IL NEOREALISMO - FRANCESCO JOVINE
(SINTESI DIVULGATIVA 2)
Al clima neorealista sono ascrivibili anche scrittori come il Moravia de “La romana”, de “La ciociara” e dei “Racconti romani”, il Vittorini di “Uomini e no”, il Silone di “Una manciata di more” e de “Il segreto dì Luca”; il Bernari di “Speranzella”. Ma mentre questi scrittori si svolgeranno poi su traiettorie dì libera ricerca, più affiatati con la poetica del Neorealismo furono autori particolarmente sensibili ai problemi del Meridione o all'epoca Resistenziale, come Francesco Jovine, Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Vasco Pratolini, Beppe Fenoglio e Domenico Rea.
Nato in un piccola borgo del Molise, Guardialfiera, Jovine (1902-1950) ispirò tutta la sua opera narrativa alla vita chiusa e tormentata di quella terra e, in generale, del Sud, ma nella tematica, tutt’altro che nuova, del meridionalismo seppe, ritagliarsi, col romanzo “Le terre del Sacramento”, un personalissimo spazio che non è solo conquista di rigore etico-civile, bensì anche un approdo di di poesia narrativa.
Ancora impacciato fra tensioni Ideologiche e abbandoni narrativi nel primo romanzo, “Un uomo provvisorio”, impostato moralisticamente sul tema del contrasto tra citta corrotta e provincia sana, Jovine si rivelò scrittore di più adulta virtù costruttiva nel secondo romanzo “Signora Ava” (1942, dove affrescò, fra risentimenti civili e tenerezze nostalgiche, la vita immobile e dolente del suo Molise al tempo dei Borboni; ma diede la più alta misura del suo temperamento d'artista nel romanzo “Le terre del Sacramento”, uscito, postumo, nel 1950. Anch'esso ambientato nel Molise (ma ora il tempo storico è quello del Fascismo in ascesa), quest'opera racconta una serie di vicende che si svolgono in alcune tetre abbandonate dei dintorni di Isernia, già appartenute ad enti ecclesiastici e perciò dette le terre del Sacramento. Un gruppo di braccianti, guidati da un intellettuale di estrazione contadina, Luca Marano, le occupa e prende a dissodarle, sperando che l'attuale proprietario, l'avvocato Cannavale, e la sua intraprendente moglie, Laura, mantengano la promessa di un contratto di “enfiteusi perpetua”. L'antico feudo torna a prosperare, ma, dopa la Marcia su Roma, sulle ingenue speranze dei contadini si abbatte la reazione della politica agraria fascista. Quando, invece dell'atteso contratto, ricevono l'ordine di sfrattare, i braccianti, animati dal Marano, organizzano la resistenza. Intervengono a stroncarla carabinieri e fascisti, e Luca cade sotto il loro piombo. Il romanzo termina con la rappresentazione della veglia funebre sul cadavere dell'eroe. E’ un finale da antica tragedia, ma nelle parole della lamentazione che le donne intonano per il morto risuona la speranza di Jovine in un vicino riscatto della sua gente contadina: “Per noi fame e dannazione, ma per i figli paradiso e pane”.
Nella forte compattezza della struttura (qualche divagazione episodica, rilevata dal Cecchi, è difetto trascurabile) e nel rilievo epico-corale della narrazione. “Le terre del Sacramento” riflettono la lezione del maggior Verga. Ma il verghismo di Jovine non è un residuo letterario, bensì l'approdo quasi inevitabile di una vocazione alla lettura poetica del mondo dei vinti; e v’è ancora da rilevare che lo scrittore molisano, se accoglie, e in parte assimila, certa tecnica espressiva del Catanese (quel particolare pudore stilistico che avvolge la compassione per la vita) non si lascia sedurre dal suo fatalismo, e cerca le ragioni delle sconfitte degli umili non nell'ostilità oscura del destino, ma nelle concrete responsabilità della storia e, da buon marxista, crede nell'efficacia della lotta di classe per la costruzione di una società più umana e più giusta. Questa fede nel potere dell'uomo di modificare la realtà storica percorre tutto il romanzo, ma non scoppia mai nell'intemperanza oratoria: in nessun altro testo del Neorealismo italiano la materia ideologica si è disciolta nei ritmi dell'invenzione narrativa con la stessa naturalezza che riscontriamo nel capolavoro di Jovine.
....continua
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