mercoledì 22 aprile 2015

Gli anni Sessanta. Storia. Materiali per tesine. A cura di Claudio Di Scalzo

Gli anni Sessanta (Storia)





Con l’avvento della società industriale, la sempre maggiore facilità di produzione e disponibilità di tutti gli oggetti ha modificato il rapporto con le cose. Lo sviluppo illimitato è divenuto la sola regola dell’economia e ha dato luogo ad un rapporto immediato tra la produzione degli oggetti, il loro consumo e la loro distribuzione.
Si è venuta così a costituire una società nella quale, a partire dai primi decenni del Novecento, si è assistito a un estendersi quantitativo e a un farsi progressivamente indistinto di strati sociali medi e inferiori, che sono venuti assumendo tratti culturali e modelli comportamentali tipici delle masse. La loro affermazione è stata favorita dal forte aumento demografico, dalla concentrazione della popolazione in territori urbano-metropolitani, dalla diffusione della scolarità in strati sociali prima esclusi, dall'accesso universale al voto e dall'estendersi della partecipazione politica, da una produzione industriale standardizzata e alla ricerca di vasti mercati di consumo, dall'avvento infine di sistemi di comunicazione di massa.
In Italia abbiamo avuto due svolte fondamentali in direzione dello sviluppo del consumismo:
- alla fine dell’800, quando si passa nella distribuzione dei beni dalla bottega artigiana al negozio;
- la seconda svolta è costituita dal boom economico degli anni 1958-1963, che fa diventare l’Italia uno dei 10 paesi più industrializzati del mondo. Esce dal primato dell’agricoltura, dove ancora dominavano valori come autoconsumo, spirito di sacrificio, etica del risparmio, ed entriamo nel primato dei consumi di massa, dove la struttura familiare è urbana e con pluriredditi.

Dalla fine della guerra agli inizi degli anni settanta tutti i paesi industrializzati, in particolare quelli inseriti nell’economia capitalistica di mercato, conobbero una crescita economica spettacolare; la produzione mondiale in termini reali (cioè senza tenere conto dell’aumento dei prezzi) si triplicò, mentre era solo raddoppiata nei cinquant’anni precedenti. Nei primi anni successivi alla fine dei conflitti, lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti. La guerra aveva dato un formidabile impulso all’economia statunitense, che ne uscì in una produzione di assoluto predominio. Con il 7% della popolazione mondiale, gli USA avevano un prodotto lordo pari a un terzo di quello dell’intero pianeta. Non da meno era il fatto che essi si trovavano nella posizione di paesi creditori a livello mondiale. I paesi europei, invece, vincitori e vinti che fossero, faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte dalla guerra; per combattere l’inflazione e la svalutazione della moneta, dovettero adottare politiche deflazionistiche (contenimento dei salari e dei consumi – riduzione delle importazioni) che rendevano difficile il rilancio della produzione.
Verso la fine degli anni ’50 il nostro Paese aveva senz’altro bisogno di cambiamenti politici, sociali, anche istituzionale che l’adeguassero alla silenziosa rivoluzione economica e strutturale degli anni precedenti. La ricostruzione era stata un prodigio ottenuto, anche grazie ai bassi salari e alla possibilità di attingere all’immenso serbatoi di mano d’opera meridionali.
«A metà degli anni cinquanta l’Italia era ancora per molti aspetti un paese sottosviluppato. L’industria poteva vantare un certo progresso nei settori dell’acciaio, dell’automobile dell’energia elettrica e delle fibre artificiali, ma era confinata principalmente nelle regioni nord- occidentali. La maggior parte degli italiani si guadagnava ancora da vivere nei settori tradizionali: piccole aziende tecnologicamente arretrate con sfruttamento intensivo degli operai, pubblica amministrazione, negozi e piccoli esercizi commerciali e soprattutto agricoltura che continuavano ad essere il più vasto settore di occupazione. Il tenore di vita rimaneva assai basso: solamente il 7,4% delle case italiane possedevano l’elementare combinazione di elettricità, acqua potabile, servizi igienici interni». Cosi lo storico britannico Paul Ginsborg presentava la situazione socioeconomica dell’Italia alla vigilia di un decennio di rapido sviluppo (passato alla storia con il nome di miracolo o boom economico) che, pur tra gravi squilibri e storture, avrebbe trasformato la nostra penisola in un paese industrializzato.
Nel periodo di tempo compreso tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’Italia fu protagonista di un record di crescita nella produzione nazionale tale da far parlare di “miracolo economico”. L’apice dello sviluppo di questo trend positivo fu raggiunto tra il 1958 e il 1963. Questo fenomeno caratterizzò anche molti altri Paesi europei, tra cui la Germania e la Francia, in cui si verificò un miglioramento dello stile di vita. In questi anni l’Italia riuscì a ridurre il divario economico con l’Inghilterra e la Germania e a eguagliare sistemi economici come quello belga, olandese e svedese.
Nonostante il fenomeno si riferisca a un evento principalmente economico, esso ebbe una forte ripercussione sulla vita degli Italiani che in pochi anni cambiò radicalmente, in positivo o in negativo e portò nel nostro Paese un livello di progresso e benessere mai conosciuto nei periodi precedenti.
I fattori che determinarono tale svolta sono molteplici e da ricercarsi in ambiti differenti. Uno di questi è senza dubbio la fine del protezionismo e l’adozione di un sistema di tipo liberista che rivitalizzò il sistema produttivo italiano, favorito anche dalla creazione del Mercato Comune Europeo a cui l’Italia aderì nel 1957. Inoltre fu importante il ruolo svolto dallo Stato, caratterizzato da un notevole interventismo nell’economia. Infatti finanziò la costruzione di un gran numero di infrastrutture, essenziali per lo sviluppo economico del Paese, tramite stanziamenti statali e prestiti a tasso agevolato che ammontarono a più di 714 miliardi di lire; anche la Banca d’Italia mantenne un tasso di sconto estremamente favorevole per le nuove industrie italiane che permisero un più facile accumulo di capitali, al fine di agevolare gli investimenti. Nel 1959 Antonio Segni, Presidente della Repubblica di quel periodo,in un discorso tenuto nel Consiglio dei Ministri, sottolineò l’importanza dei lavori pubblici che rappresentavano l’unico rimedio possibile alla crisi congiunturale e alla disoccupazione.
Affianco all’industria di stato e al sistema bancario pubblico, ereditato dal fascismo, vennero così costituiti nuovi istituti: l'ENI (Ente nazionale idrocarburi), creato da Mattei nel 1953 (il suo aereo precipito causandone la morte, che rimane tutt’ora ancora un mistero), a cui venne affidato lo sfruttamento del più grande giacimento di metano scoperto nel 1946 nella valle del Po. Mattei aveva dei piani ben chiari per quanto riguarda la nuova organizzazione; infatti l’Eni sarebbe diventato uno strumento dei popoli poveri contro i popoli ricchi. Egli sosteneva che l’Italia doveva diventare un appoggio per i nuovi movimenti nazionalistici (soprattutto africani e asiatici) ed acquistare così, spazio sul mercato mondiale; la STET, nel settore della telefonia; la RAI con il suo monopolio televisivo. Contemporaneamente accanto alla Fiat, l’Olivetti la Pirelli (assi portanti del miracolo economico italiano degli anni ’60, perché aveva esteso la sua presenza all’estero sino a diventare un gruppo multinazionale) e al ricco tessuto di medie e piccole imprese caratteristico del settore industriale italiano si affiancarono nuove grandi imprese (la Piaggio – l’Innocenti). In questi anni insomma, il sistema industriale italiano accentuò il suo carattere misto fra pubblico e privato. L’Italia riuscì ampiamente ad imporsi nel campo degli elettrodomestici, dell’automobilismo e delle manifatture; infatti in questi anni nascono le grandi industrie italiane la cui produttività aumentava progressivamente grazie alle nuove tecnologie da loro utilizzate. Fiat, Zanussi, Candy, Olivetti, sono solo degli esempi del passaggio di un’Italia fondamentalmente agricola ad un Paese dove l’industria ere il settore maggiormente produttivo.
L’alta tecnologia impiegata nei processi produttivi permise alle imprese di autofinanziarsi più facilmente, perché non era necessario assumere manodopera; inoltre la stabilità dei prezzi portò a un relativo contenimento dei salari, a un sempre maggior investimento produttivo e a una crescita dei consumi.
Una distorsione venne riscontrata a livello di consumi individuali, proprio a causa del diverso dinamismo e ritmo di crescita dell’economia. Infatti, i beni primari risultavano proporzionalmente più costosi rispetto a quelli secondari, proprio perché la volontà di emulare le ricche società europee aveva causato un salto troppo brusco per un Paese ancora provinciale e contadino, dove spesso l’auto era un necessario status-symbol e i servizi igienici solo una comodità di pochi.
Lo sviluppo industriale che si verificò in Italia fu sorprendente e contribuì a cambiare l’opinione pubblica mondiale, che era abituata a considerare gli Italiani come europei di secondo livello; questo soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Così una gran massa di italiani, che aveva in precedenza sperimentato i disastri della guerra e la povertà degli anni dell'immediato dopoguerra, scoprì per la prima volta il benessere e con esso l’abitudine a nuovi consumi. Nelle case fecero il loro ingresso frigoriferi e lavatrici, radio e televisori e dell’automobile; la società italiana, anche attraverso le nuove abitudini di consumo, sembrò incamminarsi verso una definitiva “modernizzazione”. Gli Stati Uniti d’America, che sin dall'inizio del secolo si erano caratterizzati per la presenza di un MERCATO DI MASSA per i prodotti di largo consumo, furono modello e principale termine di paragone: nel consumismo si individuava la radice stessa del successo del paese più ricco e industrializzato del mondo.
L’industria stava cambiando il concetto di tempo e di spazio;tutto ciò stava portando verso una società di massa e di consumi. Gli italiani a tavola potevano usufruire dei cibi in scatola o dei frigoriferi per conservare più a lungo le pietanze, grazie agli elettrodomestici avevano più tempo libero che veniva utilizzato consumando o per andare in vacanza grazie alla “lambretta”.
Inoltre su modello americano la RAI lancia programmi televisivi per intrattenere gli italiani nelle ore di riposo come “Lascia o raddoppia” condotto da Mike Bongiorno o “Carosello”. Entra così nelle case degli italiani il regno della pubblicità. Attraverso la televisioni si attua un processo di nazionalizzazione contro il conformismo ma nonostante ciò, vi sono diffuse resistenze a questo nuovo utensile da parte di intellettuali che accusavano fosse un sottoprodotto culturale e da parte della Chiesa, restia alla modernizzazione. Accanto alla TV si sviluppa il cinema, un periodo d’oro, con la produzione di Divorzio all’italiana e La dolce vita.
Nel periodo 1958-63 il PIL crebbe a un tasso medio annuo del 6,3%, un livello che mai era stato e mai più sarebbe stato ottenuto; ancora più elevato il tasso di crescita degli investimenti in macchine utensili e impianti industriali, questo grazie allo sviluppo delle reti di trasporto e di comunicazione e alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. Infatti, non è possibile produrre su larga scala se non si dispone di un mercato sufficientemente ampio di riferimento, creato a sua volta da un'efficace rete di trasporti e di comunicazioni. Ma se i potenziali consumatori vivono in luoghi geograficamente molto lontani rispetto a quelli nei quali si produce, deve esservi anche la possibilità di raggiungerli, informali, convincerli e persuaderli all'acquisto. Furono create proprio per questo, già a partire dalla seconda metà del secolo scorso, le moderne AGENZIE PUBBLICITARIE. Era anche indispensabile battere la concorrenza, imponendo il proprio "marchio" per far distinguere la propria produzione da quella altrui, e invogliare all'acquisto di prodotti nuovi, mai stati offerti prima sul mercato.
I modi di comunicare del mondo della pubblicità utilizzati nella prima metà del ‘900 apparvero del tutto inadeguati all'Italia degli anni ‘50 e ‘60, quando classi e ceti sociali, diversi per problemi, aspirazioni e modelli culturali di riferimento rispetto ai precedenti consumatori, costituirono per la prima volta un mercato di massa per i prodotti industriali.


QUALI CONDIZIONI RESERO POSSIBILE IL “MIRACOLO” ITALIANO?

FATTORI ESTERNI
L’Italia riuscì ad inserirsi nella ripresa dell’economia internazionale; l’elemento decisivo fu l’adesione al Mercato comune europeo, con i trattati di Roma del 1957 ( il 25 Marzo 2007 i capi di Stato hanno ricordato a Bellino l’anniversario). Di grande importanza fu anche il basso costo delle materie prime e delle risorse energetiche, per un’economia che ne era quasi del tutto sprovvista e ne abbisognava non solo per i consumi interni, ma anche per alimentare la produzione di beni da esportare.
FATTORI INTERNI
In primo luogo il basso costo della forza-lavoro, dovuto sia alla sua abbondante disponibilità sia alla debolezza sindacale. I bassi livelli salariale permisero alle imprese italiane di presentarsi in modo competitivo sui mercati internazionali. Un ruolo di rilievo ebbe anche il potere pubblico, che condusse una politica economica espansiva (finanziamenti alle imprese, basso costo del denaro) e diede impulso diretto, con le partecipazioni statali, allo sviluppo dell’industria di base.

Se pur marginale svolsero un ruolo importante le Olimpiadi del 1960 tenutesi a Roma solo dopo la guerra e la ricostruzione che a essa seguisse. Italia aveva a disposizione solo cinque anni di tempo per mettere assieme il grande rito-spettacolo. Furono anni spesi bene dai dirigenti italiani del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) immediatamente appoggiati dal potere politico. Si trattava, per prima cosa, di costruire le necessarie installazioni, in particolare per il Villaggio Olimpico, residenza degli atleti, dirigenti e tecnici, 33 fabbricati che dopo i Giochi sarebbero stati destinati a oltre mille appartamenti civili. Per tutte le costruzioni furono spesi in totale circa 18 miliardi di lire.

Anche se una quota rilevante del prodotto nazionale era destinato al mercato estero e i salari si mantenevano molto bassi, la crescita economica fu via via accompagnata dall’avvento di un benessere prima sconosciuto alla gran parte della popolazione italiana, e che giunse infine a interessare anche una parte dei ceti popolari. ’aumento del reddito si tradusse nella diffusione di nuovi stili di vita e di consumo:apparecchi televisivi e automobili furono i prodotti che più caratterizzarono questa nuova epoca di consumi nel nostro paese.
Cambiò anche il modo di vestirsi e, nei consumi alimentari, cominciarono ad assumere un peso maggiore le carni e i latticini. Accanto ai dati che indicano un miglioramento del tenore di vita medio della popolazione italiana, dobbiamo tuttavia soffermarci a considerare i limiti dello sviluppo di questi anni, che non solo non risolve ma per alcuni aspetti contribuì ad acuire gli squilibri di fondodelle nostra economia.
In primo luogo, nella stagione del miracolo economico, i settori industriali che conobbero il maggiore sviluppo furono quelli ad alta intensità di lavoro (meccanico – elettronico – tessile), cioè basati un largo impiego della manodopera disponibile a buon mercato più che sull’innovazione tecnologica. Questo fatto, insieme con i modesti interventi nella ricerca scientifica, approfondì la dipendenza tecnologica dell’ Italia dagli altri paese avanzati, soprattutto gli Stati Uniti.
In secondo luogo, una quota elevata dei redditi nazionali fu destinata ai consumi privati delle famiglie: i redditi medi e medio-alti potevano beneficiare di un sistema fiscale iniquo (non equo), lasciando largo spazio all’evasione contributiva, limitava le entrate dello stato e delle pubbliche amministrazioni e quindi la loro capacità d’intervento. La conseguenza fu che vennero trascurati i consumi pubblici o sociali (case, ospedali, scuole, trasporti).
In terzo luogo si assistette all’approfondirsi del divario economico sociale tra nord e sud del paese, essendosi lo sviluppo concentratosi soprattutto nelle regioni settentrionali: da questo fatto, tra l’altro, deriva il fenomeno dell’emigrazione. Il Meridione aveva un’industria scarsamente sviluppata e una tecnologia arretrata, la produttività del lavoro era molto bassa e un’alta percentuale della popolazione era dedita all’agricoltura. Inoltre vi era una scarsa capacità di accumulazione dei capitali, le infrastrutture erano insufficienti e la classe dirigente, priva di capacità imprenditoriale, non permetteva un rinnovamento politico e amministrativo. Neppure l’intervento dello stato valse a riequilibrare il dualismo dello sviluppo tra nord e sud: infatti le politiche di intervento privilegiarono la creazione di grandi poli industriali, pubblici e privata, nei settori strategici della petrolchimica e della siderurgica; industrie ad alta intensità di capitale, quindi a bassa assorbenza di lavoro. Al risanamento dell’economica del Sud contribuisce la Cassa del Mezzogiorno, nata con la legge dell’ottobre 1950. Essa operava in tre principali direzioni: politiche tese alla costruzione di infrastrutture, agevolazioni all’impresa privata, l’interveto diretto dello Stato. L’operato della Cassa del Mezzogiorno fu però un parziale fallimento: oltre a realizzare immensi insediamenti industriali, chiamati “cattedrali nel deserto”, in città come Siracusa, Taranto o Brindisi, non fu in grado di utilizzare e formare l’abbondante manodopera locale e creare una rete di piccole e medie imprese di fornitura, in modo da evitare che le grandi “cattedrali” si trovassero isolate quando avevano bisogno di servizi o prodotti esterni alla loro impresa. A pagarne le conseguenze, ovviamente, fu la popolazione del Sud, che tra il 1951 1974 dovette abbandonare in massa le proprie case in cerca di fortuna al Nord.
L’accelerazione dello sviluppo industriale provocò una parallela crescita della popolazione urbana e una rarefazione di quella rurale. Si intensificarono lemigrazioni interne, prima dall’est, poi dal sud del paese, già in atto nei decenni precedenti, specialmente verso le grandi città industriali del nord e i loro hinterland (triangolo industriale: Milano,Torino,Genova), che videro crescere in maniera vertiginosa la propria popolazione portando con se il problema dell’urbanizzazine. Alla base di questo fenomeno vi sono diversi fattori tra cui la necessità di maggiore denaro e di un lavoro stabile, il fascino delle nuove metropoli del Nord. Questo flusso di gente divenne così imponente che lo Stato, viste le ingenti e urgenti necessità, stabilì la creazione di un’ apposita linea ferroviaria, chiamata il “Treno del sole”, che attraversava l’Italia da nord a sud, in modo tale da favorire e permettere nel migliore dei modi il dispiegarsi di questi spostamenti.
Gli uomini trovarono lavoro come operai nelle numerose di fabbriche che nascevano in gran numero in quegli anni, oppure nei cantieri edili; le donne al contrario erano occupate in lavori a domicilio, nel campo della È necessario sottolineare che in quel periodo era ancora in vigore la legge fascista del 1939 sull’emigrazione, che prevedeva il trasferimento in un altro comune solo se si era in possesso di un contratto di lavoro.
Le motivazioni principali che spingevano gli uomini del Sud ad emigrare al Nord erano la grave sottoccupazione, un alto livello di povertà, la scarsa fertilità delle terre e frammentazione della proprietà, che caratterizzavano il Meridione italiano, maglieria, del filato e della sartoria, oppure anch’esse nelle fabbriche. La grande mobilità di quegli anni non era solo a carattere definitivo, ma anche giornaliero. Infatti ogni giorno un gran numero di pendolari giungeva nelle metropoli dai paesi limitrofi. Il cospicuo movimento migratorio non poteva non creare ampi e diversi sconvolgimenti a livello sociale. Infatti molti problemi si crearono per gran parte della gente immigrata dal Sud. Innanzitutto una situazione di disagio causato dalle diverse condizioni climatiche, dai problemi riguardanti la lingua, perché erano abituati a parlare solamente il dialetto, e dalla difficoltà a trovare un’abitazione. Questo ha causato inefficienze non solo sul luogo di lavoro di operai o manovali, ma anche per i figli di queste famiglie che dovettero affrontare la situazione quando iniziarono la nuova scuola al fianco dei bambini del luogo. Inoltre per loro era anche difficile adattarsi alla vita di città, estremamente diversa da quella a cui erano abituati. Tutte queste difficoltà spesso ebbero delle ripercussioni negative sul loro inasprimento nel posto di lavoro e determinarono una certa insofferenza in questa gente nei confronti della società, che veniva additata come la causa dei loro problemi.
In questi anni contemporaneamente allo sviluppo dell’industria si verifica una diminuzione dell’importanza del settore agricolo infatti in meno di dieci anni quasi tre milioni di occupati nelle campagne si trasferiscono nelle città, determinando così la fine di quei mondi rurali che caratterizzavano il Paese. Senza dubbio il miracolo economico colpì anche il settore agricolo permettendo un suo rapido ampliamento. Gli investimenti statali, che nel 1960 costituivano il 73% dei fondi, ebbero un ruolo fondamentale infatti Fanfani, Ministro dell’Agricoltura, disse infatti che l’unico modo di impostare le condizioni per uno stato moderno era quello di incentivare e sviluppare il settore agricolo. Così lo stato intervenne con agevolazioni fiscali, agevolazioni creditizie, mutui bancari con il concorso dello Stato. Tutto ciò fece diventare le campagne italiane come delle grande aziende interamente meccanizzate che non avevano bisogno di manodopera. Per questo i campi rimasero in rapido tempo abbandonati, rimanendo spettatori di un vero e proprio esodo.
Una delle più gravi conseguenze dello sviluppo italiano e della crescita incontrollata delle città fu la speculazione edilizia. Il mancato rispetto delle norme sull’edilizia e dei piani regolatori cittadini determinavano un profondo cambiamento: l’Italia da Paese rurale e contadino divenne una distesa di grandi sobborghi di cemento. Inevitabilmente parte di costa, piccoli villaggi, lagune, boschi vennero trasformati in centri abitati o centri turistici per soddisfare la crescente domanda di nuove case e servizi per la villeggiatura. La massima libertà lasciata alle iniziative nel settore dell’edilizia permise a imprenditori edili poco scrupolosi di costruire nuovi edifici praticamente ovunque, senza considerare le norme antisismiche e le misure di sicurezza. Il periodo compreso tra il 1953 e il 1963 fu spesso caratterizzato da conflitti di potere tra le autorità municipali e gli speculatori edili, che spesse volte sfociavano in corruzione o clientelismo. Un esempio significativo fu il cosiddetto “sacco di Roma”, in base al quale alle grandi imprese edili fu concesso di costruire su tutti gli spazi disponibili della città senza alcuna limitazione.


LA NUOVA SOCIETÀ

In seguito alla fase economica positiva di cui l’Italia fu protagonista, la società cambiò radicalmente e le condizioni di vita subirono un notevole miglioramento dovuto all’aumento del reddito medio della popolazione, che permise a volte l’acquisto di beni di lusso, prima assolutamente fuori portata.
I consumi aumentano con una rapidità mai vista e le possibilità finanziarie delle famiglie erano tali da permettersi un’alimentazione sana e ricca, vistiti, un’abitazione e perfino l’automobile. Quest’ultima è sicuramente, assieme alla televisione, ciò che più rappresenta la nuova società del tempo e il simbolo del boom. Il modello della Fiat Seicento del 1955 e Cinquecento del 1957 lanciano questo prodotto sul mercato come bene di massa.
In molte case italiane erano presenti gli elettrodomestici di ultima generazione: fon, orologio, frigorifero, stufette elettriche, frullatori, lavatrici, che cambiarono le abitudini degli Italiani.
Un altro aspetto significativo è lo sviluppo dell’editoria, la diffusione dei quotidiani, i settimanali e le riviste. Nascono le prime collane di libri delle grandi case editrici italiane: Mondatori, Feltrinelli, Einaudi. Molti romanzi pubblicati in questi anni hanno un grande successo. Tra i settimanali, citiamoL’Espresso e Panorama, i quali proponevano molte inchieste sulle grandi trasformazioni sociali della nuova Italia.
Per quanto concerne i ceti professionali, si verificò un aumento dei laureati anche presso le grandi università straniere che poi diventarono i dirigenti delle varie industrie italiane. Aumentarono anche gli ingegneri, gli architetti, idesigners, gli esperti nelle pubbliche relazioni: tutti professionisti che cercavano di soddisfare il nascente gusto artistico e culturale degli italiani.
Cambiati i lineamenti caratterizzanti della società non poteva non modificarsi quello che era ritenuto il cuore, l’unità elementare di questa: la famiglia. Il numero dei componenti andava man mano diminuendo, soprattutto al nord, determinando un alto numero di famiglie formate solo da un figlio oppure, addirittura, da marito e moglie, cosa quasi inconcepibile allora. I nuclei famigliari quindi diventano sempre meno numerosi e più appartati. Tutto questo è sentito soprattutto dai meridionali immigrati al nord, che, trasferiti nelle grandi città del Nord, non riscontravano più i ritrovi nelle piazze e il grande affiatamento tra i vicini di casa a cui erano abituati. La nuova famiglia è quindi all’insegna della privacy.
Per quanto riguarda i giovani, essi hanno molta più libertà e passatempi a disposizione: domenica allo stadio, bar, sale da ballo, shopping in centro, juke box, Lambretta.
Le donne invece diventano quasi tutte casalinghe, dedicandosi interamente al marito, ai figli e alla casa; per questo motivo l’occupazione femminile diminuisce vertiginosamente. Questa situazione allontana progressivamente le Italiane dalla società produttiva e dalla politica, “segregate” all’interno della casa tra montagne di riviste femminili che incontrano grande successo.
Si assiste infine ad un declino della religiosità, che portò inevitabilmente ad un calo dell’influenza della Chiesa nella vita dei cittadini, oltre ad un calo delle vocazioni sacerdotali.


L’EPOCA DEL CENTRO-SINISTRA

Nel frattempo in politica…
Dopo la sconfitta della legge di riforma elettorale (la cosiddetta “legge-truffa”) e la caduta di De Gasperi (morì nel 1954), all’interno della Democrazia Cristiana1 avevano acquistato maggiore forza le correnti interne che si battevano per una più equa distribuzione del reddito, per la realizzazione diriforme sociali, resi a loro giudizio indispensabili dallo sviluppo economico e dalle trasformazioni sociali che investivano il paese. Per realizzare questi obiettivi e per ottenere, con un allargamento della maggioranza, quella stabilità che non si era conseguita con la mancata riforma elettorale, la DC, sotto la guida di Aldo Moro (destinato ad essere assassinato vent’anni più tardi dai terroristi) e Amintore Fanfani, dopo la morte del papa Pio XII, si orientò verso un’alleanza di governo con i socialisti. L’apertura a sinistra divenne possibile in conseguenza dei nuovi orientamenti assunti dalla Chiesacon il concilio Vaticano II (11 ottobre 1962) presieduto da Giovanni XXIII(detto il “Papa buono”).
È bene ricordare che influirono notevolmente i fatti di Ungheria del 1956, in quanto produssero una profonda frattura nella sinistra italiana, allontanando i socialisti dai comunisti. In questo modo il Partito socialista trova spazio per una politica autonoma.
Dunque, Moro e Fanfani si battevano per attrarre i socialisti nell’orbita governativa. Purtroppo, falliti alcuni tentativi, il Presidente della RepubblicaGiovanni Gronchi affidò l’incarico di formare un nuovo governo al DcFernando Tambroni che, con una totale inversione storica di tendenza, accettò, per governare, l’appoggio dei neofascisti. Con questa maggioranza Trambroni governo per alcuni mesi, finché fu costretto alle dimissioni dalle vivaci proteste della sinistra e degli antifascisti. Il Paese tirò un sospiro di sollievo: il pericolo di un’ipoteca di tipo neofascista sullo Stato era scongiurato.
Fanfani assunse la presidenza del nuovo governo, il primo governo “aperto” a sinistra. Questo governo realizzò alcune delle più importanti riforme della stagione del centro-sinistra: la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma della scuola media inferiore.


NAZIONALIZZAZIONE DELL’ENERGIA ELETTRICA

Le grandi nazioni industriali moderne hanno una terribili fame di energia, che è l’elemento fondamentale del loro progresso e, in definitiva, della loro stessa potenza globale. Nel secolo scorso, furono i privati a scoprire e a produrre l’elettricità, così in Italia esistevano circa 1.200 dighe private che distribuivano energia elettrica ad altrettante reti, con criteri e prezzi di vendita che si erano a mano a mano uniformati nel tempo. Alla nazionalizzazione si arrivò soltanto quando mutarono quelle condizioni politiche che avevano fino ad ora permesso di evitarla. Fanfani presentò la legge che venne approvata nel dicembre del 1962 e, il 1° gennaio 1963, nasceva ufficialmente, dalle ceneri delle vecchie società private, l’Enel (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), il nuovo gigante che avrebbe dovuto produrre e distribuire energia agli italiani in forma più moderna e, come si disse, «più equa», il che significava, in termini semplici, meno cara.


RIFORMA DELLA SCUOLA MEDIA INFERIORE

Il 31 dicembre 1962, proprio alla scadenza dell’anno, come a sottolineare l’inizio di una vita nuova, viene varata la riforma della scuola media inferiore. La legge che la istituiva fu definita, più che di riforma scolastica, una legge di riforma sociale, in quanto avrebbe dovuto trasformare a fondo la società. Le intenzioni erano buone: la nuova scuola media, tutta gratuita, era obbligatoria per tutti e ci si accedeva senza il vecchio esame d’ammissione. Vennero introdotti i Consigli di classe per coordinare i vari insegnanti e i piani li lavoro e di valutazione, il tutto doveva servire a delineare un quadro completo delle attitudini degli alunni. Inoltre per le famiglie più disagiate il comune doveva mettere a disposizione in modo gratuito libri di testo, contributi, materiale didattico refezioni e mezzi di trasporto.


DAL SESSANTOTTO ALLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

Il ’68 è l’anno della rivolta giovanile: i figli rompono con i padri e con gli insegnanti, i “maestri”. L’Italia diventa un campo di battaglia e l’opinione pubblica è costretta a prendere coscienza di un fenomeno che, fino a quel momento, ha sottovalutato: la rabbia giovanile. Osservo lo storico Denis Mack Smith: «Con una furia dissacrante che non ha precedenti, gli studenti tumultuano, occupano gli atenei, processano e insolentiscono i professori, stilano documenti rivoluzionari, erigono barricate, si scontrano nelle strade e nelle piazze con la polizia, formulano richieste a cui le vecchie generazioni non sanno cosa rispondere. Allo scatenarsi di questa rabbia contribuisce senz’altro l’esempio proveniente da oltre Atlantico, dove è già stata vissuta l’esperienza esaltante della rivoluzione studentesca». La scuola era la grande malata della nostra società.
La presenza di giovani operai a fianco degli studenti fu la caratteristica anche del Sessantotto italiano, il più intenso e ampio tra tutti quelli dell'Europa occidentale. In Italia la contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato negli anni '60, dovuto al fatto che lo sviluppo economico non era stato accompagnato da un adeguato aumento del livello di vita delle classi più disagiate.
L'esplosione degli scioperi degli operai in fabbrica si saldò con il movimento degli studenti che contestavano la grave situazione delle università, in cui al grande aumento della popolazione studentesca non era stato corrisposto alcun ammodernamento delle strutture e dei metodi d’insegnamento e rivendicavano l'estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione economica disagiata. Accanto a ciò ci fu il desiderio di valorizzare la partecipazione alle scelte, la libertà e l’originalità de espressione individuale e collettiva, un radicale egualitarismo.
I prodromi di quello che diverrà il sessantotto inizieranno a palesarsi nel 1966. La contestazione fu attuata con forme di protesta fino ad allora sconosciute: vennero occupate scuole e università e vennero organizzate manifestazioni che in molti casi portarono scontri con le forze dell'ordine.
Il 24 gennaio 1966 avvenne a Trento la prima occupazione di una università italiana ad opera degli studenti che occuparono la facoltà di Sociologia.
La contestazione studentesca e giovanile contribuì a rendere più moderni diversi aspetti della vita del paese. Ne derivarono un forte stimolo allo svecchiamento della cultura italiana e una profonda trasformazione nella sfera dei rapporti familiari. Tra i giovani si affermarono comportamenti più franchi ed emancipati, cui corrisponde sul piano affettivo e sessuale una maggiore libertà e anche un più acuto senso di responsabilità. Le ragazze e le donne cominciarono a riflettere e a discutere sui temi collegati alla condizione femminile, ponendo le promesse dei movimenti femministi degli anni settanta e ottanta. La percezione esatta di quanto profondi fossero i cambiamenti intervenuti in questo campo si sarebbe avuta nel 1974, quando una consistente maggioranza degli italiani, pari quasi il 60% dell’elettorato, si espresse contro l’abrogazione della legge sul divorzio e, nel 1981, per l’abrogazione della legge sull’interruzione della gravidanza (aborto). Questo cambiamento affondava, in realtà, le sue radici in un processo di laicizzazione della società italiana, iniziato con il miracolo economico e proceduto negli anni successivi, affermando così un nuovo sistema di valori, più attento all’autonomia dell’individuo e alla libertà di espressione e di scelta, ma anche più sensibile ai modelli consumistici diffusi dai vari mezzi di comunicazione di massa.
Come già accennato, accanto alle manifestazioni studentesche si affiancò la stagione di lotte operaie. Il suo momento culminate si ebbe nell’autunno del 1969, chiamato “autunno caldo” a causa del clima di acceso conflitto sociale. Dopo decenni di sviluppo basato sui bassi salar la piena occupazione ormai raggiunta( almeno nelle regioni industrializzate) e il conseguente ridursi della concorrenza dei senza lavoro, metteva il movimento operaio nelle condizioni di rivendicare salari più dignitosi e migliori condizioni di lavoro. Le organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil che nel frattempo avevano avviato un processo di riavvicinamento, che condusse, nel 1972, alla creazione della Federazione sindacale unitaria), dopo le incertezze iniziali rispetto a questi movimenti, assunsero progressivamente la guida del movimento, movimento che portò all’affermazione di nuovi strumenti di democrazia sindacale: l’assemblea dei lavoratori e i consigli di fabbrica. Queste rivendicazioni si ampliarono a richiesta di più ampie riforme sociali e civili che il potere aveva disatteso: la casa, i servizi sociali, i trasporti, le pensioni. Nonostante alcune importanti realizzazioni legislative, come l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, il quadro politico di quegli anni fu caratterizzato da un sostanziale immobilismo.
In questo scontro, con il chiaro intento di porre un argine al movimento dei lavoratori, alimentando nell’opinione pubblica sentimenti di paura e un riflesso d’ordine, si inserì l’attentato milanese alla Banca Nazionale dell’agricoltura dipiazza Fontana, che il 12 dicembre 1969 causò 16 morti e un centinaio di feriti. Lunghe indagini della magistratura hanno permesso di accertare che l’attentato- la cui responsabilità venne subito attribuita a un gruppo di anarchici, poi risultati assolutamente estranei al fatto- era maturato in ambienti neofascisti. La bomba di Piazza Fontana segnò l’inizio della strategia della tensione, che per molti anni avrebbe insanguinato l’Italia, con lo scopo di indebolire le istituzioni democratiche e di favorire soluzioni politiche autoritarie.



1 Precedentemente questi anni il governo della DC fu definito una “dittatura”. In realtà i metodi e i sistemi della democrazia parlamentare erano rispettati, ma lo strapotere della DC sulla scena politica e l’influenza della Chiesa nel Paese, sommati insieme, creavano una certa confusione tra poteri di Stato e i dettati della religione cattolica. Naturalmente la DC, in quanto partito, trasferiva sul piano politico quello che il Vaticano veniva come indicazione “religiosa”. Quando Pio XII aveva scomunicato i comunisti e i marxisti in generale, quindi anche molti socialisti, la DC aveva usato quell’arma per emarginare le sinistre italiane. Così durante il suo pontificato fu impossibile un dialogo con il Partito Comunista.

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