sabato 25 aprile 2015

Lavoro e cultura nel ‘900 italiano 1 - Italiano Storia Arte - A cura di Claudio Di Scalzo



LAVORO E CULTURA NEL '900 ITALIANO 1 
Italiano.storia.arte 
a cura di Claudio Di Scalzo




Prefazione. L’uomo ha sempre lavorato, e per decine di migliaia di anni ha quasi identificato vita e lavoro, in una dura e spesso drammatica lotta per la sopravvivenza, ma di questo suo operato ha assunto solo tardivamente un’adeguata coscienza. Nello stesso Occidente, che può essere considerato la culla dell’“umanesimo del lavoro”, il problema è stato a lungo rimosso, ed il lavoro è stato considerato il più delle volte la periferia e non il centro della vita. In complesso, tuttavia, l’intuizione della centralità del lavoro nella storia e la sua importanza decisiva per la formazione della cultura si è fatta strada in Occidente soltanto negli ultimi due secoli, in coincidenza con la nascita della filosofia dell’homo faber. Da allora in poi filosofia e teologia, letteratura e arti figurative, e poi il teatro, il cinema, i mezzi di comunicazione di massa, hanno ripreso e sviluppato questo tema, sino a dar luogo a quella che, è stata chiamata la moderna “civiltà del lavoro”. A conclusione del XX secolo e all’inizio del nuovo millennio questa centralità del lavoro appare tuttavia fortemente rimessa in discussione. Da una parte, infatti si sta affermando quello che è stata chiamata la “civiltà del tempo libero”: il centro della vita sembra si stia spostando in direzione della festa, del divertimento, dei viaggi, in una prospettiva di progressivo ridimensionamento del lavoro ( si lavora, e si lavorerà, sempre di meno, e nello stesso tempo si inizierà a lavorare sempre più tardi, a causa dei tempi lunghi dell’apprendimento professionale, e si cesserà di lavorare avendo davanti a sè, il forte aumento della speranza di vita, anni e forse decenni di vita “non attiva” . Dall’altra parte, la civiltà del lavoro si fondava sul presupposto che quella operativa e creativa fosse la componente della vita più importante e gratificante, e così continua effettivamente a essere: ma solo per una minoranza di uomini e donne privilegiati, che possono scegliere non solo il tipo ma anche i tempi e le modalità del lavoro; mentre per la grandissima maggioranza, il lavoro mantiene la sua dimensione di ripetitività, di insignificanza, di frustrazione: né i livelli retributivi spesso assai alti, o comunque soddisfacenti, compensano questa dequalificazione spirituale e d intellettuale del lavoro. Negli ultimi decenni quindi , il significato del lavoro è cambiato. Sembra più psicologicamente faticoso, incerto, fluttuante. Ma oggi più che mai occorre recuperarne il senso. In caso contrario si assisterebbe a una riduzione economicistica e funzionalistica di un’attività che rimane invece una componente essenziale dell’uomo, la cui perdita di senso rappresenterebbe inevitabilmente anche un impoverimento della stessa vita personale.
Tuttavia la stagione dell’“umanesimo del lavoro” durata appena due secoli, sembra ormai definitivamente alle nostre spalle. Vi è tuttavia uno “zoccolo duro” se così è lecito chiamarlo, dove la Chiesa cattolica, in particolar modo nel Laborem exercens di Giovanni Paolo II continua a richiamare uomini e donne: il problema del “significato” ma soprattutto del “senso” del lavoro. Il lavoro occupa la parte preponderante e più attiva della nostra vita; è una imprescindibile necessità esistenziale:
«Chi non lavora non mangi» (S. Paolo). La Chiesa Cattolica ha più volte dedicato la propria riflessione alla realtà del lavoro, per questo motivo tengo  a citare alcuni versi tratti da un documento del Concilio Vaticano II.

Il lavoro umano, che viene svolto per produrre e scambiare beni e per mettere a disposizione servizi economici, è di valore superiore agli altri elementi della vita economica, poiché questi hanno solo natura di mezzo.
Tale lavoro, infatti, sia svolto indipendentemente che subordinatamente da altri, procede immediatamente dalla persona, la quale imprime nella natura quasi il suo sigillo e la sottomette alla sua volontà.
Con il lavoro, l’uomo abitualmente provvede alle condizioni di vita proprie e dei suoi familiari, comunica con gli altri e rende servizio agli uomini suoi fratelli, può praticare una vera carità e collaborare con la propria attività al completarsi della divina creazione.
Ancor più: sappiamo per fede, che, offrendo a Dio il proprio lavoro l’uomo si associa all’opera stessa redentiva di Cristo, il quale ha conferito al lavoro una elevatissima dignità, lavorando con le proprie mani a Nazaret.
Di qui discendono, per ciascun uomo, e il dovere di lavorare fedelmente e il diritto al lavoro; corrispondentemente è compito della società, in rapporto alle condizioni in essa esistenti, aiutare per sua parte i cittadini affinchè possano trovare sufficiente occupazione. Inoltre il lavoro va remunerato in modo tale da garantire i mezzi sufficienti per permettere al singolo e alla sua famiglia una vita dignitosa su un piano materiale, sociale, culturale e spirituale, corrispondentemente al tipo di attività e grado di rendimento economico di ciascuno nonché alle condizioni dell’impresa e al bene comune. Poiché l’attività economica è per lo più realizzata in gruppi produttivi in cui si uniscono molti uomini, è ingiusto ed inumano organizzarla con strutture ed ordinamenti che siano a danno di chiunque vi operi. Troppo spesso avviene invece, anche nei nostri giorni, che i lavoratori siano in un certo senso asserviti alla propria attività. Ciò non trova assolutamente giustificazione nelle così dette leggi economiche.
Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita; innanzitutto della sua vita domestica, particolarmente in relazione alle madri di famiglia, sempre tenendo conto del sesso e dell’età di ciascuno. Ai lavoratori va assicurata inoltre la possibilità di sviluppare le loro qualità e di esprimere la loro personalità nell’esercizio stesso del lavoro. Pur applicando a tale attività di lavoro, con doverosa responsabilità, tempo ed energie, tutti i lavoratori debbono però godere di sufficiente riposo e tempo libero che permetta loro di curare la vita familiare, culturale, sociale ed religiosa. Anzi debbono avere la possibilità di dedicarsi ad attività libere che sviluppino quelle energie e capacità, che non hanno forse modo di coltivare nel lavoro professionale.
Gaudium et Spes, 67

Questo breve documento tratto dal Gaudium ci pone di fronte ad una dura riflessione sul significato che, tutt’oggi, noi attribuiamo alla parola LAVORO.
Il lavoro resta un aspetto centrale della vita dell’uomo e della donna; esso però assume per certi versi un aspetto strumentale : ha la ragione di essere perché consente di vivere, ma può essere assolutizzato fino a diventare la ragione di vita. Il lavoro professionale può dare un contributo a rendere significativa la vita; ma difficilmente può costituirne il senso complessivo. Inoltre tengo a ricordare che il lavoro ha sempre di più una valenza sociale. Esso può permettere la comunicazione, la solidarietà, la capacità di realizzare imprese impossibili ai singoli. Inoltre esso si configura come un diritto, in quanto risulta essenziale per la sopravvivenza. Per questo motivo un recupero molto prossimo del senso del lavoro, di cosa ne è stato di cosa è e di cosa sarà, è essenziale per recuperare i veri valori sociali che si possono introdurre nel significato del lavoro. Solo attraverso tali valori l’uomo potrà in un futuro continuare a condurre una vita serena parallela alla civiltà del lavoro, senza correre il rischio di venirne travolto e incorrere in un’irreparabile alienazione psicologica. Alienazione che lo condurrà ad una inevitabile perdita dell’Io, perdita della propria identità la quale non gli permetterà più di riconoscersi e di ritrovarvi riscontro nella società stessa.
Ma per concludere è doveroso soffermarci brevemente sulla scena teatrale di ciò che sarà il lavoro nel futuro. Alla domanda su quali caratteristiche assumerà il lavoro nel futuro…, è facile rispondere che sarà sempre più meccanizzato e parcellizzato. Sono queste, infatti, le due tendenze emerse massicciamente nel XIX, e nel XX secolo, era delle tecnologie globali e del primato economico; se il profitto e comunque l’aspetto monetario, viene al primo posto in tutto, lo spirito si dissolve e la schiavitù incombe sotto forma di lavoro sempre più alienato. Questa tendenza, mascherata sotto il principio del progresso e addirittura dell’emancipazione, continuerà prevedibilmente per molto tempo ancora. Un altro aspetto fondamentale è l’idea secondo cui le nuove tecnologie ci avrebbero liberati dal peso del lavoro. In realtà si è visto che quello strumento di grande ausilio che è il computer ci costringe a dedicargli molte ore della nostra vita, più di quante passassimo alla macchina da scrivere o alla TV, mentre per quanto riguarda le macchine che hanno rimpiazzato l’uomo in fabbrica (i robot assembla-automobili, per esempio) non hanno risolto i problemi di chi è rimasto a casa ed è stato rimpiazzato dalle braccia meccaniche, andando così ad alimentare quella piaga denominata disoccupazione.  Un’altra tendenza prevedibile del futuro sarà quella verso il tele-lavoro: attività cioè, svolte da casa e rese possibili dalla telematica. Il lavoro in questo modo permetterà senza alcun dubbio una maggiore comodità, ma richiederà sempre meno responsabilizzazione e costringerà chi lo segue ad un’attitudine sempre più passiva, simile a una moderna schiavitù. La difficoltà o addirittura l’impossibilità di appropriarsi del proprio mestiere, di fare quello per cui ci sentiamo meglio portati aggraverà in maniera irreparabile quella che doveva essere la nostra formazione personale sia a livello lavorativo sia a livello sociale.
Infine per concludere, ultimo problema, ma non meno importante resta la durezza dei sistemi produttivi massificati i quali spinti più da una produzione di beni materiali senza alcun disegno di sviluppo reale per l’umanità propugneranno verso uno sfruttamento inevitabile ma insostenibile della Terra. È sempre più probabile, difatti, che una parte cospicua dello sforzo lavorativo venga indirizzata alla produzione di armi e congegni di distruzione, che insieme alle ideologie aggressive e alle religioni, rappresenteranno pressoché l’unico cibo del XXI secolo. Troppo spesso, difatti la forza e l’intelligenza dell’uomo viene usata per meschini scopi; in tale atto purtroppo ne abbiamo potuto trovare recentemente riscontro nell’ultimo conflitto avvenuto tra USA e Iraq, in definitiva , il lavoro potrà schiacciare l’uomo invece di riscattarlo, perché nella stessa attività che noi chiamiamo “lavorativa” vi è insito un pericolo di squilibrio e violenza che resta il futuro indesiderato dell’operosità.



INDICE

PARTE PRIMA:
A) IL LAVORO ATTRAVERSO L'ARTE
B) PELLIZZA DA VOLPEDO: IL PITTORE DEGLI UMILI E DEL “QUARTO STATO”
C) DIVISIONISMO
D) SIRONI E LA MODERNITÀ NEGLI ANNI TRENTA

SECONDA PARTE:
1) PAOLO VOLPONI SCITTORE IMPEGNATO
Cenni sulla vita dell’autore
La poetica e i suoi romanzi
Analisi del romanzo Memoriale
2) ROMANO BILENCHI E IL CAPO FABBRICA
3) DIBATTITO TRA LETTERATURA E INDUSTRIA
4) GLI ANNI RIBELLI: CRONOLOGIA DELLE LOTTE OPERAIE DI ITALIA (1968-1973)

TERZA PARTE
VHS La classe operaia va in Paradiso con commento
Rossellini: documentario sugli anni ’50 con commento
Charlie Chaplin: Tempi moderni con commento
LEGISLAZIONE SULLE DONNE E IL LAVORO
CELEBRAZIONI E LAVORO
STORIA FOTOGRAFICA DEL NOVECENTO
LO SVILUPPO INDUSTRIALE IN VALTELLINA E VALCHIAVENNA



IL LAVORO ATTRAVERSO L'ARTE

Il tema del lavoro è uno dei filoni più interessanti e innovativi dell’arte internazionale durante il XX secolo. Alcuni movimenti artistici (futurismo, cubismo sintetico, realismo socialista, Fronte Nuovo delle Arti, muralismo messicano) l’anno scelto addirittura come soggetto essenziale e distintivo, con un notevole impegno artistico e sociale, quando non esplicitamente politico.
Fino alla seconda metà del XIX secolo, in effetti, il lavoratore era visto dall’arte con un occhio di rassegnazione, di abbandono. La svolta cade con l’avvento del realismo: gli spaccapietre di Courbet ( uno dei capolavori distrutti durante la seconda guerra mondiale, noto ormai solo attraverso le fotografie) segnano l’avvento di una nuova considerazione del mondo dei lavoratori. Sono figure monumentali, dense, dignitose: non simboli o allegorie. Su questa strada, nonostante le leggere divagazioni dell’ impressionismo, si può individuare una precisa strada dell’arte del secondo Ottocento, che va nella pittura dai raschiatori di parquet di Caillebotte alle mondine di Morbelli, e nella scultura dai minatori del belga Minne. Mentre l’industrializzazione dilaga in Europa, l’atteggiamento ottimista del positivismo comincia a incrinarsi sotto il peso e la responsabilità di dare un dignitoso presente a una nuova classe di lavoratori: gli operai “inurbati” passati dalle campagne ai quartieri delle nuove periferie. E’ questo lo scenario sociale su cui si proietta Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, quadro-simbolo del nuovo atteggiamento dell’arte nei confronti del mondo del lavoro, dei suoi protagonisti e dei suoi problemi. Come è noto Pellizza da Volpedo ha lavorato al dipinto per circa un decennio, pervenendo alla stesura definitiva (conservata nella Galleria d’Arte moderna di Milano) nel 1901. Le due versioni precedenti, intitolate Fiumana eLa marcia dei lavoratori, segnano le tappe progressive dell’elaborazione stilistica, e soprattutto, di contenuti. Del tutto innovativa anche rispetto alle idee iniziali della monumentale composizione, è infatti la presenza in prima fila di una donna con il figlioletto: questa figura allarga la scena verso un orizzonte nuovo, dalla “massa” degli operai in marcia alle loro famiglie. Il Quarto Stato (il titolo evoca la necessità, un secolo dopo la Rivoluzione francese, di rivedere la “graduatoria” degli strati sociali) è un’opera grandiosa, quasi del tutto immune dal contagio della retorica che appanna talvolta l’arte. È anche il parametro su cui valutare la pur notevolissima fioritura di opere di soggetto sociale all’aprirsi del Novecento, prevalentemente sulla base tecnico-stilistica del divisionismo, la versione italiana e innegabilmente originale delPointillisme post-impressionista. Sulla scia del divisionismo e dei relativi spunti sociali si esercitano tutti gli artisti italiani destinati a dar vita al movimento del futurismo: ma mentre mastri come Balla e Carrà tendono a cercare nuovi soggetti a partire del 1910, gli ambienti del lavoro, specialmente di quello edile, restano al centro dell’attenzione di Boccioni. Le periferie industriali milanesi esercitano sul pittore di origine calabrese un fascino irresistibile: è la suggestione dell’attività, della produzione, della crescita inarrestabile, di un vitalismo tecnologico destinato, purtroppo, a sfociare nella conseguenza della Grande Guerra. I medesimi sfondi di periferia esaltati da Boccioni diventano le spettrali, solitarie e incombenti scenografie di Sironi. A partire dal 1917, il movimento socialista e la svolta comunista in Russia adottano il tema del lavoro. Il principale esponente europeo della pittura sociale è senza dubbio Fernand Leger. Formatosi alla severa scuola del primo cubismo, appassionato e sincero seguace del movimento socialista, Leger applica la regolare “griglia grafica del cubismo sintetico a composizioni di ampie dimensioni, nelle quali appaiono manovali, costruttori edili, marinai. Figure statiche, solenni, composte, attraverso le quali, Leger, comunque riesce a evitare l’effetto pesantemente propagandistico che tutti i regimi totalitari della prima metà del secolo scorso hanno imposto all’arte ufficiale. Ma mentre il fascismo e il Nazismo fanno appello ai rispettivi miti nazionali, il Soviet staliniano sfrutta pesantemente l’iconografia del lavoro e dei suoi strumenti. La falce e il martello intrecciati, con la successiva aggiunta del compasso nella Germania democratica, diventano il simbolo supremo del “primato del lavoro” nel mondo del comunismo sovietico, e a questa immagine si conformano, con risultati per lo più monotoni, la pittura parietale e la scultura monumentale. Dall’altra parte dell’Oceano, intanto, anche gli Stati Uniti stavano elaborando una loro peculiare “retorica” del lavoro. I costruttori dei grattacieli, eternati dalle fotografie, sono gli ammirevoli eroi di una nuova epopea. Inoltre, dopo la grande crisi del 1929, il Governo Federale statunitense vara nell’ambito del New Deal rooseveltiano il Federal Art Project, una grandiosa serie di iniziative per decorare gli uffici pubblici e gli edifici governativi di città grandi, piccole e piccolissime con vasti cicli di dipinti morali, inneggianti alla rinascita dell’economia e al progressi, con un realismo sempre evidentemente retorico, legato al muralismo messicano di Rivera, Orozco e Siqueiros. Anche gli artisti americani svincolati dagli obblighi di propaganda imposti dalla committenza pubblica sono a loro volta ovviamente toccati dalla Grande depressione e dai suoi riflessi sulla vita quotidiana: Demuth e Sheeler dipingono desolate periferie, installazioni industriali e portuali di immense proporzioni, silenziosi capannoni desetrti: un’atmosfera molto simile alle periferie dell’italiano Sironi. Anche Edward Hopper, certo il più noto fra gli esponenti del realismo americano a cavallo della seconda guerra mondiale, prende frequente ispirazione dal mondo del lavoro, ma con una particolarità che lo distingue nettamente da tutti gli altri pittori “sociali” del Novecento. Hopper non dipinge operai, manovali, lavoratori delle classi meno specializzate: salvo alcune desolate e stupende immagini di stazioni di servizio perse nell’infinito delle strade della provincia americana, i suoi soggetti preferiti sono gli impiegati, le segretarie , i viaggiatori di commercio: un ceto medio insomma, che per la prima volta si rivela quale minuscolo ma terribile universo di illusioni, frustrazioni, solitudini, chiuso fra le pareti. Le scrivanie, gli schedari di un ufficio. Resta infine, un grande capitolo, quello del Fronte Nuovo delle Arti, la versione italiana del vasto movimento neocubista, di forte impronta socialcomunista, sviluppatosi sullo scenario internazionale durante gli anni della seconda guerra mondiale. Guidato da Renato Guttuso, il movimento ha vita piuttosto breve, anche per il dissidio interno fra i suoi componenti in merito all’iscrizione al Partito Comunista. Tuttavia, segna una stagione importante per l’arte e la cultura italiana. È interessante difatti notare che, la maggior parte dei “lavoratori” raffigurati dai pittori del Fronte Nuovo delle Arti siano contadini: un implicito segnale della reale situazione economica di un’Italia rurale, povera e tradizionale. Il fatidico boom economico e la nuova ondata di emigrazione interna verso le città industriali del Nord verrà tra qualche anno. Più rapida sarà l’evoluzione dell’arte, che fin dall’inizio degli anni ’50 entra nella magmatica fase dell’informale, la quale segnerà la fine di un tracciato storico - artistico e apre una fase del tutto nuova nei materiali, nei soggetti, nel rapporto tra artista e pubblico, nel concetto stesso di opera d’arte.


PELLIZZA DA VOLPEDO: IL PITTORE DEGLI UMILI E DEL QUARTO STATO

«La verità nell’arte è l’unità di una cosa con se stessa: ciò che è esterno fatto espressione con ciò che è interno».
Oscar Wilde

Attraverso queste poche parole, tratte dal Profundis di Oscar Wilde, si può cogliere il filo conduttore della pittura di Pellizza da Volpedo nel momento in cui le suddette le poniamo a confronto con una riflessione e interrogativo di una nota del 1888, quando Pellizza ha solo vent’anni: “Ogni età ha un’arte speciale. L’artista deve studiare la società in cui vive e capire l’arte che gli è adatta. Ma se facendo l’arte per la società dovesse tralasciare i suoi ideali?” La risposta viene dai quadri divisionisti maggiori, ed è in particolar modo nello straordinario Autoritratto simbolico del 1898-1899.
Secondo Pellizza l’opera d’arte doveva rivestire un duplice carattere, di fatto sociale e di prodotto autonomo dello spirito - principio affermato da Marx - il quale trova il momento di maggiore coesione nel Quarto Stato, “un’opera poderosa”, un “quadro sociale rappresentante il fatto più saliente dell’epoca nostra, l’avanzarsi fatale dei lavoratori”, Col “verismo schietto” dei ritratti esposti nel 1891,attraverso i quadri divisionisti che con obiettivi oscillanti da “arte per l’umanità” ad “arte per l’idea” (mai l’arte per arte! Dell’Aesthetic Movement, cui in parte lo avvicina il senso della bellezza decorativa), Pellizza propone un’arte che può essere una funzione della società presente, nel suo nucleo più nuovo e progressivo. Il principio democratico, l’espansività sociale, cui anche il quadro deve assolvere funge da fulcro basilare per la concezione pittorica dell’artista. Nel periodo della crescita della grande industria e del consolidamento del capitalismo, con l’affermazione del liberalismo riformista giolittiano che convoglia nella vita parlamentare il movimento operaio, cade la fiducia nel legame tra arte e politica. «Noi siamo dei disgraziati che dall’arte non sappiamo scindere la politica! Ma troveremo la via della liberazione, già ce l’addita la vergine natura coll’onda sua inesauribile della poesia», scrive nel 1903 a Ottorino Novi, compagno di fede socialista. L’artista deve annettere e incorporare la realtà sociale, per superarne l’instabilità e le contraddizioni, perché l’arte è un’armonia, attraverso ciò che è eterno e totalizzante: «la bella natura che assorbe l’uomo e lo annienta per campeggiare essa stessa folgorando la sua immortale bellezza», la “natura” che ha inteso “glorificare” nei momenti di massima espansione vitale e di potere sull’uomo, coi paesaggi puri, con Sole nascente.
Ma ora dopo una breve introduzione è doveroso concedere uno sguardo sommario ai momenti più impregnanti della vita di questo pittore prima di abbandonarci nello studio del Quarto stato. Nato nel 1868 a Volpedo, un piccolo centro della campagna alessandrina, Giuseppe Pellizza scelse di vivere lontano dalle capitali artistiche europee di fine Ottocento in un isolamento che rispondeva alla sua necessità di poter riflettere e operare in assoluta indipendenza. Nello stesso tempo, però, l'artista "si nutriva" di frequenti viaggi e soprattutto di continui scambi con i più importanti centri italiani che lo videro, di volta in volta, presenza significativa nelle maggiori rassegne espositive. Un profondo impegno critico connotò sempre la sua produzione consentendogli di raggiungere risultati di statura internazionale nell'ambito della tecnica divisionista usata anche come strumento flessibile e adatto ad inverare contenuti via via più impegnativi nel rapporto col vero, e nell’interpretazione simbolica della natura e della vita umana.
Sono particolari l’atteggiamento del giovane Pellizza nei confronti della scuola e lo svilupparsi parallelo della formazione pittorica umana. Gli studi accademici sono stati da allievo modello; dopo aver scelto e provato molteplici scuole (quelle di Brera a Milano, L’Accademia di Firenze, la Carrara di Bergamo), dimostrò una spiccata volontà di imparare e di migliorare, umiltà nell’apprendere, ma anche sicurezza nelle scelte e negli obiettivi. La fiducia nella funzione vitale e perfezionatrice del lavoro, l’apertura umana, che lo porta a stabilire rapporti amichevoli con i compagni di corso, sono tratti dal suo modo di essere che devono molto alla condizione familiare. I Pellizza erano da due generazioni piccoli proprietari terrieri e viticoltori di Volpedo, borgo agricolo del Monferrato, allora in espansione. La loro sicurezza si fondava sulla terra e sul lavoro. Il padre, Pietro Pellizza, era un uomo di campagna di mente aperta, di convinzioni radicali, garibaldino, per il re e antipapalino, informato degli avvenimenti politici attraverso la stampa, impegnato nella Società agricola operaia di Volpedo, evoluto abbastanza da assecondare la vocazione artistica dell’unico figlio maschio.
Il ruolo del paese natale, comprensivamente, dal punto di vista della configurazione del paesaggio, dell’umanità, della famiglia, è cruciale per il definirsi di ciò che per lui è verità, realtà, per ciò materia d’arte.
In riferimento a tutto questo, che è anche una dimensione interiore, Pellizza può stabilire ed equilibrare il rapporto col fuori: i luoghi di apprendimento del mestiere, il patrimonio di informazione sull’arte del passato, il confronto con altri artisti, la cultura allargata alla letteratura, alle scienze sociali. Perché ogni rapporto è materia di riflessione e di scelta; il contatto coi centri vitali d'arte- Milano, Firenze, Roma, Parigi , le grandi esposizioni - gli è necessario, ma non è fuorviante per la perdita del suo centro vitale; come non lo saranno il divisionismo e i cambiamenti tematici. Giunto al termine di questo tirocinio, egli decise di fermarsi a vivere e a lavorare nel proprio paese natale. Tale decisione fu consolidata dal matrimonio contratto nel 1892 con la diciassettenne Teresa Bidone, una ragazza di umili origini, ma che gli fu compagna insostituibile, non solo collaborando con i suoi genitori nella conduzione delle terre di famiglia, ma anche imparando a leggere, a scrivere e a far di conto, per poter condividere tutti i suoi problemi.
Dal 1892 inoltre egli cominciò ad aggiungere al suo cognome quel “da Volpedo” che (forse in partenza usato come un vezzo desunto dai quattrocentisti, che aveva imparato ad amare frequentando i musei a Roma e a Firenze) finì poi per connotare costantemente la sua firma.
Iniziò ad inviare i suoi quadri alle prime esposizioni importanti, come la prima Triennale di Milano del 1891; ben presto divenne conosciuto e cominciò a viaggiare per l'Italia al seguito delle sue opere, recandosi, dopo Milano, ad esempio a Genova nel 1892 per la grande mostra celebrativa della scoperta dell'America, e quindi di nuovo a Milano nel 1894 per la seconda Triennale, e ottenendo importanti riconoscimenti.
Nel frattempo egli aveva adottato la tecnica del divisionismo e viaggiando poteva confrontarsi con gli altri pittori che usavano questa tecnica, soprattutto Segantini, Morbelli e Longoni, e in parte anche Previati, e con altri illustri artisti. Giunto a tale tecnica, Pellizza ebbe il merito di intenderla immediatamente per quella che era: non una scuola, ma un mezzo tecnico per riprodurre “con le materie coloranti le vibrazioni dei raggi onde si compone la luce”, e che si riattacca al naturalismo. Era una conquista di cui un pittore non poteva avvalersi, in un’ottica progressista e d’allargamento dell’incidenza sociale delle arti figurative; le prime prove, fatte sul suggerimento di Nomellini, dopo aver visto i suoi quadri nell’incontro a Genova nel 1892, lo avevano convinto della maggiore brillantezza e luminosità dei colori usati puri, a tratti, a punti. Adottare il divisionismo significherà per lui sacrificare un ideale”, adattarsi ad una
Tecnica laboriosa e lunga per i risultati che dava: aumentare l’efficacia dell’opera d’arte e il suo potenziale sociale. Poiché la luminosità che poteva ottenersi con i colori puri e la sintesi ottica era più del doppio di quell’ottenuta con colori mescolati sulla tavolozza. Il divisionismo portava a un rapporto diverso con il “vero”, fatto di equivalenze e di modificazioni; il reale poteva essere elaborato con il pensiero, modificato, attenuato, esagerato, alterato persino, se questo giovava a esprimere meglio il pensiero dell’artista. In “Le due madri” (1889) Segantini riusciva a dare una viva impressione della realtà tangibile; nello stesso tempo, con l’intensificazione dell’effetto di luce della lanterna nella stalla, rafforzando l’intensità luminosa con la fusione ottica, comunicava un senso di intimità, di calore affettivo, mistero e silenzio. Il quadro diventava la glorificazione della maternità universale, umana e animale. Come nei ritratti, così anche negli altri generi di pittura in cui ci si esercitava allora nelle accademie, cioè nei paesaggi e nella nature morte, Pellizza aveva raggiunto il massimo dei risultati che poteva conseguire, quanto a luminosità e a costruzione di una veduta convincente e aderente al vero, usando il mescolarsi del colore sulla tavolozza: si vedano ad esempio rispettivamente “La piazza di Volpedo” del 1888 e “Le zucche” del 1889.
Questo sistema tradizionale era basato sulla convinzione che dovesse essere il pittore a rendere il colore luminoso; le acquisizioni scientifiche ottocentesche suggerivano invece che la luminosità è un prodotto non oggettivo ma soggettivo, poiché l'occhio umano, ricevendo attraverso le sue capacità percettive i vari impulsi dalla natura, riunifica all'interno di una sorta di camera oscura le lunghezze d'onda luminose provenienti dagli oggetti e le rimescola con attivo lavoro personale. Recenti scoperte avevano infatti dimostrato che la luce non è bianca, ma composta dal miscelarsi nell'occhio dell'osservatore di più stimoli percettivi provenienti dai sette colori dell'iride.
Alcuni pittori, fra cui Pellizza, decisero di impiegare la scomposizione dei toni come strumento per operare in pittura. I ritratti del padre e della madre, che si trovano nello studio di Volpedo, evidenziano che già fra 1890 e 1891 Pellizza aveva cominciato a non servirsi più di stesure uniformi di colore, ma di pennellate più piccole, accostate l'una all'altra. In dipinti di paesaggio successivi, si può notare come Pellizza abbia ormai decisamente optato per la picchiettatura, abbia cioè ridotto la pennellata all'accostarsi di piccoli punti e di linee sottilissime, magari anche a movimento circolare; inoltre incomincia a ottenere effetti d’oscurità e di ombra senza ricorrere al nero, ma usando dei colori come il rosso ed il giallo affiancati al blu di fondo, facendo in modo che si fondano nell'occhio dell'osservatore: emblematico in questo senso è Panni al sole, databile attorno al 1894.


IL QUARTO STATO

Il Quarto Stato rappresenta un vero e proprio quadro – simbolo del nuovo atteggiamento dell’arte nei confronti del mondo del lavoro, dei suoi protagonisti e dei suoi problemi. Come è noto, Pellizza da Volpedo ha lavorato al dipinto per circa un decennio, pervenendo alla stesura definitiva (conservata nella Galleria d’arte moderna di Milano) nel 1901.Le due versioni precedenti, intitolate Fiumana e La marcia dei lavoratori, segnano le tappe progressive dell’elaborazione stilistica e soprattutto, dei contenuti. Del tutto innovativa anche rispetto alle idee iniziali della monumentale composizione, è infatti la presenza in prima fila di una donna con il figlioletto: questa Figura allarga la scena verso un orizzonte nuovo, dalla “massa” degli operai in marcia alle loro famiglie. Il Quarto Stato è un’opera grandiosa, quasi del tutto immune dal contagio della retorica che appanna talvolta l’arte. E’ anche il parametro su cui valutare la pur notevolissima fioritura d’opere di soggetto sociale all’aprirsi del Novecento, prevalentemente sulla base tecnico-stilistica del divisionismo, la versione italiana e innegabilmente originale del pointillisme post-impressionista.
Ma ora ripercorriamo passo per passo le fasi di componimento di questa emblematica opera d’arte che sarà destinata a rappresentare i diritti dei lavoratori fino al XXI secolo.
Pellizza pensava ad un quadro sociale almeno dal 1891, quando aveva fatto un bozzetto, seguito da altri del 1892, di una scena ambientata nella Piazza Malaspina di Volpedo presa diretta sul vero centrato su una situazione luminosa, con uno sciopero, desunto da appunti e schizzi di manifestazioni per il caro - pane cui aveva assistito a Milano. Un soggetto di denuncia di una condizione di miseria, che intendeva intitolare “ambasciatori della fame”, con riferimento ai due personaggi più avanzanti, designati dai compagni per le loro qualità a fare da portavoce per chiedere al padrone, non con le minacce e la violenza, ma con la fermezza, quello che spetta loro di diritto.
I due sono le punte avanzate di una categoria che deve fidare in se stessa, e per questo sviluppare le facoltà dell’intelligenza e del pensiero. Una precisazione importante, affidata ad appunti paralleli alla definizione del soggetto, che porta la sua idea a combaciare con le posizioni più consapevoli del socialismo. I lavoratori devono diventare una forza, una potenza capace di emanciparli dalla schiavitù in cui vivono; e la borghesia non avrebbe potuto arrestare il grande “cammino” di questa idea (1° Maggio 1892, giornale delle associazioni popolari milanesi).
Il principio dell’emancipazione del popolo deve diventare coscienza ed essere reso pubblico in modo “forte, calmo, inesorabile”. Con una sottile proiezione personale, Pellizza si allinea con le posizioni della Critica sociale di Turati, alla vigilia della costituzione del partito socialista (agosto 1892): la possibile collaborazione degli intellettuali democratici che tendevano al socialismo, con lo slittamento dalla democrazia radicale al socialismo, sulla base di una coerenza tra positivismo, socialismo e materialismo. Ma solo nel 1895 si sente pronto a iniziare (il 16 luglio) una grande tela, utilizzando quelle prime prove. La padronanza del divisionismo, i fondamenti di cultura sulla storia del pensiero sociale e sull’attualità, assimilate dalle letture, e soprattutto il concreto sostegno dei fatti- il successo dei socialisti alle elezioni generali del 1895; successo popolare ratificato dalle elezioni del 1898- gli danno la sicurezza necessaria per dare forma alla sua aspirazione dell’equità, fondata su una “forte idea”: l’inarrestabile avanzata dei lavoratori e la convinzione che essi erano la parte migliore della società, gli “antesignani del progresso”. Un ceto giovane, in cui il vigore e la robustezza si sommano all’intelligenza e all’istruzione, e all’“onesto pensiero”.
È questo potente ideale a suggerirgli per il titolo un riferimento al mondo fisico, implicitamente integrando quel poderoso fenomeno nella totalità del sistema della natura. Il popolo come “fiumana” crescente allagherà e si sovrapporrà alle altri classi diventando esso governatore e signore, perché alla robustezza del corpo unisce la diffusa istruzione.
«Egli che è vigoroso di corpo diventerà presto anche di mente vigorosissima e darà il crollo alla fiacca aristocrazia.. essa ha in sé i germi della distruzione e soccomberà infallibilmente». È la prospettiva della rivoluzione democratica sostenuta da Turati.
Una luce dalla «tonalità scura quantunque dardeggiata dal sole, un tramonto rosseggiante; una massa di popolo, di lavoratori della terra i quali intelligenti, forti, robusti, uniti, s’avanzano come “fiumana” travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere il luogo dove ella trova equilibrio». La folla dei personaggi è portata in primo piano, è abolito lo stacco d’ombra; tutta la composizione è tenuta su una scala di valori e rapporti di colori blu, giallo dorato, verde, dati a pennellate a trattini e puntini. L'impianto geometrico risponde all'idea piramidale che egli aveva della società, tanto migliore quanto il vertice era alla base. vertice sono le figure in posizione avanzata, “la parte eletta dai lavoratori alla testa della fiumana che quasi tranquilli nel loro “onesto” pensiero avanzano... i lavoratori che hanno educato la mente, gli “antesignani del progresso”; l’uguaglianza sarà in avvenire.
Larga base è la folla avanzante, un secondo vertice si perde nell’indeterminatezza del fondo con la folla che suggerisce una crescita illimitata. Pellizza considerava Fiumana un quadro simbolico con cui voleva «stabilire che la forza vera sta nei lavoratori intelligenti e buoni i quali con la tenacia nei loro ideali obbligano gli altri uomini a seguirli o a sgombrare il passo perché non c’è potere retrogrado che possa arrestarli». Nella decisione di lasciarla incompiuta, pur avendovi lavorato fino al 1898, e cominciare una nova tela più grande, le difficoltà tecniche (errori nel rapporto dei toni) e l’impossibilità di risolverle in quella stessa tela, coincisero con un cambiamento di intenzione e di significato, evidente nella revisione sia dell’impianto generale che della resa formale delle parti e dell’insieme. Doveva chiamarsi esplicitamente il cammino dei lavoratori, e il modo di procedere, l’impianto, lo spirito denunciavano il suo debito ai grandi maestri antichi. Sentì la necessità di fare cartoni al vero delle figure principali e di gruppi, magnifici disegni finiti per cui posarono contadini volpedesi, perché i personaggi dovevano essere di un disegno robusto, forte, compatto, «doti che rendono inespugnabile chi le possiede».
Un capo come quello della Fiumana dovrebbe essere fatto grandiosamente grandi masse di luce e grandi masse d’ombre modellanti grandi piani. Deve essere semplice, grandioso, com’è semplice e grande il suo carattere.. La posa deve essere naturale, spontanea senza pesantezza, debba parer muoversi.”.La linea ondulata unisce la massa delle figure più portate ad una forma continua, e si ripete nella linea del paesaggio dalla quinta vegetale che chiude il fondo al cielo.
La fattura a divisione è sistematica, a piccole pennellate di colori, dimensione e forma diverse accostate, una pittura leggera dalle ombre trasparenti, che dà una luminosità diffusa, chiara e uniforme nel terreno in piena luce e sulle figure, più scura nel fondo e nel cielo.
Vi è in questa chiarezza e forza, nel desiderio di accedere e un nuovo classicismo, la volontà di dare maggiore forza di impatto all’idea di “glorificazione” di una classe, e vi contribuiva il titolo più secco e avveniristico, Il Quarto Stato, scelto a quadro finito, suggeritogli probabilmente da una frase di un articolo da Sempre avanti! Giornale socialista per gli umili e i pratici: ad un secolo dalla rivoluzione francese si sta delineando un quarto stato (così chiamiamo talvolta la classe lavoratrice) che si accinge a rovesciare il terzo!

La ricerca formale presente nella tela è di altissima qualità: la composizione è perfettamente calibrata e conchiusa e la massa avanzante non è inerte, ma il gestire delle mani, dei piedi e il gioco delle ombre movimentano la sua rappresentazione producendo un'ondulazione che si riallaccia ai moduli espressivi presenti ne Lo specchio della vita. Le linee rette ed ondulate si equilibrano suggerendo l'avanzare lento, calmo e pacato ma ineluttabile di una nuova classe, forte della sicurezza che le deriva dalla consapevolezza del proprio ruolo storico.
La tecnica divisionista con cui la tela è condotta ha raggiunto effetti di estrema sapienza, perfettamente rispondente agli scopi del pittore: nei personaggi è presente quella "atmosfericità" o assoluta mancanza di inerzia della materia che già abbiamo visto, soprattutto in Sul fienile e che possiamo ammirare, ad esempio, anche in Membra stanche o Famiglia di emigranti.
Non è un caso, inoltre, che in quest'opera, un affresco di storia contemporanea, si affacci una serie di suggestioni provenienti dalla tradizione pittorica: ad esempio, la figura dell'uomo con il bambino riprende il tema di Tobia e l'angelo della pittura rinascimentale e l'uomo che regge la cesta si ispira alla Stanza di Eliodoro di Raffaello. Anche la forza e l'eloquenza dei gesti degli altri personaggi rimanda direttamente a Raffaello: la gestualità accentuata, soprattutto delle mani, che Pellizza aveva studiato a fondo fin dagli anni giovanili, si ritrova infatti nelle opere di Raffaello che si collocano tra il 1515 e il 1520 come strumento raffinato di retorica per influsso dell'oratoria, che a sua volta aveva recuperato suggerimenti dall'oratoria antica.

Nel 1902 espose Il quarto stato alla “Quadriennale torinese”, sperando di ottenere un grosso riconoscimento. Non fu così, ma ciò non costituì un motivo di grave sconforto per Pellizza, che piuttosto rimase profondamente colpito dal mutamento, in questa circostanza, dei rapporti che aveva instaurato con molti dei suoi amici. I grandi temi della giustizia sociale, dell'uguaglianza e della libertà che il quadro rappresentava innescarono infatti una serie di polemiche e crearono un certo sconcerto tra di loro. Il quarto stato, pur volendo dar conto di una determinata realtà, non si prestava certo a facili strumentalizzazioni, cosicché deluse sia chi pensava che sarebbe stata un'opera assolutamente idealistica, sia chi l'avrebbe invece voluta più esplicitamente schierata. Pellizza dunque, interrottosi il confronto che lo aveva arricchito finora con alcuni letterati e artisti del tempo, si ritrovò più solo.
Per di più nel frattempo era morto Segantini, a lungo suo punto di riferimento ideale; l'unico a rimanergli vicino fu Morbelli, che era un grande pittore, ma non aveva la stessa ampiezza di interessi di Pellizza.
Egli si ritrovò quindi con una vita di relazioni da ricostruire, cosa che fece tra 1903 e 1904, rinsaldando i rapporti con qualche piemontese, in particolare Matteo Olivero e Giovanni Cena. Cena era corrispondente di vari giornali italiani da Londra, dove aveva vissuto tra 1902 e 1904, e aveva interessi affini a quelli di Pellizza: era vicino alle classi popolari senza essere ostinatamente populista, aveva una cultura umanistica di grande respiro e mostrava interesse anche per il simbolismo.
In questi anni Pellizza non viaggiò molto, fino al 1904, quando decise di intraprendere un viaggio nei luoghi segantiniani, in Engadina. Dedicandosi alla pittura di paesaggio, infatti, aveva sentito il bisogno di riflettere maggiormente sull'opera di Segantini, perciò volle andare a visitare le alte vette che avevano spesso ispirato l'artista ormai scomparso.
Nel frattempo aveva dipinto ottimi quadri che avevano iniziato a circolare nuovamente per le esposizioni italiane e internazionali.
Nel 1906 riuscì a realizzare il suo progetto di un nuovo viaggio a Roma, dove trovò ad accoglierlo Giovanni Cena, che sperava di fare di lui il pittore della campagna romana. Il soggiorno romano fu importante, poiché gli permise di vendere due opere: infatti, anche se egli aveva esposto con continuità i suoi quadri nei primi anni del '900, non aveva venduto quasi nulla, tranne qualche ritratto eseguito su commissione.
Sempre nel corso del 1906, in occasione dell'esposizione di Milano, vendette altre due opere, di cui una allo Stato, sorta di risarcimento tardivo del mancato acquisto del Quarto stato. Si trattava del Sole, che ebbe quale ambita motivazione di acquisto la destinazione alla istituenda Galleria d'Arte Moderna: ancora oggi il quadro è a Roma, patrimonio della Galleria Nazionale.

Questo sembrava per Pellizza l'inizio di un periodo nuovamente fortunato, coronato dal riconoscimento della validità delle scelte di arte e di vita da lui perseguite con tenacia e rigore.
Ma nel 1907 la morte, in conseguenza di un parto sfortunato, del figlio (il terzogenito, dopo le due bimbe Maria e Nerina, nate rispettivamente nel 1898 e nel 1902) e dell'amatissima moglie, causarono una profonda depressione all'artista, che si tolse volontariamente la vita nel proprio studio la mattina del 14 giugno.


DIVISIONISMO

«Cercare un segno unificante che vada da Segantini a Balla significa tracciare un percorso in un mondo pittorico che vive di uno sguardo educato dalla velocità, dai mutamenti prospettici, dall'esplosione di movimento e di luce, che termina però nella sfida che percorre tutto il Novecento: quella di rappresentare l'irrappresentabile, ovvero la spiritualità del Lumen» (Marisa Vescovo).

L'arte italiana dell'Ottocento registra in tutte le sue manifestazioni una forma di ritardo e di isolamento rispetto a quella europea (francese in particolare), poiché da un lato non riusciva a sentir propri i valori della civiltà contadina, che era in via di superamento a causa dei processi borghesi di unificazione nazionale, dall'altro non poteva ancora riflettere i valori e le contraddizioni della stessa società borghese, che nel nostro paese si manifestavano solo in certe aree territoriali e che solo a fine secolo cominciarono a diffondersi decisamente in tutta la penisola.
In pittura si formano correnti o scuole regionali o addirittura locali, favorite dalla frantumazione dell'Italia in tanti piccoli Stati: una divisione che non scompare, dal punto di vista culturale, neppure dopo l'unificazione.
Permane quindi, lungo quasi tutto il corso del secolo, un filone di pittura accademica, che predilige temi storici (medievali o rinascimentali), anche con una superficiale vena romantica (p. es. Il bacio di F. Hayez), e che dimostra scarso contatto con la realtà sofferente del mondo contadino (unica significativa eccezione è appunto il Pellizza) e che nei confronti di quella emergente della borghesia appare sì attenta ma non ancora profondamente coinvolta, come invece lo sarà la pittura francese più innovativa (p. es. romanticismo di Delacroix - La libertà, realismo di Courbet - Bonjour monsieur Courbet, la pittura di “sensazioni” degli impressionisti).
Due correnti artistiche acquistano tuttavia un certo rilievo nella seconda metà del secolo: quella dei macchiaioli e quella dei divisionisti. I primi sono un gruppo di pittori attivi a Firenze, che intendono reagire alla pittura romantica ed accademica, sia cambiando i soggetti (li traggono, ad es., dalla vita e dagli avvenimenti del tempo), sia abolendo il disegno, trascurando il dettaglio e rendendo la visione d'insieme con vivaci "macchie" di colore. Nascono così i dipinti di vita borghese di Silvestro Lega - Il pergolato e di Giovanni Fattori - Il muro bianco (che ha narrato anche momenti di vita militare del risorgimento italiano).
La teoria dei macchiaioli è quella secondo cui il pittore deve rendere esattamente ciò che l'occhio percepisce, cioè macchie colorate di luce e di ombra, senza pregiudizi culturali di sorta.
Verso la fine del secolo alcuni pittori dell'Italia settentrionale, in particolare Giovanni Segantini - Trittico delle Alpi, la morte, e Giuseppe Pellizza da Volpedo, si collegano alle ricerche francesi postimpressioniste (in particolare al puntinismo di Seurat - Il canale di Gravelines, e Signac - La sala da pranzo), e scompongono il colore in minuti trattini, nelle sue componenti primarie, stese in tante piccole pennellate, non nel senso scientifico e distaccato dei pittori francesi, ma con una profonda partecipazione emotiva, e in tal senso il divisionismo italiano appartiene ancora in parte alla cultura romantica.
Segantini ama la montagna, i suoi silenzi, la solennità della natura. Pellizza predilige le tematiche del mondo contadino, nonché le lotte dei lavoratori, che cominciano ad emergere proprio in quel periodo.
Dal divisionismo muoveranno artisti come Balla, Boccioni, Carrà, Severini che daranno poi origine al futurismo, il primo movimento artistico italiano moderno di portata europea.
Le province dell’Italia settentrionale sono le prime in cui, alla fine dell’800, inizia a svilupparsi un’economia industriale; inoltre in Lombardia, tra il ‘50 e il ‘60 si comincia ad avere notizia delle novità artistiche francesi. La volontà di confrontarsi con la realtà delle cose, espressa da una cultura artistica tutta protesa verso un radicale ripensamento della propria funzione e dei propri mezzi, dà vita a tentativi ed esperimenti diversi e al determinarsi di interessi tecnico-scientifici e di slanci progressisti .In questa situazione si sviluppa l’esperienza dei Divisionisti, in cui confluiscono istanze sociali, irrequietudini estetiche e un serrato confronto con le indicazioni provenienti dalle più avanzate ricerche scientifiche .Nel Divisionismo si coglie anche una ripercussione del Neo-Impressionismo francese, dal quale però si differenzia: allontanandosi dall’idea di arte-ricerca esso punta maggiormente su un’arte dal carattere simbolico. Il Divisionismo infatti, per non aver compiuto l’esperienza Impressionista, rimane prevalentemente una tecnica al servizio dello “spirito”: della retorica allegorica di Previati, dello spiritualismo e simbolismo di Segantini, dell'ideologia Politica di Pellizza. Esso rappresenta comunque le istanze artistiche italiane più avanzate fra gli ultimi due decenni dell’800 e il primissimo ‘900, con radici che affondano nel naturalismo romantico degli Scapigliati, ai quali si devono le prime puntuali ricerche sugli effetti di luce e sugli "avvolgimenti" atmosferici.
Un contributo importante al diffondersi della ricerca divisionista è dovuto all'opera di Medardo Rosso, egli infatti, realizzando le sue suggestive sculture, si è via via allontanato dalla materia per spingersi verso la ricerca della luce.


IL LINGUAGGIO DIVISIONISTA

Il Divisionismo, definito poeticamente da Angelo Morbelli «la prospettiva dell’aria», assume come linguaggio pittorico la tecnica dell’uso “diviso” dei colori complementari, suggerito sia dall’interesse per le riflessioni cromatiche, sia dall’attenzione ai meccanismi, anche psicologici, della visione, grazie alle indagini alle quali si dedicano, oltre che artisti, scienziati e filosofi. Come già accennato, alcuni artisti, che adottano la tecnica divisionista, si connotano anche per il loro atteggiamento populista, distinguendosi anche per la graduale presa di coscienza di classe, l’impegno sociale e umanitario. L’esempio più esplicito è dato dalle tele di Morbelli e dal “Quarto stato” (1901) di Pellizza. Nelle opere di Morbelli prevale l'aspetto populista, ma il realismo delle immagini è intessuto in una fitta rete di pennellate eseguite a tratti e minuscole linee, come in “Un Natale al Pio Albergo Trivulzio” (1909), oggi alla Galleria d'arte moderna di Torino. La ricerca cromatica di Pellizza da Volpedo nel “Quarto stato” è superata dall’idea, quest’opera è definita dall’amico Morbelli “arte superiore non formata soltanto di tecnica, ma anche di pensiero”.


I DUE POLI DIVISIONISTI ITALIANI

Il Divisionismo si diffonde in più parti d'Italia, ma il centro artistico principale resta a Milano, dove nel 1981 alla Triennale d'Arte di Brera, gli artisti si trovarono affiancati casualmente per la prima volta: Segantini espone tra l'altro l'opera
“Le due madri” (1889),che si contrappone come esempio di “Divisionismo naturalistico” al simbolismo idealizzante di Previati; Morbelli presenta opere realizzate con una tecnica rigorosamente puntinista mentre Longoni dimostra un interesse evidente ai problemi della luminosità.
Un nuovo polo di ricerca divisionista si organizza a Roma, verso il 1985, intorno a Giacomo Balla.
Preminente, per Balla, rimane il culto scientifico dei valori ottici, con conseguente rifiuto di ogni evasione mistico-simbolista. Frequentano lo studio di Balla, Boccioni e Severini, che in seguito troveranno anche nella separazione del colore un mezzo efficace per esprimere la dinamica del movimento futurista.


IL PERCORSO DI MARIO SIRONI

Nato a Sassari il 12 maggio 1885, da padre ingegnere, professione alla quale egli stesso viene avviato abbandonerà presto gli studi universitari, dedicandosi alla pittura, frequentando lo studio di Giacomo Balla a Roma, città dove si era trasferito nei primi anni del Novecento. Tramite quest'ultimo, stringerà una forte amicizia con Severini e Boccioni, entrando dunque nel novero dei pittori che stavano evolvendo l’esperienza divisionista o genericamente post-impressionista, nella direzione del futurismo. Disegni architettonici risalenti al 1910-1912 hanno notevoli affinità con quelli del primo Sant’Elena.
Dopo una serie di viaggi e soggiorni a Milano, a Parigi e in varie città della Germania, nel 1914 si trasferisce definitivamente a Milano, prendendo parte attiva al movimento futurista; Le potenzialità che maggiormente lo attraggono in questo movimento artistico sono soprattutto quelle legate alla sperimentazione tecnica (il collage in particolare) e all'uso del colore; con i componenti di quel gruppo, allo scoppio della guerra si arruola volontario nel battaglione lombardo ciclisti. La parentesi futurista è pressochè l’unico momento in cui Sironi compie opere astratte o comunque fortemente schematiche; Le prime opere che si possono dire di ispirazione futurista sono: Aeroplano, Danzatrice, Arlecchino, L'atelier delle meraviglie, L'elica, realizzate tra il 1915 e il 1916. Nell'ambito della produzione futurista egli si distingue per l'attenzione verso il volume, di solido impianto, e il valore espressivo del colore. Ma anche all’interno di questa stagione i quadri di maggiore vigore fanno riferimento a immagini mimetiche, come l’Autoritratto del 1913. Anello di congiunzione tra il momento in esame e le esperienze plastiche dell’immediato dopoguerra può essere considerato Il camion del 1917, dove la scomposizione avanguardista, ancora in atto non esclude una compattezza formale la cui drammaticità giustifica la lettura di Sironi in chiave espressionista. Nel medesimo periodo Sironi avvia una sistematica attività di illustratore che sfocerà nella collaborazione fissa al “Popolo d’Italia”, dove egli pubblicherà anche articoli diversi e interventi polemici. Dopo qualche esperienza giovanile, Sironi si dedicò all’illustrazione soprattutto durante la guerra, disegnando copertine e predisponendo tavole per la rivista Noi e il Mondo, per il settimanale illustrato Gli avvenimenti e per altri fogli; dal 1917 collaborò a Le industrie italiane illustrate, e in alcune di quelle tavole si manifesta già chiaramente il suo stile insieme plastico e secco. La collaborazione al Popolo d’Italia e alla Rivista illustrata del medesimo giornale è sostanzioso contributo al foglio politico.
La sua prima mostra personale è del 1919, alla casa d’arte Bragaglia, a Roma; le opere presentate hanno un’intonazione metafisica; ma nel 1920, alla mostra futurista ,nel Palazzo Cova, a Milano, presenterà ancora opere di quella tendenza. La sua produzione agli inizi degli anni Venti mantiene caratteri di tipo avanguardista, che tendono però ad assestarsi in forme più monumentali a mano a mano che si va determinando la poetica poi indicata come “novecentista”. Sono di questi anni le prime “periferie urbane” e soggetti consimili, che l’artista riprenderà in diversi periodi e costituiranno anzi una sorta di “basso continuo” sullo sfondo di tutta la sua attività. Nel 1922 Sironi fa parte del gruppo fondatore del Novecento; partecipa alla prima mostra del gruppo medesimo alla galleria Pesaro, nel 1923, e l’anno dopo alla Biennale di Venezia, sempre nella sala dei novecentisti, con due capolavori che possono essere considerati punti assoluti di riferimento per la poetica del nuovo movimento L’architetto (1922) e L’allieva (1924). In ambedue, come poi in Solitudine (1925) e in alcuni altri quadri del medesimo periodo, l’artista raggiunge un equilibrio perfetto tra purismo novecentista (L’allieva ha addirittura un atteggiamento da quadro raffaellesco), retaggio dell’avanguardia e proposta di valori assoluti fuori dal tempo. Quando, l’anno seguente, si forma il Comitato direttivo del Novecento italiano, Sironi entra a farne parte, assumendo a poco a poco una posizione sempre più rappresentativa all’interno dell’Istituzione, sia con il partecipare a tutte le mostre da questa promosse in Italia e all’estero, sia con lo svolgere un ruolo primario nelle polemiche che si scatenano soprattutto dopo il 1930. Nel 1927 è tra gli organizzatori del Sindacato lombardo fascista per le belle arti. Nel 1931 espone anche alla prima Quadriennale d’arte a Roma con una sala personale, nella quale fanno spicco, oltre alla ormai “classica” Allieva, due versioni della famiglia, opere in cui appare evidente la maturazione del suo stile. Vincitore nel 1931 di un premio internazionale a Pittsburgh, nel 1932 è il principale organizzatore, con gli architetti Libera e Terragni, della mostra romana per il decennale della rivoluzione fascista, allestita nel palazzo della Quadriennale. Successivamente il suo impegno in progetti collegati all’architettura lo vedrà affiancare l’opera di architetti tra i più significativi del periodo. Nel 1931 aveva disegnato i cartoni per l’enorme vetrata del Ministero delle Corporazioni (ora dell’Industria e Commercio), progettato da Piacentini; dopo aver strutturato e allestito la mostra della rivoluzione, dirige il complesso degli interventi pittorici e scultorei nel Palazzo della Triennale milanese, opera di Giovanni Muzio, predisponendo in particolare la sala dedicata al tema del lavoro e fornendo anche disegni e bozzetti per statue e rilievi. Durante la guerra, dovendo rinunciare all’esecuzione di altri grandiosi progetti per opere murali, ritorna alla pittura di cavalletto: segno di una crisi non solo operativa ma esistenziale. I suoi quadri intensificano drammaticamente soggetti e soluzioni compositive da sempre care all’artista, quali le vedute urbane, i montaggi di figure classicheggianti a mo’ di rilievi scultorei posti a parete, che spesso traducono un senso di angoscia e una cupa visione della vita (la giacca azzurra, 1955; Colloqui, 1956): sino all’acre Il mio funerale del 1960, fra il tragico e il grottesco. Muore a Milano il 13 agosto 1961.


I PAESAGGI URBANI E LE PERIFERIE DI SIRONI

Il muralismo di Sironi ha rappresentato in Italia un profondo rinnovamento della pittura celebrativa, interrompendo un costume allegorico - narrativo che dal simbolismo fine Ottocento non aveva subito modifiche sostanziali e che negli anni Venti aveva ancora campioni significativi e attivi in De Carolis e Sartorio. La svolta degli anni Trenta, ha in lui uno dei protagonisti. Nel contempo la sua pittura di cavalletto è fra i documenti più importanti di un’arte capace di esprimere riflessioni ed emozioni per mezzo di una attenta ricerca del soggetto. Dopo la sua orte si è avuto un breve periodo di stasi nell’ interesse dell’artista; ma sono sempre state apprezzate e citate le sue opere di piccolo formato, soprattutto le celebri “Periferie urbane” nelle quali fin daglui anni giovanili Sironi testimoniava, con il senso della solitudine esistenziale, un’idea della vita sociale assai lontana dall’ottimismo futurista e che, non presentando implicazioni politiche specifiche, sfuggivano a ogni censura ideologica.
I primi paesaggi urbani di Mario Sironi si collocano tra il 1919 e il 1920; il tema era già stato affrontato dall’artista in chiave futurista, ma nei dipinti degli anni Venti la città assume un’immagine particolare, diventa pura astrazione senza un riferimento a un luogo preciso. Margherita Sarfatti nella su Storia della pittura moderna (1930) sottolinea il carattere “aristocratico” di queste visioni: “Sempre nitida e recisa nel segno, l’aristocratica pittura di Mario Sironi adombra vaste immagini, figurazioni aduste e solenni, addolcite da giuochi di penombre e profondi di smalti translucidi. Egli è uno fra i maggiori pittori d’oggi e sicuramente grandeggerà nel domani. E’ il pittore dei paesaggi urbani meccanici e implacabili come la geometria delle vite rinchiuse nei cubi delle case. Fra i rettifili delle strade.
L’attenzione alla plasticità del volume, rendeva Sironi più sensibile alla solidità plastica dei cubisti. Come scriveva Valsecchi, «la violenza riduttiva delle squadrature sironiane è proprio in antitesi col senso del moto, e l’immagine che ne deriva è piuttosto un’affermazione di energia chiusa, di presenza monumentale».
Sironi non condivide, infatti, l’ottimismo e la speranza nel progresso e nella macchina, propri dei futuristi, La macchina è per lui, un ulteriore mezzo di asservimento dell’uomo, che acuisce e rende inamovibile e più profonda la tragicità dell’esistenza. E il simbolo ne è la desolata solitudine del pur popolarissimo agglomerato urbano, che si fa quasi specchio dell’alienazione più cupa dell’uomo stesso.
È con l'inizio degli anni Venti che si manifesta la più autentica vena individuale del pittore, nella numerosa serie delle spettrali, solitarie e incombenti scenografie urbane che lo hanno reso famoso, opere nelle quali l'adozione degli scenari urbani si coniuga all'uso di colori densi e bituminosi, concretizzando quel senso di malinconia e solitudine che pervade l'opera del pittore.
Nelle periferie urbane Sironi ha espresso al meglio il proprio senso della modernità, in cui le ricerche plastiche del cubismo si fondono con una visione astratta del paesaggio, volta a dare un'interpretazione malinconica e introspettiva della città, sottraendola a qualsiasi riferimento naturalistico.elle periferie urbane Sironi ha espresso al meglio il proprio senso della modernità, in cui le ricerche plastiche del cubismo si fondono con una visione astratta del paesaggio, volta a dare un'interpretazione malinconica e introspettiva della città, sottraendola a qualsiasi riferimento naturalistico.
A partire dal 1919, gli scorci urbani di Sironi diventano veri e propri paesaggi, la visione si amplia, articolandosi in profonde prospettive. I caseggiati alti e solenni imprimono un carattere metafisico alla città moderna, proiettata verso il progresso industriale, di cui le fabbriche e le macchine diventano i simboli. Tuttavia, già emergono la desolazione e la solitudine che caratterizzeranno le città moderne, in cui la presenza dell’uomo è data da ciò che ha costruito.

Il percorso di Mario Sironi appare tra i più esemplarmente coerenti nella storia dell’arte italiana del nostro secolo; contraddistinto dai segni di una personalità inconfondibile, dalla forte riconoscibilità stilistica, Sironi si esprime con una asciutta intensità drammatica sia nelle imprese di impegno monumentale sia nelle opere a tematica privata. Eppure questo percorso attraversa, partecipandovi, fasi diverse e contrastanti della cultura e della vita pubblica, si immerge nell’ideologia fascista, e quindi attraverso il tracollo di essa, viene a conoscenza della crisi della sconfitta e della perdita di identità. L’opera di Sironi prende vita in un vero e proprio colloquio tra una profonda solitudine interiore e la volontà di partecipare a valori collettivi. Pittore di cavalletto, illustratore e anche caricaturista, scultore a rilievo scenografo e persino progettista di architettura e di arredi, l’opera di Sironi oltre che per una forte drammaticità, si esprime attraverso una ineccepibile professionalità.


...CONTINUA





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