crescente numero di giovani, accentuando così la rigidità dell’offerta in questo segmento del mercato; dall’altra aveva fatto sì che coloro che entravano in fabbrica portassero con sé una migliore base di cultura generale e una maggiore consapevolezza rispetto alle precedenti generazioni.
All’interno delle fabbriche, nel frattempo, molte cose erano mutate. La grande ristrutturazione, seguita alla crisi del 1964-65, aveva portato una maggiore meccanizzazione e a un crescente aumento dei ritmi del lavoro. La diffusione del cottimo aveva creato tra gli operai ulteriori differenze: i capisquadra avevano adesso un maggiore potere nel distribuire favori e tipi di lavoro; si era anche intensificata la sorveglianza della direzione aziendale sui dipendenti. Per finire, non vi è alcun dubbio che negli anni ’60 si aprì un profondo divario tra le organizzazioni sindacali di base, così come erano, e la massa degli operai comuni. Alla Borletti di Milano la commissione interna era composta prevalentemente da operai qualificati maschi, molto dei quali erano in fabbrica fin dal1945. La maggioranza dei salariati, al contrario, era formata da giovani donne non specializzate, le cui lamentele sui ritmi di lavoro, sui capi-squadra e sul cottimo trovavo scarsa eco dentro la commissione interna. Nel 1968-66 gli operai comuni, non avendo una rappresentanza adeguata, risposero prendendo nelle loro mani la difesa dei propri interessi.

LE LOTTE OPERAIE E I GRUPPI "RIVOLUZIONARI", 1968-'69
Le principali battaglie operaie del 1968 non si verificarono nelle principali fabbriche, ma in aree periferiche, sia in senso geografico, sia a livello di produzione, e soprattutto nelle fabbriche dove i sindacati erano tradizionalmente deboli. La più drammatica di queste prime lotte ebbe luogo nell’azienda tessile Marzotto a Valdagno, nelle colline venete. La fabbrica esisteva dal 1836 e la famiglia Marzotto l’aveva sempre diretta con criteri internalistici di stampo cattolico; e a questa lunga tradizione cominciò ad affiancarsi, nel corso degli anni ’60, una profonda ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro. Come avvenne in tante altre fabbriche, i ritmi di lavoro crebbero dopo l’introduzione dell’analisi tempi e metodi, i premi del cottimo divennero meno accessibili, i salari reali diminuirono e l’amministrazione minacciò circa 400 licenziamenti. I sindacati non erano mai stati forti alla Marzotto, e gli operai risposero al peggioramento delle loro condizioni con azioni spontanee di protesta. Una notte, nell’aprile 1968, gli uffici dove erano situati tutti gli elenchi dei ritmi furono invasi, e gli elenchi distrutti. Il 19 aprile 1968, una manifestazione con ben 4000 dimostranti, tra cui un’alta percentuale di donne, marciò attraverso la città, e nella piazza principale venne tirata giù la statua del conte Gaetano Marzotto, fondatore della dinastia tessile. La polizia rispose con 42 arresti. Fu significativo che nella reazione rabbiosa che seguì, il consiglio comunale, a maggioranza democristiana, si schierò dalla parte dei lavoratori, richiedendo il rilascio degli arrestati e l’intervento del governo per ristabilire l’ordine pubblico. Valdagno fu un caso isolato , ma indicativo di un nuovo spirito che si stava estendendo nella primavera del ’68 nelle fabbriche del Nord e del Centro. A marzo i sindacati avevano dichiarato uno sciopero generale in appoggio alla richiesta di pensioni più elevate. La risposta superò ogni attesa: solo a Milano aderirono 300 mila metalmeccanici e un rilevante numero di impiegati. Di giorno in giorno gli avvenimenti interni e quelli internazionali servirono ad accentuare la fiducia degli operai in se stessi. La lotta degli universitari parigini e il grande sciopero generale dl maggio 1968 in Francia, con la sua fugace dimostrazione di potere operaio, suscitarono una profonda impressione in Italia. Per quanto l’opinione della classe operaia fosse divisa, i giovani operai soprattutto guardavano con simpatia all’ antiautoritarismo degli studenti. Dall’estate del1968 in avanti lo stesso movimento studentesco conobbe una profonda trasformazione. Nel momento in cui gli studenti abbandonarono le università e cominciarono a picchettare i cancelli delle fabbriche, il movimento perse il suo carattere spontaneo e libertario. Si cercava, adesso, di porre le basi per un nuovo partito rivoluzionario che potesse strappare al Pci il consenso della classe operaia; anche in questo caso gli avvenimenti francesi ebbero una notevole influenza. Molti militanti italiani dell’estrema sinistra videro negli avvenimenti francesi di fine maggio l’inizio di una rivoluzione, subito fallita comunque per mancanza di coordinamento e di una strategia politica che non fosse quella, ultraprudente del Partito comunista francese. I rivoluzionari italiani non volevano compiere o stesso errore, e sottolinearono la necessità di una maggiore organizzazione, il bisogno di ideologia, disciplina e strategia rivoluzionarie. Nell’autunno del 1968 nacque così la Nuova Sinistra italiana. Il leninismo divenne il modello di organizzazione dominante per quasi tutti i nuovi gruppi, e le discordie che avevano caratterizzato cinquant’anni di comunismo internazionale vennero adesso riproposte in Italia in scala ridotta. Un impressionante numero di gruppi rivoluzionari vide la luce in questi mesi. C’erano i maoisti di Servire il Popolo, i quali si distinguevano per la loro attenzione verso i contadini, la loro dedizione fanatica e la grandissima disciplina; Avanguardia Operaia, localizzata inizialmente a Milano, un’organizzazione leninista ortodossa; il Movimento studentesco, dalla sua roccaforte nell’Università statale di Milano, teorizzava il ruolo decisivo degli studenti; Lotta continua, libertaria, irriverente e caotica, il gruppo più innovatore; Potere Operaio, che raccoglieva la maggior parte delle adesioni a Torino e a orto Marghera, convinto della propria superiorità e dell’importanza primaria di un’avanguardia esterna di tipo leninista; infine il Manifesto, un gruppo fondato da alcuni intellettuali non più giovanissimi che avevano rotto da sinistra con il partito comunista e che avrebbero più tardi fondato un quotidiano, dal medesimo titolo, che esce tutt’ ora.
Tra l’autunno del 1968 e quello del 1969 i gruppi vissero il loro momento magico quando un numero considerevole di operai fu attratto dalle loro idee. In questi mesi, nelle principali fabbriche dl settentrione, i sindacati furono frequentemente scavalcati dall’iniziativa dei comitati di base, formatasi spontaneamente o grazie all’attivismo dei gruppi. Le strutture e le strategie che avevano guidato per oltre vent’anni le lotte della classe lavoratrice sembravano andare in pezzi. In questo che fu l’anno più sovversivo nella recente storia del movimento operaio italiano, le iniziative di lotta provenivano più dagli più dagli operai specializzati che non da quelli comuni, in quanto  i primi avevano già avuto esperienza nell’organizzare scioperi ed erano più disposti a rischiare. Una volta iniziata l’agitazione all’interno della fabbrica, ben presto la direzione strategica passava agli operai non specializzati e ai semispecializzati. Il modello delle agitazioni che avrebbero avuto luogo nei mesi seguenti fu quello della Pirelli di Milano, dove erano appena assunti 2000 nuovi operai. Il contratto nazionale dei lavoratori della gomma era scaduto il 31dicembre 1967. I sindacati di fabbrica, dopo aver proclamato tre giorni di sciopero in appoggio alla piattaforma rivendicativa, nel febbraio 1968 accettarono aumenti salariali molto modesti lasciando praticamente cadere la richiesta di migliori condizioni di lavoro. Il risultato fu che nel giugno 1969 un gruppo di operai e impiegati della Pirelli, assieme ad alcuni membri di Avanguardia Operaia, organizzarono il Comitato unitario di base (Cub) per continuare la lotta a livello di fabbrica. L’adesione al Cub superò largamente le speranze degli organizzatori ed operai comuni riempirono in gran numero le sue assemblee, mentre i sindacati e il Pci erano denunciati per la loro esagerata tendenza al compromesso. Dopo parecchi mesi di aspra lotta, gli operai della fabbrica ottennero una significativa vittoria. Il Cub divenne un modello per altri comitati di base e i gruppi rivoluzionari di Milano cominciarono a parlare di instaurare un potere alternativo in cui i Cub sarebbero stati "“l'embrione" dei consigli operai rivoluzionari. Dalle esperienze di lotta alla Pirelli e in altre fabbriche emerse una serie di richieste operaie che puntavano a trasformare i rapporti tra capitale e lavoro in Italia. Lo spettro degli obiettivi proposti che ci si proponeva era assai vasto, e andava dal miglioramento delle condizioni di lavoro- ad esempio, la fine del cottimo e l’abbassamento dei ritmi di produzione- fino a questioni assai più generali. Gli operai insistevano perché venissero ridotte le differenze salariali esistenti tra operai e impiegati e all’interno della stessa classe operaia. Una delle richieste più frequenti riguardava gli operai comuni, per i quali si richiedeva il passaggio automatico a un a categoria superiore dopo un certo numero di anni. I comitati di base insistevano perché gli operai non accettassero un salario più alto in cambio di lavori pericolosi o nocivi perla salute, ma lottassero piuttosto per controllare le condizioni di lavoro e le norme di sicurezza nelle fabbriche. Essi chiedevano anche l’abolizione delle “gabbie” salariali, vale a dire il diverso trattamento economico erogato per lo stesso lavoro a seconda delle zone del Paese. Un operaio specializzato che lavorasse nel Sud avrebbe dovuto percepire lo stesso salario di uno del Nord. Dopo una serie di scioperi attorno a questa rivendicazione nelle provincie di Latina e Taranto, la solidarietà mostrata dagli operai settentrionali (molti dei quali erano di origine meridionale) fu così dilagante che la dirigenza sindacale fu costretta a fare propria quella richiesta. Su questo tema ebbe luogo nel 1969 una campagna nazionale di lotta che riuscì vittoriosa. La richiesta più sovversiva riguardava la rottura del legame tra aumenti salariali e aumento della produttività. I salari, per usare una fraseologia dell’epoca, dovevano diventare una ”variabile indipendente”, non determinata dai profitti dell’impresa  o dalla situazione economica. L’obiettivo dei Cub era di ottenere maggior salario per minor lavoro, e diminuire così lo sfruttamento. Per raggiungere questi fini gli operai fecero ricorso a nuove forme di coordinamento e di lotta. Come per gli studenti, anche per gli operai l’assemblea divenne il momento più importante per prendere decisioni: essi erano incoraggiati a parteciparvi per non lasciare ai dirigenti sindacali il compito  di come condurre la lotta. Anche i criteri di organizzazione degli scioperi cambiarono: la tradizione di sospendere le agitazioni durante le trattative tra sindacati e direzione venne infranta, e il lavoro venne spesso interrotto anche contro la volontà degli stessi rappresentanti sindacali. Si moltiplicarono gli scioperi a gatto selvaggio, che prendevano forme sempre più nuove e che provocavano il massimo disturbo ai padroni con il minimo costo per gli operai. Lo sciopero a singhiozzo coinvolgeva un’intera fabbrica alternando brevi periodi  di lavoro ed altri di sciopero; lo sciopero a scacchiera significava che differenti settori della fabbrica, a volte perfino singoli operai, scioperavano per brevi periodi in momenti differenti, così che in ogni istante ci fosse qualche reparto che lavorava ed altri no. Si poneva sempre molta enfasi sul decentramento dello sciopero e sulla necessità che fossero gli operai a prendere le decisioni e a coordinare le azioni di lotta. Ciò che aveva reso possibile questa situazione era una nuova solidarietà, a livello di reparto, che confondeva profondamente la direzione. In molte fabbriche i capi-squadra non erano più in grado di esercitare alcuna autorità, ed anzi gli operai in lotta richiedevano che i più autoritari di essi venissero rimossi dall’incarico; spesso capetti e dirigenti di basso rango erano minacciati di violenza fisica, e talvolta venivano picchiati fuori dalla fabbrica da gruppi di operai ( i cosidetti “pestaggi di massa”). Il picchettaggio di massa fuori dai cancelli, spesso compiuto con l’aiuto degli studenti, fu infine sostituito durante il 1969, e specialmente nel 1970, da manifestazioni all’interno delle stesse fabbriche. Un gruppo di operai incrociava le braccia, e invece di uscire fuori dalla fabbrica rimaneva all'interno per organizzarsi; altri gruppi si aggiungevano rapidamente e in pochi minuti tutto il lavoro era bloccato. Si formava quindi un corteo, con gli operai che utilizzavano vecchi fusti di benzina come improvvisati tamburi, mentre gli slogan echeggiavano attraverso tutta la fabbrica facendo giungere il rumore della manifestazione fin nelle stanze degli amministratori delegati. Talvolta questi ultimi riuscivano a defilarsi in tempo, altrimenti rimanevano temporaneamente bloccati e costretti a subire un comizio da parte operaia. Il culmine di queste iniziative spontanee si ebbe, come spesso nella storia operaia italiana, alla Fiat di Torino, nell’estate del 1969. A maggio e giugno giovani operai, prevalentemente meridionali, “ selvaggi e incazzati” , come li descrisse “Lotta continua”, guidarono una serie di scioperi alla Fiat Mirafiori per ottenere migliori condizioni di lavoro. L’azione era coordinata da una assemblea di studenti e operai che si ritrovavano, alla fine dei turni, in un’aula della Facoltà di Medicina. All’inizio di luglio i sindacati nazionali proclamarono un giorno di sciopero generale contro il caro-affitti. L’assemblea studenti-operai non si impressionò: “Secondo questi signori la lotta di classe si fa solo certi giorni dell’anno, come le feste comandate, e solo loro a decidere quando. M noi non aspettiamo il permesso di nessuno”. Il pomeriggio del 3 luglio 1969, giorno in cui era stato indetto lo sciopero generale, una dimostrazione autonoma di parecchie migliaia di operai della Fiat Mirafiori e di altre fabbriche torinesi prese il via dai cancelli di Mirafiori. Lo slogan sindacale ufficiale per lo sciopero era “blocco degli affitti”.I dimostranti che si lasciarono alle spalle Mirafiori, scandirono invece un loro proprio slogan, divenuto poi famoso, che suonò profondamente minaccioso alle orecchie della classe dirigente: ”Che cosa vogliamo? Tutto!” Il corteo fu ben presto attaccato dalla polizia innescando una serie di scontri che ridestarono in molti il ricordo dei fatti di piazza Statuto di sette anni prima; le strade si trasformarono in tanti piccoli campi di battaglia fino a notte inoltrata, mentre in corso Traiano venivano erette barricate. Alla “battaglia di Corso Traiano”, come poi fu chiamata, seguì un’assemblea di massa alla Fiat e in altre fabbriche torinesi, che coinvolse parecchie migliaia di studenti e operai. La tensione a Torino era molto alta e, diversamente da quanto era avvenuto a Parigi un anno prima, sembrava che si stesse formando una vera alleanza, su base rivoluzionaria, tra giovani operai e studenti. Per Guido Viale, leader di Lotta continua, la battaglia alla Fiat rappresentò “qualcosa di profondamente diverso e più maturo rispetto a tutte le esperienze che si erano finora verificate in Europa”. Era iniziato un processo rivoluzionario, e i gruppi erano convinti che l’autunno del 1969 l’avrebbe visto espandersi rapidamente.

SINDACATI E “L’AUTUNNO CALDO”, 1969-71
Lo sviluppo reale del famoso autunno caldo” risultò alquanto diverso da quello che i gruppi si aspettavano. “Lotta continua” parlava, a novembre di una “rivoluzione culturale” che stava avendo luogo in Italia allo stesso modo che in Cina: ” Gli operai lentamente si emancipano. Distruggono in fabbrica l’autorità costituita, smantellano gli strumenti che i padroni usano per dividerli e controllarli, si liberano dai tabù che finora li hanno tenuti schiavi”. I gruppi però, sopravvalutarono la profondità della crisi almeno su due punti: la coscienza anticapitalista non era poi così diffusa come essi pensavano o, perlomeno speravano; e la tradizionale fedeltà della classe operaia ai sindacati e ai maggiori partiti della sinistra non sarebbe venuta meno tanto facilmente. I sindacati italiani mostrarono, in effetti, una notevole capacità di adattarsi alle mutate condizioni e, per usare un’espressione dell’epoca, seppero “cavalcare la tigre” dell’attivismo operaio. Questo fu reso possibile, tra l’altro, dal fatto che esi riuscirono, pur con notevoli difficoltà, a conquistarsi una parziale autonomia rispetto ai partiti politici; ciò si verificò sia con la Cgil sia con la Cisl. Nella Cgil uomini come Luciano Lama e Bruno Trentin, senza rinnegare la loro appartenenza al Pci, insistettero affinchè il sindacato determinasse in piena autonomia la propria risposta agli avvenimenti in corso. Questa autonomia portò speso l’organizzazione a muoversi lungo linee di condotta assai meno caute di quelle tenute dalla direzione politica comunista. Allo stesso modo la Cisl si sottrasse al controllo della Democrazia cristiana, tanto che la Fim, la federazione dei metalmeccanici della Cisl, fu uno dei protagonisti dell’ ”autunno caldo”.  La Fim finì spesso per dimostrasi più radicale della stessa Fiom, il sindacato metalmeccanico affiliato alla Cgil: si può spiegare così l’osservazione piuttosto acida fatta nel 1972 da un attivista Fiom della Innocenti di Milano: “ Questi hanno scoperto ora la lotta di classe, noi l’avevamo scoperta 25 anni fa”. ; Man mano che i due maggiori sindacati sviluppavano una propria strategia autonoma per rispondere alle sfide poste loro negli anni 1968-69, anche le loro posizioni tendevano a convergere. Perfino la Uil, consapevole di rischiare l’estinzione se fosse rimasta un sindacato di capetti, cominciò ad agire di conseguenza con le due grandi organizzazioni affini. La strategia dei sindacati fu abbastanza chiara. Per quanto una minoranza di dirigenti e di membri, soprattutto nella Fim, teorizzasse un sindacalismo rivoluzionario, la maggioranza vedeva il il sindacato come un veicolo per le riforme. L e nuove richieste e forme di lotta che venivano dalla base non dovevano essere rifiutate come estremiste, ma piuttosto essere incanalate in una strategia sindacale che portasse verso una vittoria duratura del mondo del lavoro. I sindacati cercavano di aumentare le loro forze, sia a livello di fabbrica sia  a livello nazionale, per poter costringere la classe di governo a realizzare una volta per tutte quelle riforme essenziali tante volte promesse ma mai poste in atto . il primo gradino di questa offensiva si realizzò con la mobilitazione nazionale per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Nell’autunno 1969 quasi un milione e mezzo di operai furono chiamati allo sciopero. Le agitazioni di fabbrica, confinate in precedenza ad alcuni settori della classe operaia e a poche aziende, interessarono adesso i principali stabilimenti industriali di tutta Italia. Questo fu “l’autunno caldo”. I sindacati sposarono la causa degli operai comuni, e colsero gli imprenditori alla sprovvista per l’aggressività e la determinazione con cui praticarono le nuove forme di lotta. Nel dicembre1969, alla fine dell’ “autunno caldo2, fu firmato il nuovo contratto nazionale che rappresentava una significativa vittoria per i sindacati e per il nuovo attivismo. Venivano garantiti aumenti salariali uguali per tutti, si introduceva nei tre anni successivi la settimana di quaranta ore, si assicuravano particolari concessioni agli apprendisti e ai lavoratori studenti. I sindacati ottennero anche il diritto di organizzare assemblee all’interno delle fabbriche nelle ore lavorative, pagate dai datori di lavoro fino a un massimo di dieci ore all’anno. I gruppi rivoluzionari lo denunciarono come un contratto “bidone”, ma non c’è dubbio che attorno alla piattaforma dei sindacati metallurgici era stata creata una nuova novità. Nel 1970 e 1971 la lotta per migliorare le condizioni di lavoro e per un maggiore controllo all’interno delle fabbriche si diffuse in molti altri settori della produzione. Dopo i metalmeccanici fu la volta dei chimici e degli operai edili, dei ferrovieri e di latri ancora. L’agitazione si propagò man mano dalle maggiori aziende a quelle più piccole, dal settore industriale al terziario. Molti tecnici e impiegati scioperarono perla prima volta. Anche i lavoratori del settore pubblico- postini, insegnanti, infermieri, funzionari- si mossero all’offensiva, lottando per obiettivi che erano un miscuglio di autodifesa corporativa e di desiderio radicale di cambiamento; chiedevano paghe più alte per mantenere la distanza dagli operai, ma MOLTI Auspicavano anche una maggiore democrazia nei posti di lavoro e una maggiore efficienza nei servizi pubblici. Ampi settori del terziario sperimentarono o sciopero per la prima volta. Commessi e inservienti d’albergo, soprattutto donne, ingaggiarono aspre lotte per migliori condizioni e per un a rappresentanza sindacale più adeguata. Le agitazioni si diffusero nei negozi e nei bar, dove il comportamento dei datori di lavoro oscillava tra il paternalistico e l’autoritario. Tra il 1969 e il 1971 il loro potere fu per la prima volta messo in discussione, sebbene in modo alquanto episodico. Perfino alcune donne che lavoravano a casa a cottimo scioperarono contro il sistema di lavoro a domicilio che le schiavizzava. La loro protesta ebbe comunque breve vita, poiché i fornitori delle materie prime non ebbero difficoltà a spostare altrove la loro attività. Così le agitazioni operaie risultarono più frequenti che in ogni altro periodo dal tempo della guerra; ma ciò che ancor da più sconcertava gli imprenditori era il fatto che, a differenza di tutte le precedenti occasioni, anche dopo la firma dei contratti nazionali la pace non tornava nelle fabbriche. Mentre in Francia dopo il grande sciopero di maggio si riaffermò rapidamente il potere degli imprenditori, in Italia l’ondata della protesta no accennava a placarsi. L’estate del 1970 fu un momento di calma apparente, poiché in autunno gli operai delle più grandi fabbriche mossero di nuovo l’offensiva. La tradizionale priorità degli accordi nazionali rispetto alla contrattazione aziendale era quasi scomparsa. L’iniziativa era passata decisamente a livello di fabbrica, dove i sindacati premevano con forza e spesso con successo per l’abolizione delle categorie più basse, per rendere transitoria e non definitiva la permanenza nella terza categoria della scala salariale-quella degli operai comuni-, per l’inquadramento unico e per un’unica scala salariale per operai e impiegati. La contrattazione di fabbrica risultò efficace perché i sindacati rispondevano con rapidità alle richieste operaie di maggiore rappresentatività e democrazia. Aver ottenuto il diritto di assemblea durante l’orario di lavoro fu il primo gradino in questa direzione. Nel 1970 e nel 1971, dapprima la Cgil e poi anche gli altri sindacati andarono oltre, con l’introduzione di un nuovo sistema di rappresentanza basato sui consigli di fabbrica. I consigli erano composti da delegati di ogni reparto o sezione della fabbrica e le oro assemblee erano aperte a tutti i lavoratori. I compiti dei consigli, secondo lo statuto di uno di essi (Gte Autelco di Milano, ottobre 1970), erano i seguenti: coordinare ed elaborare in stretto collegamento con i lavoratori tutta l’attivitò sindacale della fabbrica (problemi aziendali, di reparto, individuali, formazione politica, vertenze, ecc.); promuovere incontri con altre fabbriche, anche di altre categorie, per verificare le proprie esperienze; promuovere iniziative atte a risolvere problemi collegati alla vita del lavoratore nella fabbrica e nella società; contribuire con un serio dibattito alle scelte ed alla elaborazione delle linee politiche sindacali.
I consigli si diffusero con grande rapidità, avendo molti vantaggi rispetto alle vecchie commissioni interne: rappresentavano più direttamente gli interessi dei lavoratori essendovi un maggior numero di delegati, e inoltre avevano più potere all’interno delle fabbriche e legami più stretti con i sindacati. Le associazioni degli imprenditori resistettero il più a lungo possibile all’introduzione dei consigli, ma alla fine dovettero cedere. Anche molti dei cosiddetti gruppi rivoluzionari erano contrari, ovviamente per  ragioni diverse da quelle degli industriali; essi temevano che con i consigli si volesse mettere un freno alla spontaneità operaia e che l’autonomia del 1968-69 venisse rimpiazzata da una lenta ma progressiva integrazione. Le polemiche che ebbero luogo a questo proposito tra gruppi e sindacati furono accanite e intransigenti. La crescita del sindacato sembrava inarrestabile: nel 1965, al momento della loro massima diffusione, c’erano 1023 commissioni interne dell’industria metallurgica in rappresentanza di 552148 operai; nel 1972 si contavano, in quel medesimo settore produttivo, 4291 consigli di fabbrica in rappresentanza di 1055592 operai. Nello stesso periodo il numero dei tesserati aumentò vertiginosamente: la Cgil e la Cisl passarono da 4083000 iscritti nel1968, a 5399000 nel 1972 e a 6675000 nel 1975. La strategia sindacale fallì però l’obiettivo probabilmente più importante, dato che non riuscì a costringere il governo a varare quelle grandi riforme da tempo promesse e che interessavano la vita di ogni lavoratore, dalla casa alla sanità, dalla scuola al sistema fiscale. Tra il 1969 e il 1971 i lavoratori furono chiamati alla lotta su questi temi, registrando qualche successo, come ad esempio sulle pensioni, e fallendo invece nella maggioranza dei casi.
 
IL MOVIMENTO OPERAIO, 1971-73
Gli anni dal 1971 al 1973 furono un periodo di sostanziale consolidamento. Con la crisi economica del 1971 e la politica deflazionistica del governo, la congiuntura favorevole era giunta ormai alla fine. Il mantenimento dei salari reali a la difesa del posto di lavoro divennero obiettivi prioritari, da parte del sindacato, rispetto al tentativo di cambiare l’organizzazione del lavoro. Dall’attacco si passò alla difesa. Nello stesso tempo perse progressivamente vigore la spinta verso la unificazione sindacale, anche se l’unità d’azione tra le tre confederazioni rimase robusta. Il 1972 avrebbe dovuto essere l’anno dell’ autoscioglimento delle tre confederazioni e il 1973 quello della creazione di un sindacato unico. Nel luglio 1972, invece, i sindacati firmarono un patto che diede vita alla federazione Cgil-Cisl-Uil; tale soluzione appariva conveniente poiché permetteva loro un astretta collaborazione, continuando a garantire nello stesso tempo la loro autonomia. Sia la destra sia la sinistra guardavano con apprensione all’unificazione completa: la destra temeva di essere sopraffatta dalla superiorità numerica della Cgil, mentre la sinistra era preoccupata che si ripetesse quanto accaduto nel 1945-47, allorché i moderati avevano avuto la meglio nel porre il veto alle proposte più radicali che emergevano dal vecchio sindacato unitario. Malgrado il clima difensivo di quegli anni, gli scioperi e le agitazioni in fabbrica non mostrarono segni di flessione: nel 1972 quasi 4500000 lavoratori furono coinvolti in conflitti sindacali, passati a 6133000 nel 1973; solo il 1969 registrò un numero più alto di adesioni. Il clima di conflittualità permanente aveva aspetti sia negativi che positivi. Per migliaia di lavoratori il periodo 1969-70 fu una specie i età dell’oro, poiché divennero consapevoli del potere dell’azione collettiva e acquistarono una nuova autocoscienza. Mario Mosca, uno dei fondatori del Club alla Pirelli Bicocca, ritiene che “il ’68 è stato l’anno più bello della mia vita. L’anno in cui mi sono sentito come lavoratore protagonista e padrone del mio destino. E questa sensazione ce l’avevo dentro anche nei due anni successivi. Era bello vivere”. Nel 1962, Clizia N. era, una giovanissima operaia meridionale emarginata e trattata con distacco durante i suoi primi giorni di lavoro in fabbrica a Milano. Alla fine degli anni ’60 anche lei cominciò a cambiare: “Diventai più chiaccherona , cominciai ad essere capace di comunicare”; fu in quel periodo che si iscrisse alla Cgil. Nel 1974, a 29 anni, poteva guardare con soddisfazione all’esperienza che si era fatta nell’autunno caldo: “Entrando in fabbrica un acquista molto. Sa le cose direttamente. Non come la casalinga che sa le cose per sentito dire e non può avere l’esperienza di un anche va in fabbrica dove si discute di molte cose e s’impara. Anche piccolezze: ma una riesce a capire, a imparare…”.D’altro canto, però, l’iperattivismo di questi anni e la continua militanza degli operai più impegnati ebbe costi assai alti. Domenico Norcia ricorda:” Io facevo politica a prezzo di conseguenze tremende nella vita familiare… Alle volte io tornavo a casa dalle riunioni alle due, tre di notte; mia moglie era alla finestra ad aspettarmi piangendo. Questo accadeva spesso nel 1972 o 1973, cioè nel periodo più forte della lotta”. Le agitazioni operaie, inoltre, culminavano talvolta in atti di violenza contro persone. Dirigenti e capisquadra, come si è visto , erano gli obiettivi privilegiati, ma anche chi rifiutava di scioperare rischiava parecchio. Ancora Norcia ricorda un deprecabile incidente accaduto alla Fiat Mirafiori nei primi anni ’70, quando gli impiegati si rifiutarono di aderire a uno sciopero e una manifestazione di circa 4000 operai li costrinse con la minaccia a lasciare gli uffici. Una volta fuori furono costretti a correre tra due fila di operai che li canzonavano, sputavano loro addosso prendendoli a calci, e offendevano pesantemente le impiegate terrorizzate. Alla fine del 1972 scadeva il contratto dei metalmeccanici. I datori di lavoro si sentirono più forti che nel 1969 e quasi subito ruppero i negoziati, sperando così di dividere i sindacati. L a loro azione sortì l’effetto opposto. I primi tre mesi del 1973 videro una grande ripresa dell’attività sindacale, culminata a marzo con l’occupazione simbolica di due giorni della Fiat Mirafiori. La Confindustria ritornò in fretta al tavolo delle trattative e la successiva firma del contratto rappresentò una vittoria sostanziale del movimento sindacale. Fu approvato l’inquadramento unico per operai e impiegati e si arrivò a una considerevole riduzione nelle differenze salariali tra livelli più alti e quelli più bassi. Fu negoziata con successo anche una nuova e straordinaria modificazione nell’orario di lavoro. I metalmeccanici potevano adesso usufruire di 150 ore annue di congedo retribuito per frequentare corsi di studio organizzati dal sindacato. Lo schema educativo delle 150 ore si diffuse rapidamente anche in altri settori. Gli operai si misero a studiare per ottenere qualifiche più elevate, ma chiesero anche l’istituzione di un maggior numero di corsi, spesso su argomenti dichiaratamente politici. Professori di scuola media e delle università, quadri sindacai e operai, si ritrovarono assieme in un ambizioso tentativo di realizzare una piccola rivoluzione culturale. Alla fine del 1973, dunque, era chiaro che le spinte contro culturali del 1968-69 non erano affatto estinte, e che pur di fronte alla recessione economica il movimento operaio era più solidale e attivo che mai.

IL MEZZOGIORNO, 1968-'73
In questi anni il Mezzogiorno fu testimone di una forma di protesta sociale e di associazione politica che differiva radicalmente dal resto del paese, e come tale merita una trattazione particolare. La mobilitazione sindacale e le lotte di fabbrica ebbero qui un impatto molto limitato. Sarebbe comunque errato immaginarsi il Sud immune dall’ “autunno caldo”; ci furono agitazioni operaie, e la battaglia contro le “ gabbie salariali” nel 1969 vide un elevato livello di combattività. La classe operaia, però, era concentrata soprattutto nelle industri petrolchimiche e metallurgiche, nella cantieristica e nei trasporti ed era solo una piccola parte della popolazione meridionale. La granparte di essa era inoltre isolata in quelle “ cattedrali nel deserto” costruite negli anni ’60. I sindacati fecero grandi progressi all’inizio all’inizio degli anni ’70, ma la stragrande maggioranza della gente meridionale ne rimase toccata solo marginalmente. La società nel Mezzogiorno era cambiata radicalmente, sotto il duplice effetto dell’emigrazione e dello sviluppo economico. Le aree rurali dell’interno, soprattutto i latifondi, avevano risentito enormemente dello spopolamento, ed erano ormai ridotte a giocare un ruolo marginale e puramente passivo, naturalmente con qualche eccezione. Ad Avola per esempio, in provincia di Siracusa, i braccianti senza terra scesero in lotta nel dicembre ’68 per ottenere salari e condizioni di lavoro pari a quelle in vigore nella vicina zona di Lentini; la polizia aprì il fuoco contro un gruppo di dimostranti che stava attuando un blocco stradale alla periferia del paese, uccidendo due persone e ferendone seriamente altre quattro. Avola rappresentò uno scandalo nazionale, e l’Italia urbana scoprì come in Meridione fossero ancora in vita i vecchi modelli di protesta contadina e di brutale repressione. Le città agricole e i paesi dell’interno non erano comunque più il centro di azioni collettive quali erano state negli anni ’40. Alcune si erano spopolate in modo irreversibile, altre si erano modificate e adattate, come accadde per Altopiano. Qui i risparmi degli emigranti furono impiegati per comprare lotti di  terreno ed edificarvi una nuova casa, simbolo del raggiunto benessere economico. La struttura di classe divenne più stratificata: la vecchia distinzione tra una ristretta élite di proprietari terrieri e una gran massa di contadini poveri non era più valida perché era ormai cresciuto in paese uno strato intermedio composto da tanti piccoli proprietari, commercianti, funzionari, statali e professionisti. Le rigide gerarchie familiari si frantumarono, mentre i tradizionali codici di condotta della collettività lasciarono sempre più spazio ad una crescente varietà di comportamenti individuali. Diverse forme di assistenza pubblica, soprattutto le pensioni, aiutarono l’economia dei villaggi. Ancor più marcati furono i cambiamenti nelle zone costiere e nelle principali città. Qui, come ha scritto Rossi-Doria, lo sviluppo era ”caotico, instabile, precario, irrispettoso di ogni ordine e civile disciplina”. Piccole industrie, spesso legate all’agricoltura come le aziende produttrici di pomodori in scatola, offrivano scarse prospettive di impiego stabile. L’attività edilizia prosperava, ma anche il sistema dei sub-appalti, con il risultato di far lavorare gli operai edili senza contratti regolari e senza norme antinfortunistiche, per non parlare della rappresentanza sindacale. Ai margini del mercato del lavoro rimase così un massa di disoccupati e sottoccupati, esposti a tutte le lusinghe e alla pubblicità di una società consumistica, e con poche risorse atte a soddisfare i loro bisogni basilari. Nello sfondo di questo sviluppo caotico aumentarono le organizzazioni criminali, come la mafia in Sicilia e la camorra a Napoli. Fiorirono anche delle rivalità campanilistiche che lasciavano poco spazio a quel genere di solidarietà che era stata propria dell’“autunno caldo”. La classe politica meridionale, corrotta e clientelare, sorvegliava soddisfatta questo spettacolare sviluppo ineguale.

LA RIVOLTA DI REGGIO CALABRIA
Tra il 1969 e il 1973 il  Sud fu lacerato da una serie di proteste, quasi tutte riflesso della natura frammentaria della società meridionale e delle precarietà della sua modernizzazione. Nella primavera del 1969 la città di Battipaglia insorse contro la minaccia di chiusura di alcune fabbriche locali. Due persone vennero uccise dalla polizia, duecento ferite, una stazione di polizia saccheggiata dalla folla inferocita. La più seria rivolta in questo periodo interessò Reggio Calabria. Varie volte era stato promosso di fare della città la sede del nuovo governo regionale, ma la scelta definitiva era caduta, nell’estate 1970, su Catanzaro. L’ex sindaco di Reggio, il democristiano Pietro Battaglia, organizzò una serie di scioperi e manifestazioni, una delle quali fu sciolta con particolare brutalità dalla polizia. Presto la situazione degenerò: si eressero barricate, la stazione ferroviaria fu occupata da i dimostranti e tutti i treni da e per la Sicilia furono bloccati. I partiti di Sinistra e i sindacati, ad eccezione dl Psiup, chiesero che si ponesse termine a quella che giudicavano una rivolta municipale ingiustificata, e ne presero le distanze. Dietro la protesta c’era una situazione socio-economica di notevole gravità. Non più di 5000 persone in tutta la Calabria erano occupate stabilmente in grosse aziende. A Reggio 12000 erano coloro che vivevano in squallide casupole, alcune delle quali risalivano al 1908, l’anno del grande terremoto. Il commercio al minuto assorbiva manodopera, ma con in negozio ogni trenta abitanti i fallimenti erano frequenti e veniva così a mancare una qualsiasi sicurezza d’impiego. In queste circostanze, le possibilità offerte dal settore pubblico erano di vitale importanza. Reggio, una delle città più povere d’Italia, doveva diventare la sede del governo regionale. Lo stesso, del resto, poteva dirsi di Catanzaro, solo lievemente meno misera. La rivolta di Reggio continuò per oltre un anno, e solo nel periodo luglio-settembre 1970, a quanto riferiscono le cifre ufficiali, ci furono diciannove giorni di sciopero generale, dodici attentai dinamitardi, trentadue blocchi stradali, quattordici occupazioni della stazione, due della posta, una dell’ aeroporto e della locale stazione televisiva. Ci furono inoltre quattro assalti alla prefettura e quattro alla questura, 426 persone furono incriminate per infrazione all’ordine pubblico, 3 furono uccise e più di 200 ferite. La sinistra, ad eccezione del Psiup e dei gruppi rivoluzionari, continuò  a condannare la protesta. I neo fascisti non ebbero simili scrupoli. Reggio aveva sempre votato  a destra, era stata monarchica nel 1946 e fin da allora il consiglio comunale era dominato dalla DC. Il Msi giunse dove la Democrazia cristiana non osava spingersi: il neofascista Ciccio Franco divenne presto il capopopolo dei rivoltosi di Reggio ed alle elezioni del 1972 il candidato locale del Msi, Tripodi, ottenne 21000 preferenze  nella città. In molte aree urbane del sud i neofascisti, in questi anni, venivano considerati i veri rappresentanti dei settori emarginati della società. A Catania, nelle elezioni comunali del 1971, il Msi ottenne il 21,5 per cento dei voti. La risposta del governo alla rivolta di Reggio Calabria fu quella di conferire Catanzaro come capoluogo, concedendo a Reggio la sede dell’Assemblea regionale. Per sopperire alla crescente disoccupazione in tutta la regione, si annunciò la costruzione di un grandioso stabilimento siderurgico Gioia Tauro, che doveva rivelarsi come la più spettacolare- e la più economicamente disastrosa- di tutte le “cattedrali del deserto”. La Piana di Gioia Tauro, un’immensa e ricca distesa di agrumeti e oliveti fu quasi completamente spianta per erigere, al suo posto, un porto di prima grandezza. Ma verso la metà degli anni ’70 il mercato mondiale dell’acciaio crollò, e di conseguenza non si vide più il motivo perché la costruzione del Quinto Centro siderurgico dovesse proseguire. Nell’ottobre 1972 Vincenzo Guerrazzi, la cui famiglia era originaria di Reggio Calabria, fu uno dei mille operai genovesi dell’Ansaldo che affittarono una nave e fecero rotta al Sud per manifestare in corteo la solidarietà dei lavoratori del Nord ai loro fratelli meridionali. Lui e i suoi compagni, quarantamila in tutto, marciarono attraverso la città tra lo stupore della gente del posto: alcuni applaudivano , altri schernivano; i due mondi, in realtà erano assai distanti.



CINEMA E LAVORO: DUE ESEMPI 


LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO

REGIA DI: Elio Petri. CON: Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Flavio Bucci, Luigi Diberti, Salvo Randone.
Drammatico, colore, 125 min.

Regista seriamente impegnato in un cinema che superando l'occasione polemica guardi agli universali, Elio Petri continua a cercare nelle strutture psichiche dell'uomo di oggi i caratteri tipici della nostra situazione storica. Se nell'Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto conduceva, con la maestria che sappiamo, un'analisi sulla "nevrosi da potere", in La classe operaia va in paradiso (il titolo è ironico) egli esplora l'altro versante, quello del proletariato, non meno esposto al pericolo della follia.
Protagonista del film è un operaio lombardo che lavora in una fabbrica del Nord. Il robusto Lulù (ma l'ulcera è in agguato), sui trent'anni, ha come unico traguardo la busta paga: benvoluto dai padroni, inviso ai compagni di lavoro per il suo forsennato stakanovismo, è l'esempio tipico dell'uomo-massa che, geloso del suo piccolo benessere, riempie il poco tempo libero con le partite di calcio e i quiz televisivi. Questo Lulù, già coi nervi a pezzi, vagamente intuisce che è assurdo lavorare come un matto per otto ore al giorno, sicché quando torna a casa (dal carcere al dormitorio...) non ha più nemmeno la forza di soddisfare la donna con cui vive. Ma, vittima del mito del denaro, non ha il coraggio di rallentare il cottimo; e le visite che compie a un vecchio compagno ricoverato in manicomio, dov'è prefigurato il suo destino, riescono soltanto ad accrescerne lo sconforto. Quando, per un infortunio sul lavoro, Lulù perde un dito e i compagni organizzano manifestazioni di protesta, sopravvengono nuovi motivi di confusione: preso in mezzo fra gli studenti che predicano all'uscita dalla fabbrica lo sciopero a oltranza e i sindacalisti che invece chiedono di contrattare, Lulù va alla deriva, rintontito dagli slogan urlati nei megafoni, in un mare in tempesta in cui galleggiano blocchi di protesta, di rabbia e di paura. Anche nella vita privata è un naufrago. Separatosi dalla moglie e dal figlioletto, Lulù ha in casa una parrucchiera che sta chiaramente dalla parte dei padroni. Né un'operaia con cui ha trascorso una squallida serata gli mostra una briciola d'affetto. Quando si arriva a uno scontro con la polizia, Lulù è tra i più facinorosi, e finisce che perde il posto in fabbrica. Allora, abbandonato dai "barbudos" nei quali per un momento ha creduto (li ha persino ospitati in casa), e che invece si sono serviti di lui, tocca ai compagni sindacalisti lottare per farlo riassumere. Ci riusciranno, ma Lulù tornato alla catena di montaggio è ormai alle soglie della pazzia: al fianco di uomini che si muovono come cinetici robot, vaneggia di aver sognato un muro da abbattere oltre il quale è il paradiso. Le sue parole sconnesse passano di bocca in bocca in un caotico balletto, simbolo trasparente dell'allucinazione collettiva in cui si traduce la vita della fabbrica-prigione, anzi di tutta la società, macchina crudele che stritola l'uomo.
Allegoria sinistra del nostro tempo, lacerato dall'altalena fra il mito della rivoluzione e il mito del benessere borghese, il film che Elio Petri ha scritto con Ugo Pirro sarà soggetto di polemiche per l'ingrata immagine che dà del lavoro fabbrica, per come esemplifica il conflitto fra sindacati e movimento studentesco, per il rimprovero mosso agli stessi sindacati di incoraggiare la produttività. Se per ciò promette essere fra i più fertili della nuova stagione, il suo vigore e la sua chiarezza lo comprendono fra i migliori del nuovo cinema italiano. Vivacemente a ridosso della cronaca quotidiana, diretto con mirabile spigliatezza, superbamente interpretato da Gian Maria Volonté, narra infatti la storia di operaio in modo che moltissimi possono riconoscervisi, e nel contempo si offre come la dolente analisi d'una condizione generale.
La classe operaia va in paradiso non è soltanto, sulla scia di Tempi moderni e della diatriba che vede a braccetto anarchici e reazionari, un'ennesima denunzia della alienazione (il doppio significato, clinico e marxista) cui la civiltà industriale conduce gli operai addetti a lavori ripetitivi. Come non soltanto l'invito d'un intellettuale comunista a rifiutare lusinghe della società dei consumi e a farsi una coscienza politica: coinvolgendo nell'urto servi e padroni, è soprattutto un lamento di marca libertaria sullo stato di nevrosi permanente in cui ci ha gettato l'idea-guida del profitto economico e una politica, per ciò stesso, volta a disumanizzarci. Poco importa che lo sbocco sottinteso da un simile film sia un'organizzazione razionale della società che esorcizzi la male dizione del lavoro e consenta all'individuo di tornare libero e sano: sappiamo bene che anche questo sogno di lavacro universale fa parte della nostra nevrosi. Importa invece che consapevolezza del dramma, fornita con così saldo linguaggio cinematografico, nutra i meccanismi di autodifesa ancora forti nel corpo sociale: proprio perché tale, l'utopia è una forza che alimenta la speranza e provoca almeno qualche correzione di rotta.
A noi sembra che il film di Petrj (chi ha buona memoria saprà imparentarlo con i giorni contati) giovi alla impresa, per l'amarezza con cui non si nasconde la realtà, per l'efficacia con cui scolpisce il ritratto del suo disperato protagonista, per il rilievo derivatogli da certe figure di scorcio (il toccante compagno in manicomio, l'arcigna donna di Lulù) e da certe situazioni (la cruda scena d'amore in un gelido garage), per l'esattezza di ritmi e di timbri con cui tutto il racconto è condotto, fresco di una verità documentaria che gli dà un felice piglio popolaresco. Accompagnato da nuove musiche di Morricone, il film è poi un'altra conferma del genio interpretativo di Volonté, giunto ormai a tali vette di perfezione nell'esprimere l'angoscia e la demenza da vedersi aprire sotto il baratro d'una sublime gigioneria. Salvo Randone è a sua volta insuperabile nel saldare il cerchio in cui si esaltano le virtù di due generazioni di grandi attori, ma occhio anche a Mariangela Melato, bravissima nel disegno della parrucchiera, ostile e insoddisfatta, che mentre il suo uomo è sull'orlo della pazzia pensa a farsi la pelliccia.
Da Corriere della Sera, 18 settembre 1971

Italia, 1971



TEMPI MODERNI

REGIA, SOGGETTO, SCENEGGIATURA, MUSICA E MONTAGGIO: Charlie Chaplin
FOTOGRAFIA: Rollie Totheroh (bianconero)- INTERPRETI: Charlie Chaplin, paulette Godard
DURATA: 85’- USA, 1936

TRAMA. Charlot, operaio in una grande fabbrica metalmeccanica, la Electro Steel Corporation, è addetto a un nastro convogliatore. Il lavoro alla catena di montaggio ha ritmi estenuanti e tutto accade sotto gli occhi del padrone, grazie a un impianto televisivo a circuito chiuso. La legge del profitto non solo porta ad accelerare continuamente i ritmi di lavoro, ma induce anche a escogitare una macchina per l’alimentazione automatica degli operai, al fine di evitare ogni tipo di pausa. Charlot è la cavia designata per l’esperimento, che si conclude con un disastro. Un giorno, mentre lavora alla catena di montaggio, Charlot ha una crisi da “esaurimento nervoso” e l’alienazione lo induce a ripetere meccanicamente i gesti cui è stato costretto, applicandoli a qualsiasi cosa o a chiunque gli capiti sotto tiro. Finisce in manicomio, e una volta dimesso, conosce la disoccupazione, quella della Grande Crisi. Nel corso di uno scontro tra operai e polizia, per un equivoco viene ritenuto il capo dei dimostranti e arrestato. In prigione, sotto l’effetto della cocaina che ha involontariamente assunto, impedisce una rivolta di detenuti, il che gli consente di ottenere una posizione privilegiata, ma purtroppo anche… un’anticipata scarcerazione. Di nuovo disoccupato nonostante le credenziali ottenute dal Direttore della prigione, incontra “una figlia del porto che si rifiuta di patire la fame” (la “monella”), una ragazza che, orfana di madre, perde ben presto anche il padre e che, per non finire con le sorelle in un orfanotrofio, si unisce a lui. Insieme andranno a vivere, però in “camere separate”, in una baracca. Ora la fabbrica riapre, ma solo per il tempo necessario a far sì che Charlot si esibisca nella gag della manutenzione dell’enorme macchina. Poi l’operaio trova impiego come guardiano notturno in un grande magazzino. Qui, dopo aver vissuto con la monella per qualche ora da signore”, viene sorpreso da alcuni ex compagni di lavoro nella nuova veste di scassinatori, e tutto finisce con un ennesimo licenziamento. Mentre Charlot cerca la propria “liberà” facendosi di nuovo incarcerare, la monella viene ingaggiata come fantasista in un cabaret; in seguito riuscirà a far assumere anche Charlot nella duplice veste di cameriere e cantante. Sarebbe la felicità se l’intervento della polizia, che vorrebbe portare la ragazza all’orfanotrofio, non costringesse i due a una nuova fuga. Questa volta lontano dalla città, dai “tempi moderni”, e con un motto di speranza: ”Non darti per vinta ce la caveremo”.

TRACCIA TEMATICA. Della modernità cui accenna il titolo Chaplin, critica la crescente disumanizzazione imposta dall’asservimento dell’operaio alle macchine nella civiltà industriale (ben espresso nella sequenza della catena di montaggio, dove l’operaio è ridotto a puro ingranaggio costretto a ripetere ossessivamente gli stessi gesti) e da una società basata sulla diseguaglianza e l’ingiustizia che calpesta la dignità umana. L’unica alternativa a questo destino di sfruttamento e alienazione va ricercata nella fantasia e nella creatività (il balletto sui pattini sull’orlo dell’abisso e la canzone che improvvisa al ristorante) e, soprattutto, la capacità di saper guardare sempre con rinnovato ottimismo al futuro (lo splendido finale). Uscito nel 1936 in piena Grande Crisi (e  quindi in un periodo di forti tensioni sociali) il film venne osteggiato negli Stati Uniti e nella Germania nazista sotto l’accusa di sovversivismo e comunismo (e questo, nonostante la critica all’industrialismo taylorista potrebbe riguardare anche il contemporaneo Stakanovismo sovietico). Sicuramente acuta l’osservazione di chi ha intravisto, invece, nel film di Chaplin una specie di anticipazione dell’ideologia giovanilistica del movimento hippy degli anni Sessanta, basta sul rifiuto del lavoro salariato e della dipendenza tecnologica.


TAYLORISMO E FORDISMO. Ciò che ancora ci impressiona, in tempi Moderni, è la catena di montaggio, con la sua ripetitività e i suoi ritmi, che trova nel taylorismo il suo fondamento storico-culturale. Frederick W. Taylor (1856-1915) nel 1911 pubblicò “Principi di organizzazione scientifica del lavoro” con cui introdusse negli USA una vera e propria “scienza” dello sfruttamento del lavoro, che in seguito si diffuse in tutto il mondo industrializzato. I principi operativi fondamentali di tale “scienza” sono : suddivisione dl processo di produzione (parcellizzazione), cronometraggio dei tempi standard (trasformati in obiettivi per il lavoratore), addestramento degli addetti ( con conseguente sviluppo di specifiche abilità manuali), proposta del cottimo come incentivo economico. Sembra già la sceneggiatura di alcune sequenze del film di Chaplin. Se a ciò aggiungiamo il fatto che l’ingegner Taylor aveva diretto la Midvale Steel Company ed era stato consulente della Bethlehem Iron Company, è facile comprendere come possa aver ispirato la figura del padrone-dirigente di una Electro Steel Company, frutto della fantasia charlottiana. Dal taylorismo al fordismo il passo è breve. Henry Ford (1863-1947) fu il primo, nel 1913,  a introdurre la catena di montaggio in un processo produttivo ampiamente standarizzato (per esempio, quello necessario ad assemblare le famose Ford T, le auto che impazzano in tante comiche del muto americano, come in quelle di Stanllio e Ollio). Il fordismo richiamò l’attenzione di teorici e di scrittori.
VALUTAZIONE CRITICA. Film sonoro ma non parlato (se si esclude qualche borbottio indistinto) testimonia della ritrosia di Chaplin ad adattarsi all’avvento del Cinema sonoro sin a tutto il 1936 (si direbbe che il suo rifiuto delle innovazioni della modernità si estenda dal contenuto del film alle scelte formali). La mancanza delle parole non solo non costituisce un limite, ma accentua la forza espressiva del film, interamente affidato alla gestualità e all’azione come all’epoca del muto, nel senso dell’immediatezza e dell’efficacia comunicativa. Tempi moderni è la prova mirabile di come si possa affrontare una tematica di grande rilievo sociale, come l’alienazione del lavoro e la disoccupazione, con lo strumento dell’umorismo e del grottesco, pervenendo agli stessi esiti di denuncia di tanti drammi sociali a tinte forti o piattamente didascalici. Il miracolo dell’arte chapliniana non si esaurisce, però, in questa leggerezza di tocco che caratterizza il suo sguardo sulla realtà del suo tempo, ma raggiunge il culmine nella capacità di innestare sullo sfondo prosaico della civiltà contemporanea momenti di autentica tensione poetica che riescono ancora a commuovere lo spettatore.


… CONTINUA

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