lunedì 10 maggio 2010

Claudio Di Scalzo Manuale di Classe: Il Romanticismo tedesco e la filosofia




                                                  

Il movimento romantico tedesco è inestricabilmente intrecciato con la filosofia, o almeno con gli esiti della filosofia dopo Kant. E per le frequentazioni dei filosofi idealisti con poeti e scrittori romantici, e per lo sviluppo che il movimento ebbe anche su riviste e in ambito universitario. Questo saggio sull'argomento del Manuale Manuale di Classe è evidentemente rivolto a studenti che studiano filosofia nei Licei, sia scientifici che pedagogici, ma, per la semplicità dell'esposizione, anche gli studenti di altri corsi possono trovarlo adatto per completare la preparazione scolastica sull'argomento. (CdS-MdC)
    

IDEALISMO E ROMANTICISMO IN UN FRAMMENTO DI HÖLDERLIN

Essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, è il cielo dell'uomo! Essere uno con tutto ciò che vive, tornare, in un beato divino oblìo di sé, nel tutto della natura, questo è il vertice dei pensieri e delle gioie, questa è la sacra vetta del monte, la sede dell'eterna quiete, ove il meriggio perde la sua afa e il tuono la sua voce, e il mare infuriato assomiglia all'ondeggiare d'un campo di spighe. (Hölderlin)


DAL CRITICISMO KANTIANO ALL'IDEALISMO

Sul finire del Settecento, i contemporanei di Kant erano pienamente consapevoli dell'enorme importanza del pensiero critico, tanto da accostare, per il radicale cambiamento introdotto, la rivoluzione copernicana operata dal pensatore tedesco in ambito gnoseologico alla rivoluzione francese. Tuttavia, si era convinti che con Kant il criticismo non avesse raggiunto la sua piena formulazione, in quanto continuavano a vivere dualismi inconciliabili (sensibilità/intelletto, soggetto conoscente/soggetto agente, noumeno/fenomeno), ecc. Muovendo da queste considerazioni, alcuni pensatori della Germania a cavallo di secolo, generalmente indicati col nome di post-kantiani, diedero vita ad una vivace discussione sul valore del criticismo e sulla necessità di effettuare una revisione del kantismo. In realtà, con il passaggio di secolo cambia quello che Hegel definirà lo spirito del mondo: cominciano ad affacciarsi prospettive romantiche, con l'inevitabile conseguenza che molte delle tesi esposte da Kant e perfettamente accettabili in un panorama illuministico, diventano ora improponibili.

Uno dei primi ad intervenire, quando Kant era ancora in vita, nel dibattito sul criticismo fu KARL LEONHARD REINHOLD (1758-1823), con il Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione (1786-1788). Reinhold non aveva la pretesa di presentarsi come pensatore originale: lasciatosi convincere dalle tesi kantiane, egli sente il dovere di divulgarle e lo fa inserendo, inavvertitamente, alcuni elementi nuovi, che apriranno la strada all'idealismo. Reinhold sottolinea che il soggetto e l'oggetto non sono pensabili separatamente : non potrei mai pensare il soggetto senza tener conto dell'oggetto, e, viceversa, non potrei mai pensare l'oggetto senza tener conto del soggetto. Ne consegue inevitabilmente che soggetto e oggetto vengono da Reinhold concepiti e pensati come due facce della stessa medaglia, come se essi facessero riferimento ad un unico principio: la coscienza, intesa come facoltà della rappresentazione. Il soggetto costituisce la forma della conoscenza, cioè l'attività tramite la quale il molteplice viene unificato in un concetto, mentre l'oggetto ne costituisce la materia, cioè il contenuto rappresentativo che viene unificato. Questa indissolubile relazione, all'interno della rappresentazione, dell'elemento soggettivo-formale e di quello oggettivo-materiale giustifica la stretta connessione tra le diverse facoltà conoscitive: nella sensibilità l'oggetto prevale sul soggetto, nell'intelletto vi è equilibrio e nella ragione vi è un predominio della libera attività del soggetto. Secondo Kant, noi costruiamo l'oggetto fenomenico, ma a monte di esso esiste comunque una cosa in sé (noumeno), indipendente dal soggetto e dalla sua attività costitutiva: proprio con questa distinzione Kant prendeva le distanze dall'idealismo berkeleiano. Ora, Reinhold, concependo il soggetto e l'oggetto come facce di un'unica azione (la rappresentazione), fa venir meno la netta distinzione kantiana tra soggetto e oggetto. Sebbene Reinhold si consideri pienamente kantiano, egli apre la strada all'idealismo e alla sua tesi fondamentale: secondo la tesi idealista, è il soggetto che costruisce l'oggetto partendo da zero. A ben pensarci, una sorta di perdita della cosa in sé c'era già stata in Kant: più passava il tempo e più egli si convinceva che la cosa in sé fosse un concetto puramente negativo (noumeno è ciò che non è fenomeno), con un'attenuazione dell'autonomia dell'oggetto. E il passaggio all'idealismo consiste proprio in una progressiva eliminazione della cosa in sé kantiana ; non a caso, l'idealismo tedesco di fine settecento può essere definito come il progressivo tentativo di identificare l'oggetto con il soggetto, con una sfumatura tipicamente monistica : l'obiettivo ultimo, infatti, è trovare un principio che possa spiegare tutto quanto. Occorre dunque superare la sfilza di dualismi irrisolti lasciati in eredità da Kant (primo fra tutti quello soggetto/oggetto) riconducendoli, come tutto il resto, ad un unico principio. Queste problematiche sono già in parte avvertite da Reinhold, il quale risolve il problema della cosa in sé con questo ragionamento: l'aspetto formale della conoscenza, imputabile esclusivamente al soggetto, rientra nell'ambito della rappresentazione, al contrario, la materia conoscitiva deriva da una cosa in sé intesa come un qualcosa di assolutamente indeterminato e inconoscibile; in quanto tale, essa non è nemmeno rappresentabile, cioè cade al di fuori della rappresentazione stessa. E, non essendo rappresentabile, essa non è alcunchè di reale, poichè, se lo fosse, sarebbe un oggetto e rientrerebbe nella rappresentazione. La cosa in sé è dunque solo un concetto che, per quanto necessario alla giustificazione dell'elemento materiale della conoscenza, per la sua stessa impensabilità va al di là della rappresentazione e, quindi, della realtà.

Autore di grande rilievo per il passaggio dal kantismo all'idealismo è anche GOTTLOB ERNST SCHULZE (1761-1833), il cui pseudonimo fu Enesidemo. Nel 1792 apparve anonimo il suo scritto Enesidemo, ovvero sui fondamenti della filosofia degli elementi sostenuta a Jena dal sig. prof. Reinhold, assieme a una difesa dello scetticismo contro le pretese della critica della ragione. Nella filosofia critica, da lui intesa come fusione del pensiero di Kant e di Reinhold, Schulze rinviene una serie di contraddizioni che giungono all'apice con l'affermazione della cosa in sé. Egli difende le posizioni dello scetticismo e vede in Reinhold un difensore ortodosso del criticismo, senza tener conto delle modifiche che ha apportato. Nel testo poc'anzi citato, Schulze muove una critica esplicita alla cosa in sé, mettendo in evidenza le contraddizioni scaturite dal criticismo. Kant ha mostrato razionalmente come la categoria di causalità sia applicabile legittimamente solo in ambito empirico, però poi ne ha fatto un uso meta-empirico applicandola alla cosa in sé: dicendo che la conoscenza altro non è se non il frutto dell'elaborazione del materiale d'esperienza, a sua volta frutto della cosa in sé , non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa in sé come causa? La cosa in sé è infatti intesa come un qualcosa che causa, in maniera oscura, l'emergere dell'esperienza. Se la cosa in sé modifica i nostri organi di senso poichè da essa ricevono il materiale dell'esperienza, vuol dire che la cosa in sé agisce causalmente su di noi. Il paradosso colto da Schulze è che la cosa in sé resta inconoscibile, ma attorno ad essa Kant costruisce l'intero processo conoscitivo. Altro paradosso: Kant dice che si può conoscere solo se si unificano dati dell'esperienza con l'intelletto, con la conseguenza che dove non c'è esperienza non c'è conoscenza; tuttavia egli ammette la conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell'intelletto, riconoscendo dunque che si può avere conoscenza anche senza l'apporto della sensibilità. L'intera Critica della ragion pura è proprio questo, un tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha spiegato, paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono inconoscibili. Tutto ciò porta Schulze a rifiutare l'esistenza della cosa in sé poichè, ammettendola, si cadrebbe inevitabilmente in contraddizione. Ecco che con Schulze entriamo pienamente nell'idealismo: tutti gli autori di questo periodo (Schulze compreso) hanno la pretesa di essere, per così dire, più kantiani di quanto non fosse Kant stesso, quasi come se il pensatore di Königsberg fosse stato ispirato dallo spirito giusto (l'idealismo), ma non avesse avuto il coraggio di spingersi oltre: la spinta idealistica, in effetti, è presente in Kant, soprattutto quando egli afferma che la conoscenza ruota tutta attorno al soggetto; ammettendo però l'esistenza di una cosa in sé, egli si è macchiato di pavidità, non avendo avuto il coraggio di riconoscere che tutto dipende dal soggetto.

Sulla strada iniziata da Schulze si inoltra, percorrendola fino in fondo, Salomon ben Joshua, un ebreo lituano studioso di Mosè Maimonide, dal quale assunse lo pseudonimo di SALOMON MAIMON (1754-1800). Il suo pensiero trova l'espressione più matura nello scritto Ricerche critiche sullo spirito umano (1797). Se le contraddizioni del criticismo portavano Schulze a propendere per lo scetticismo di stampo humeano, Maimon è del parere che si possa restituire piena validità al criticismo, a condizione di una completa eliminazione della cosa in sé , la quale altro non è che un assurdo residuo di dogmatismo, quasi come se Hume non fosse stato in grado di svegliare del tutto Kant dal sonno dogmatico in cui era sprofondato. Se tutto ciò che è rappresentabile è contenuto nella coscienza, come asseriva Reinhold, allora la cosa in sé, cadendo al di fuori della coscienza ed essendo irrappresentabile, è una non-cosa (in tedesco Unding ) e una mostruosità inaccettabile. Essa viene accostata da Maimon ai numeri immaginari, alla radice quadrata di un numero negativo, che sono nella loro stessa essenza impossibili. Ma l'eliminazione totale della cosa in sé significa riconoscere che l'intera conoscenza, per quel che riguarda i suoi princìpi e i suoi contenuti, cade nella sfera della coscienza. Il dato non proviene da fuori, ma è ciò di cui, all'interno della coscienza, abbiamo ancora una conoscenza imperfetta e incompiuta: più precisamente, esso è l'elemento indeterminato della conoscenza, quel che non è ancora stato determinato dalle forme a priori dell' Io. Al di fuori della coscienza non c'è nulla: nel caso della conoscenza meramente intelligibile (matematica) il soggetto può determinare del tutto il proprio oggetto, nel caso della conoscenza sensibile, invece, è possibile solo un avvicinamento indefinito alla completa determinazione, senza poterla mai ottenere. Se penso ad un triangolo, il mio intelletto inquadra totalmente l'oggetto in questione; ma quando ho un approccio conoscitivo con l'oggetto sensibile che mi sta di fronte (ad esempio il libro), una parte di esso sarà inquadrata dalle mie facoltà conoscitive, mentre una parte ne resterà esclusa e costituirà la famigerata cosa in sé. Questo residuo di indeterminatezza è ciò che ci fa apparire l'oggetto come dato, e non come prodotto del soggetto. Così facendo, Maimon sgancia il criticismo dal suo ancoraggio empirico e lo avvia verso esiti idealistici. Maimon porta alle estreme conseguenze il fatto che la cosa in sé sia un concetto puramente negativo, arrivando a concepirla come assolutamente relativa: la cosa in sé altro non è se non quel residuo non perfettamente inquadrato dalle forme conoscitive dell'uomo; è ciò che resta fuori dall'inquadramento categorico. Il processo conoscitivo va avanti all'infinito e, proprio per questo, non potrà inquadrare tutto nelle sue forme: ciò che resta non-inquadrato è appunto la cosa in sé.

L'espunzione della cosa in sé dal quadro del criticismo viene ribadita anche da JACOB SIGISMUND BECK (1761-1840), autore di uno scritto dal titolo L'unico punto di vista dal quale può essere giudicata la filosofia kantiana (1796). Beck si propone di interpretare il pensiero kantiano in modo da coglierne la verità essenziale e rimanere fedele ad esso, ma, ciononostante, egli finisce per compiere un ulteriore passo verso l'idealismo: a ragion veduta, dunque, egli viene sconfessato da Kant. Beck, in modo simile a Fichte, distingue due momenti nello sviluppo del processo conoscitivo: la produzione originaria e il riconoscimento. Se la cosa in sé non esiste, ne deriva necessariamente che il processo con cui il soggetto genera l'oggetto non è più una costruzione (organizzazione intellettuale di dati sensibili), ma una produzione: non lavoro su materiale che mi è dato (come credeva Kant), ma lo costruisco io stesso, sto all'origine dello stesso materiale che poi dovrò conoscere. Ne consegue che l'oggetto è una produzione del soggetto, il quale produce sia la forma sia il materiale della conoscenza. Il mondo che mi circonda è una mia produzione: non è vero che esiste un mondo e noi lo vediamo in modo diverso da come è (come credeva Kant); al contrario, il mondo lo produciamo noi (produzione originaria). Sembra un paradosso, poiché, se io come soggetto produco il mondo, come mai quando nasco sono convinto che esso esista indipendentemente da me, ovvero come oggetto a sé stante? Perchè abbiamo l'impressione di avere di fronte un mondo da noi indipendente? Beck lo spiega con il secondo passo dello sviluppo nel processo conoscitivo, il riconoscimento: il soggetto produce l'oggetto (produzione originaria), ma lo fa in modo inconscio, dopo di che lo riproduce, ovvero lo riconosce (riconoscimento). L'illusione che esista una cosa in sé, un mondo da noi indipendente nasce proprio dal fatto che la produzione originaria sia inconscia, produciamo il mondo senza rendercene conto. Fichte spiegherà anche il senso di questa operazione, Beck si limita a proporla. In lui è implicita anche l'idea che vi sia una sorta di processo triadico per cui il soggetto pone l'oggetto, e poi lo riconosce, quasi come se lo recuperasse, in una sorta di processo triadico: prima c'è il soggetto che sta in sé, poi c'è il soggetto che pone l'oggetto e, infine, c'è il soggetto che recupera l'oggetto riconoscendolo. Questo, peraltro, è molto vicino alla Trinità cristiana: c'è il Padre, poi il Padre che genera il figlio e infine l'amore tra i due (Spirito Santo). Ad esplicitare quest'idea, presente embrionalmente in Beck, sarà Hegel. Su queste basi finora esposte nascerà la celebre triade degli idealisti, costituita da Fichte, Schelling e Hegel. Essi si succedono in tempi molto ravvicinati, cosicché la parabola discendente dei primi due è molto rapida, poichè di volta in volta il nuovo arrivato oscura la fama del suo predecessore. E così il periodo culminante della riflessione fichteana si colloca negli ultimissimi anni del Settecento, quando sarà surclassato dall'appena venticinquenne Schelling, il cui predominio si estenderà fino al 1807 e non oltre: a questo punto entrerà in gioco Hegel. Dopo la fatidica data del 1800, quando ormai il suo astro è declinato, l'esito del pensiero di Fichte prende una coloritura teologico-religiosa: è interessante, perché il periodo che segue alla filosofia kantiana è caratterizzato da una polemica anti-intellettualistica, una polemica contro l'intelletto, ovvero contro la facoltà conoscitiva del finito; in età romantica, dove è particolarmente sentita la ricerca dell'infinito, all'intelletto, che era la facoltà preferita da Kant e dagli illuministi, subentra la ragione, ovvero la facoltà di cogliere l'infinito, l'assoluto. In questo panorama vi saranno due atteggiamenti diversi: ci sarà chi rifiuterà sia l'intelletto sia la ragione, avvicinandosi in tal modo alle posizioni mistico-intuitive; ci sarà poi chi, come Hegel, riconoscerà l'inferiorità dell'intelletto rispetto alla ragione e, dunque, si dedicherà interamente ad essa. Il rischio della critica all'intelletto è, per così dire, di farsi troppo coinvolgere e di finire per travolgere con tale critica anche la ragione, negandole ogni legittimità conoscitiva. Resta però vero che tutta la cultura romantica sarà anti-intellettualistica, ma non tutta sarà anti-razionalistica (Hegel in primis). Naturalmente, finché all'intelletto contrappongo la ragione e mi attengo ad essa, resto pur sempre nella sfera della filosofia, dell'indagine razionale; se però, oltre a criticare l'intelletto, critico anche la ragione, ecco che non mi muovo più nell'ambito della filosofia, la quale affonda le sue radici nella razionalità. Tornando ai tre idealisti, l'unico che resta coerentemente fedele alla ragione, fino in fondo, è Hegel (la sua scala gerarchica sarà 1 filosofia, 2 religione, 3 arte); Fichte e Schelling, invece, partono entrambe dalla filosofia per poi sconfinare in campi che esulano dalla ragione: Fichte riconoscerà il privilegiamento della religione, Schelling dell'arte. In questi due pensatori è come se, paradossalmente, la ragione decretasse essa stessa il proprio suicidio, appellandosi alla religione (Fichte) e all'arte (Schelling).


IL ROMANTICISMO

Sul finire del Settecento la Germania conosce una formidabile fioritura culturale e la filosofia tedesca assurge a vero e proprio centro della filosofia mondiale, tant’è che si è spesso parlato di età classica tedesca . Sul piano filosofico il periodo è contrassegnato da tre diverse manifestazioni: 1) il criticismo (che nasce e muore con Kant) 2)l’idealismo (di cui abbiamo parlato), che muove dalla riorganizzazione sistematica dell’opera kantiana per approdare alla negazione della cosa in sé 3) il romanticismo, che sfugge ad ogni precisa determinazione cronologica e contenutistica. Mancano infatti date precise dello sviluppo di tale movimento ma, come se non bastasse, mancano anche criteri oggettivi per decretare la romanticità degli autori. Se nell’Illuminismo regnava l’idea di uscire dalla precedente epoca buia grazie ai lumi della ragione, nel Romanticismo la questione è invece più complessa. Si può tentare di stabilire un raffronto, cogliendone il rapporto, tra Romanticismo e idealismo. L’idealismo è a pieno titolo la filosofia dell’età romantica, eppure non tutto l’idealismo è filosofia romantica: ovvero, l’idealismo nasce e vive in età romantica, ma non per forza esso costituisce la filosofia romantica. Hegel stesso, il più grande idealista, muove pesanti critiche al Romanticismo, pur essendo per molti aspetti egli stesso romantico. Forse l’elemento che meglio contraddistingue il Romanticismo è la vivace polemica anti-intellettualistica, combattuta contro l’intellettualismo illuminista. L’intera filosofia kantiana, massima espressione dell’età illuministica, rivendicava l’assoluto privilegiamento dell’intelletto (facoltà del finito) a discapito della ragione (facoltà dell’infinito), nella convinzione che la conoscenza umana, per essere legittima, non poteva mai assumere carattere infinito. I Romantici stravolgono l’insegnamento kantiano, convinti che attingere l’infinito sia azione legittima: ne consegue inevitabilmente che, essendo legittimo l’uso sia dell’intelletto sia della ragione, si preferirà la ragione, in grado di mettere l’uomo in contatto con l’infinito. Tuttavia, se buona parte dei Romantici (Hegel in primis) si schiererà a favore della ragione intesa come facoltà dell’infinito e contro l’intelletto inteso come facoltà del finito, un’altra grande fetta di intellettuali dell’epoca si lascerà troppo prendere dalla foga contro l’intelletto e finirà per polemizzare contro le facoltà razionali in generale (compresa la ragione): ora, è evidente che se ci si allontana dall’intelletto ma si resta fedeli alla ragione si può pur sempre elaborare un sistema filosofico, e non a caso Hegel, acerrimo nemico dell’intelletto, darà vita alla più grande elaborazione filosofica razionale mai esistita. Se però, accanto all’intelletto, si respinge anche la ragione, si esce dalla sfera filosofica e si sfocia in ambiti mistici. Se l’idealismo, nel complesso, tendeva a travolgere l’intelletto nella sua polemica ma riconosceva la validità della ragione, i Romantici, per lo più, si scaglieranno sia contro l’intelletto sia contro la ragione , decretando, paradossalmente, l’impossibilità di una filosofia romantica: ecco perché il più grande filosofo dell’età romantica, Hegel, sarà nemico del Romanticismo. Della triade idealista, i due più strettamente romantici sono proprio Fichte e Schelling, il cui pensiero giunge a staccarsi completamente dalle facoltà razionali, mentre il meno romantico (Hegel) è quello che resta più razionale. Forse l’elemento più comune ai pensatori romantici è l’accesa polemica contro il razionalismo . Alla ragione, dichiarata incapace di cogliere l’essenza più profonda della realtà e della natura umana, vengono contrapposti il sentimento, l’istinto e la passione. Si è spesso detto che la contrapposizione tra Illuminismo e Romanticismo risiede proprio nella riscoperta romantica della passione e del sentimento in antitesi alla fredda e rigorosa ragione illuministica: in realtà, con i Romantici vengono approfonditi e portati alle estreme conseguenze la passione e il sentimento, che però erano già stati scoperti e valutati positivamente da Illuministi quali Rousseau (La nuova Eloisa). Una differenza forse meno lampante ma senz’altro più corretta sta nella tendenza romantica a rivendicare la spiritualità a discapito del materialismo illuministico. Già Kant aveva timidamente aperto spiragli verso l’interiorità e la soggettività attuando la rivoluzione copernicana del pensiero; ora, i Romantici approfondiscono la questione e portano a compimento la progressiva attenzione alla soggettività avviata da Petrarca. Va però precisato che per soggettività bisogna intendere l’interiorità, il cuore delle passioni, e che l’esaltazione di tale componente della natura umana porta ad una rilevante rivalutazione dell’individualità. L’Illuminismo tendeva a far prevalere (perfino in ambito politico) ciò che era uguale, universale e valido ovunque, nella convinzione che vi fossero cose buone o cattive, giuste o sbagliate, in assoluto, a prescindere dalla specificità delle condizioni: secondo gli Illuministi si trattava di scegliere sempre e ovunque il giusto seguendo i dettami della ragione, senza tener conto della realtà o del periodo storico in cui si fosse. Il Romanticismo, invece, esalta la dimensione dell’individualità, facendo però delle distinzioni: ci sarà l’individualità singola, e da essa nascerà l’idea, tipicamente romantica, del genio , ovvero la convinzione che vi siano individui privilegiati e superiori agli altri (da cui spesso non vengono compresi) poiché capaci di cogliere l’essenza più intima della realtà. Non a caso sorge il desiderio di originalità e sempre più frequente diventa l’accusa di plagio, fino ad allora pressochè sconosciuta, in un clima in cui si vuole reagire all’incipiente massificazione avviata dall’appiattimento borghese della Rivoluzione Francese. Va poi ricordato che, dopo il 1815, siamo negli anni della Restaurazione ed è forte la delusione per il fallimento del progetto napoleonico, sicchè alcuni spiriti più sensibili sentono il desiderio di ribellarsi al clima soffocante della Restaurazione e lo fanno con opere d’arte fuori dal comune, degne di un genio. Vi è poi anche esaltazione dell’individualità collettiva : in reazione all’universalismo propugnato dagli Illuministi, si rivalutano le unità collettive, le distinzioni tra popoli e tra culture. Nasce l’idea che ciò che è giusto a Parigi può non esserlo a Napoli, sostiene Vincenzo Cuoco, a sottolineare che è assurda l’universalità astratta degli Illuministi. Non è vero che ciò che la ragione addita come giusto sia giusto ovunque e comunque, senza tener conto delle condizioni materiali effettive: ciò che è giusto a Parigi può esserlo anche a Napoli a patto che lo si cali nella concretezza della situazione, tenendo conto delle differenze effettive che intercorrono tra le due città. Connesso alla soggettività è anche il concetto di infinito , uno dei più Romantici: venendo meno la cosa in sé kantiana, il soggetto può legittimamente aspirare ad attingere l’infinito attraverso la ragione, la quale assurge così in posizione dominante rispetto all’intelletto. Perché però si predilige proprio in età romantica la ragione, ovvero la facoltà dell'infinito? Finché ritengo, sulle orme di Kant, che vi siano due princìpi della realtà (soggetto e oggetto) e due della conoscenza (forma e contenuto) radicalmente separati, tale ammissione comporterà che la mia conoscenza sia finita (privilegiamento dell'intelletto) perché vi sarà pur sempre qualcosa fuori di me e che non potrò mai del tutto riassorbire nella mia testa: se conoscere significa, per così dire, introdurre l'oggetto dentro di sé, inquadrarlo, per Kant possiamo solo conoscere ciò che abbiamo messo noi, con le leggi del nostro pensiero, nel mondo, con l'inevitabile conseguenza che di ciò che non ho messo io nel mondo non potrò avere conoscenza certa. Ne consegue che sarà possibile solo un conoscenza finita e l'intelletto sarà lo strumento più adatto. Se però ammetto che tutto deriva dal soggetto, come fa l'idealismo, ovvero se ammetto che il soggetto non costruisce (cioè non organizza con le forme materiale che riceve dall'esterno), allora il mondo che vedo è un prodotto del soggetto e, proprio in quanto sono io stesso a produrlo, potrò conoscerlo perfettamente, totalmente, assolutamente, senza limite alcuno, con la conseguenza che la ragione (non l'intelletto) diviene lo strumento gnoseologico più adatto. L’uomo può e deve tendere all’infinito: eppure vi saranno pensatori che riterranno impossibile il raggiungimento dell’infinito, con la conseguenza che la loro filosofia sarà venata di pessimismo. Ci sarà dunque un Romanticismo pessimista , nato dall’aspirazione non realizzata all’infinito, e un Romanticismo ottimista poiché convinto che l’uomo possa raggiungere l’infinito. Le ultime lettere di Jacopo Ortis rappresentano un fulgido esempio di Romanticismo pessimista, in cui il protagonista perviene al suicidio dopo essersi capacitato dell’impossibilità di cogliere l’Infinito. Il pessimismo cosmico di Leopardi poggia su basi analoghe: l’uomo aspira all’infinito, eppure non può mai spingersi oltre al finito, dunque la sua vita è tormentata dal dolore e dalla sofferenza per non potersi spingere laddove vorrebbe. Hegel rappresenta invece il caso più lampante di Romanticismo ottimista: egli è convinto che l’uomo possa, avvalendosi della ragione, raggiungere l’infinito ed è uno dei filosofi più ottimisti della storia, tanto da arrivare a dire che "ogni negativo è anche positivo". Anche pensatori quali Fichte e Schelling sono fortemente ottimisti, sebbene per essi l’Infinito sia raggiungibile esclusivamente con strumenti extra-razionali (religione e arte). Ecco dunque che in alcuni pensatori prevale la fede come rapporto immediato (non mediato dalla ragione) con l’Assoluto; Schelling, per dirne uno, troverà un rapporto immediato e diretto con l’Assoluto nell’arte, tramite il genio creativo. Altri due concetti tipicamente romantici su cui spesso si è voluta costruire la contrapposizione con l’Illuminismo sono la storia e la natura.

In età illuministica era prevalso il meccanicismo materialista e la sua visione del mondo come grande macchina costituita da singoli ingranaggi, per cui a prevalere sul tutto erano appunto questi ultimi (in fisica gli atomi, in politica i singoli individui); questo modello appare sorpassato ai Romantici, i quali ad esso preferiscono l’ organicismo , ossia la concezione secondo la quale a contare non sono le singole parti (come era per gli Illuministi), ma il tutto preso nel suo insieme. Era stato, ancora una volta, Kant ad aprire spiragli verso questa prospettiva, quando, nella Critica del Giudizio , aveva ammesso che un essere vivente, per quanto semplice possa essere, non potrà mai essere spiegato fino in fondo dalle leggi meccanicistiche. Se il meccanicismo, poi, tendeva a concepire come macchina anche ciò che macchina non era (gli esseri viventi), l’organicismo spinge nella direzione opposta, tendendo a concepire come organismo anche ciò che organismo non è. La natura non è più, dunque, una grande macchina che si muove secondo le leggi di Newton, bensì si connota come enorme essere vivente, essa stessa riflesso di una qualche spiritualità. E così, in campo letterario, viene esaltata la corrispondenza dello stato interiore dell’uomo e della natura, strettamente connessi tra loro. A questa interpretazione ha portato l’idealismo: nel momento in cui la natura è filosoficamente dichiarata prodotto del soggetto, Io capovolto, allora è evidente che anch’essa è spirituale, basta saperlo coglierlo (e proprio qui sta la difficoltà): a cogliere la verità riusciranno di più il poeta e l’artista che non lo scienziato. La natura assume una coloritura spirituale e vitalistica: in questo panorama, tornano in auge pensatori quali Giordano Bruno (riscoperto da Schelling) e Spinoza, accomunati dalla concezione panteista della natura. Rispetto all’età razionalista e illuminista vi è un radicale capovolgimento: la scienza stessa assume una nuova veste. Se Cartesio, nella sua foga meccanicistica, era arrivato a interpretare il cuore umano come un motore a scoppio, in età romantica la natura diventa viva e divina, come l’avevano intesa Bruno e Spinoza. Gli scienziati di quest’epoca (tra cui Volta), dunque, non si interesseranno tanto di meccanica (come invece avevano fatto gli scienziati del Seicento e del settecento) quanto di magnetismo e di elettricismo, i campi meno facilmente riducibili alla meccanica, aborrita in quanto emblema del meccanicismo. Il magnetismo e l’elettricismo, poi, sono accomunati dal fatto che entrambi suggeriscono una sorta di quella vitalità della natura ricercata dai Romantici: da Talete in poi, del resto, il magnete, con la sua capacità di attirare il ferro, era spesso stato concepito come vivente e animato. Si tende con insistenza a ricercare una polarità nella natura che corrisponda a quella ravvisata da Fichte tra Io e non-Io, con la pretesa di trovare una corrispondenza tra pluralità dell’attività spirituale e pluralità della natura. Gli interessi dei Romantici si concentrano anche sulla storia , particolarmente cara anche agli Illuministi: tuttavia, come nella concezione della natura, anche in quella della storia vi sono differenze. Gli Illuministi guardavano alla storia come storia degli errori umani del passato, nella convinzione che vi fossero modi razionali e naturali per vivere e che nel passato essi fossero stati compromessi da superstizioni e credenze: la storia si configurava allora come la progressiva liberazione dell’uomo dalle superstizioni e imperava la convinzione che nel passato stesse il male, nel futuro il bene e che il presente altro non fosse se non una tappa verso il bene. Sempre gli Illuministi vedevano come attore della storia l’umanità, concepita però, sulla scia del modello meccanicistico, come somma dei singoli individui e non come tutto organico. Per i Romantici non è vero né che la storia sia una sfilza di errori a cui guardare per non commetterli nuovamente né che l’umanità, l’attore della storia, sia una pura e semplice somma di individui. Vige la convinzione che l’attore della storia è uno solo e, in merito, Hegel parlerà di spirito del mondo e dirà di averlo visto a cavallo quando scorgerà Napoleone. L’attore della storia è qualcosa di più complesso rispetto alla sommatoria degli individui, è lo spirito del mondo: la storia è dunque governata non già dai singoli, bensì da un’entità superiore e su questi presupposti fioriranno le interpretazioni provvidenzialistiche (ad esempio, Manzoni ne I promessi sposi). Resta però da chiarire se tale attore della storia sia trascendente o immanente: per i Cristiani sarà trascendente, starà cioè al di là del mondo (e per Manzoni è così), per molti altri sarà immanente, ovvero governerà la storia dell’umanità dall’interno. Da questa concezione emerge la superiorità dello spirito del mondo rispetto agli individui singoli (uomini) e collettivi (stati), sebbene resti vero che gli Stati valgono più dei singoli (in antitesi alla concezione meccanicistica). Per quel che riguarda la religione e la politica, gli Illuministi erano convinti che vi fosse in assoluto qualcosa di buono e di giusto (la religione naturale e lo stato giusto) rispetto a cui le realtà storiche erano tentativi mal riusciti: per lo più gli Illuministi erano deisti e consideravano le religioni storiche come tentativo mal riuscito di riprodurre l’unica vera religione, quella razionale, che dimostrava l’esistenza di Dio ricorrendo esclusivamente alla ragione. Allo stesso modo vi era a loro avviso un modello razionale di stato giusto che bisognava applicare ugualmente in tutte le realtà. I Romantici, dal canto loro, sono del parere che a contare sia solo l’unico attore della storia, che si realizza sempre e soltanto attraverso gli individui: Hegel, ad esempio, respingerà la distinzione tra religione applicata e religione ideale, convinto che una religione è quella che è nella sua applicazione concreta, non ve n’è una ideale. Sempre Hegel parla di spirito del mondo ma anche di spirito del popolo , che sono poi la stessa cosa: infatti lo spirito del mondo, di volta in volta, si realizza in un determinato spirito del popolo. All’epoca di Pericle lo spirito del popolo greco era l’incarnazione dello spirito del mondo, come Napoleone, a suo tempo, era l’incarnazione dello spirito del mondo. Tutto questo mette in evidenza che non può esservi uno spirito del mondo ideale, staccato dalla realtà. Dunque la religione esiste sempre e solo nelle singole realizzazioni storiche, sicché non ha senso alcuno parlare di Cristianesimo ideale a sottolineare la distinzione tra la teoria del Cristianesimo e la sua concreta applicazione: il Cristianesimo è quello che è e che è stato nella prassi, nella sua applicazione. Lo stesso vale anche per gli individui: Napoleone ha incarnato in quel preciso momento lo spirito del mondo; esso era tutto lì, in Napoleone. Se ogni popolo rappresenta in un dato momento lo spirito del mondo, ciò significa che quel che la Grecia ha fatto l’ha fatto per se stessa ma soprattutto per lo spirito del mondo intero. Ecco perché in età romantica affiora l’idea che i popoli abbiano una missione: Mazzini credeva di poter riconoscere una missione dell’Italia, investita di valore universale. La tendenza di Mazzini era democratica e tale sarà anche quella di Fichte e di Schelling, mentre quella di Hegel sarà più aggressiva e poggerà sulla convinzione che il popolo che incarna lo spirito del mondo ha anche il compito di schiacciare gli altri popoli. Se gli Illuministi non nutrivano grande simpatia verso il passato, l’atteggiamento dei Romantici oscilla tra due diverse posizioni, aventi corollari politici differenti (il che spiega, tra l’altro, perché potevano essere romantici sia i progressisti sia i reazionari). Vi furono pensatori che provarono esplicita nostalgia verso il passato : in un’epoca in cui regna l’organicismo, è normale che si guardi con simpatia a quelle epoche in cui sono nate le collettività, i popoli, nella fatti specie al medioevo, che torna così in auge dopo la svalutazione rinascimentale e illuministica. Il medioevo gode delle simpatie di molti Romantici un po’ perché è l’epoca in cui son nati i popoli e le nazioni, un po’ perché la società stessa era vissuta come un tutto organico e non come un luogo in cui gli egoismi personali trovavano equilibri (come era la società illuministica), e un po’ anche perché i più reazionari guardavano con simpatia e rimpianto al feudalesimo medievale, ormai definitivamente scalzato dalla Rivoluzione Francese. Ci furono anche Romantici che ebbero un atteggiamento progressista e talvolta rivoluzionario nei confronti del passato : in un’epoca in cui è sempre più sentita l’idea di nazione, si guarda al passato medievale in cui le nazioni eran nate e c’è volontà di far parte di una nazione in chiave progressista, spesso dandosi alle rivoluzioni (il Risorgimento). Una dimensione rivoluzionaria è anche presente sul piano psicologico: non potendo essere per molti soddisfatto il naturale desiderio di raggiungere l’infinito, ci si sente spiazzati nella realtà circostante e ci si ribella. In questa prospettiva, possiamo citare ancora Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo: vi si trova il tema dell’esilio politico ed esistenziale al tempo stesso. Il protagonista, Jacopo Ortis, aspira all’Assoluto ma è relegato a realtà piuttosto modeste, sicchè opta per la rivolta e si toglie la vita. Si può essere progressisti anche per altra via, in modo connesso all’organicismo: se ammettiamo, come fa Hegel, l’esistenza di uno spirito del mondo, finiremo inevitabilmente per applicare un modello antropomorfo della storia, ovvero concepiremo le fasi storiche compiute dallo spirito del mondo come la vita di un individuo, caratterizzata da una nascita, da una crescita e da una morte. Non solo: la storia dell’individuo può anche essere vista in chiave finalistica (come faceva Aristotele) e ciò influirà sull’educazione che si impartirà ai bambini. Infatti, in chiave finalistica il bambino viene concepito in vista dell’uomo, cosicché, propriamente, ad avere un valore è solo l’uomo compiuto. Ma se la storia può essere vista come la vita di una persona e se la vita di una persona è vista finalisticamente, allora anche la storia può essere vista finalisticamente. E proprio per questo la maggior parte dei Romantici non nega che vi sia finalismo nella storia: Hegel è convinto che vi sia un fine ultimo immanente ed intrinseco dell’umanità generale, presente embrionalmente fin dagli albori della storia e destinato ad essere, prima o poi, realizzato. A contare, però, in questa prospettiva, così come nella vita finalisticamente intesa non è il bambino ma l’uomo, dovrebbe essere il futuro, recante la realizzazione della finalità, e il passato dovrebbe avere minor valore, come credevano gli Illuministi. E invece i Romantici vivono nella convinzione che tutte le tappe della storia siano importanti: Hegel, non a caso, dirà che il vero è l’intero , a sottolineare che la verità c’è solo alla fine e risiede nella storia presa nella sua interezza. Certo, anche per Hegel e per altri Romantici come per gli Illuministi la situazione storica attuale è migliore rispetto alle precedenti, che però, seppur inferiori, non sono errori bensì sono tutte tappe necessarie, gestite provvidenzialmente dallo spirito del mondo. Ecco perché ‘ ogni negativo è sempre anche positivo ‘ (Hegel): anche le guerre, le rivoluzioni, le violenze e tutte le altre cose negative sono positive perché estrinsecazione necessaria e provvidenziale dello spirito del mondo; non ci sono errori nella storia perché tutto rientra nella finalità. Proprio per questo motivo in età romantica pullulano i romanzi storici, in cui gli smarrimenti del protagonista sono necessari e giusti. Questa concezione hegeliana è per alcuni versi progressista (perché legge la storia come processo che tende verso un fine), per altri conservatrice (ciò che è successo e che succede è sempre giusto perché tappa necessaria dell’umanità: non ha senso essere rivoluzionari), ma non è mai reazionaria (non ha senso guardare con nostalgia al passato). Ecco che affiora un’altra diversità: per gli Illuministi il progresso non andava verso un fine retto da un attore divino e a farlo erano i singoli e non l'umanità come tutto organico. Ad aprire la strada al Romanticismo è lo Sturm Und Drang, una forma di proto-romanticismo estremistico, che spesso sfiora il titanismo: l’individuo si innalza da solo contro la realtà. Ed è nello Sturm Und Drang che affiora per la prima volta il panteismo, l’identificazione della natura con Dio. Il processo che porta al panteismo prende il via con Fichte: spiritualizzata la natura, il passaggio all’identificazione con Dio è dietro all’angolo. In età romantica fioriscono dunque principalmente due atteggiamenti, il panteismo e il fideismo; resta escluso il deismo, che troppo puzzava di Illuminismo. Il panteismo troverà in Goethe uno dei suoi massimi esponenti e sarà caratterizzato dall’idea che a reggere la storia sia uno spirito immanente, all’interno del mondo. Il fideismo troverà invece in Jacobi e Hamann i suoi baluardi e rivendicherà la priorità della fede su tutto, nella convinzione che non vi sia altro strumento per entrare in contatto con l’assoluto. È bene ricordare la vivace polemica sul panteismo che nacque in età romantica: si rinvengono dei documenti in cui il filosofo illuminista Lessing confessava di essersi convertito allo spinozismo. Da qui scaturisce il dibattito, che segna, tra l’altro, il ricomparire di Spinoza sulla scena filosofica, dopo circa un secolo di assenza per via del suo presunto ateismo. Ci sarà chi si schiererà al fianco di Spinoza e chi lo criticherà, ma, è interessante, tutti ne riconosceranno la grandezza e l’importanza. Chi vedrà in lui un puro e semplice meccanicista lo criticherà, ma chi scorgerà in lui un grande panteista (Goethe) come fu Giordano Bruno lo apprezzerà.

Con il filosofo HERDER e con HAMANN si stabilisce un’indisgiungibile connessione tra ragione e linguaggio. Hamann, in Metacritica del pluralismo della ragione (1784), critica la presunta purezza della ragione e finisce, come Herder, per sostenere l’inesistenza della ragion pura. Come lo spirito del mondo esiste sempre e solo incarnato, allo stesso modo non esiste una ragione che si incarna in singole manifestazioni linguistiche. Non è vero che c’è una ragione pura che effettua il ragionamento e poi esso viene meccanicamente tradotto in Italiano, in Francese e in Spagnolo. Parlare in una lingua significa, al contrario, pensare in una maniera. La ragione è, cioè, sempre calata nei suoi contenuti, proprio come la religione. E’ bene accennare a due vocaboli tipicamente romantici ed hegeliani, con significati diversi rispetto a quelli che siamo soliti attribuire noi: astratto (dal latino abstrahere ) significa ‘tirato via’, concreto (dal latino concresco ) significa ‘cresciuto insieme’. Saranno astratte cose concepite separatamente le une dalle altre; concrete saranno invece cose concepite le une in relazione alle altre. Ora, la ragione non esista mai separatamente dal linguaggio ed è dunque concreta, ovvero è concepita in relazione al linguaggio poiché è già operante in esso: 'senza il linguaggio l'uomo non ha ragione, e senza ragione non ha il linguaggio'. La ragione kantiana era astratta, poiché concepita scevra da legami con il resto. In questa prospettiva, il meccanicismo è astratto (i singoli pezzi sono concepiti separatamente) mentre l’organicismo è concreto (ogni pezzo non è concepibile se non in riferimento a tutti gli altri e, soprattutto, al tutto). È interessante notare che, accanto ad una posizione romantica in senso stretto, vi è anche, ad essa contrapposta, una posizione classicista che muove critiche formali al Romanticismo. Ad aderire a tale corrente di pensiero fu Goethe stesso, distaccatosi dallo Sturm Und Drang e dal Romanticismo, come anche, sul versante italiano, Foscolo. Tuttavia non è del tutto corretto scorgere una netta contrapposizione tra classicismo e Romanticismo, come se non avessero aspetti comuni. Infatti, se il classicismo guarda con grande simpatia al mondo classico, anche i Romantici, seppur in una maniera tutta loro, apprezzeranno il mondo della classicità.

La figura di GOETHE è interessante perché segna il passaggio dai movimenti culturali più disparati, partendo dallo Sturm Und Drang, passando per il Romanticismo e approdando al neoclassicismo. Molto interessante è la sua filosofia della natura, poichè rivela la piena adesione ai modelli organicisti allora in auge. Goethe spiega che tutte le espressioni della natura sono variazioni di un unico prototipo originario, una pianta ( Urplanz ) da cui tutti i vegetali derivano. È una concezione tipicamente romantica poiché rappresenta uno dei tanti tentativi di eliminare ogni dualismo, nella convinzione che tutto sia riconducibile ad un unico principio: con Fichte e l'idealismo si è superata la contrapposizione soggetto/oggetto, con il panteismo quella natura/Dio e Goethe, panteista convinto, tenta addirittura di ricondurre ogni vegetale ad una pianta originaria. Goethe, fra le altre cose, scrive anche un opuscolo sulla teoria dei colori, in cui contesta l'interpretazione newtoniana secondo la quale i colori sono tanti e, se mescolati, danno la luce bianca: ad essa contrappone la teoria secondo la quale, viceversa, all'origine vi è la luce bianca, vista non come il risultato di una composizione; al contrario, sono i colori che derivano dalla scomposizione di essa. Sembra una diatriba puramente scientifica, ma in realtà riveste un ruolo importantissimo in ambito filosofico: si tratta infatti del sistema meccanicistico (Newton), secondo cui a contare effettivamente sono i singoli (i colori), contrapposto a quello organicistico (Goethe), secondo cui il parziale, dotato di esistenza depotenziata, è mera manifestazione particolare della totalità.

Nel contesto classicista si inquadra perfettamente anche SCHILLER, che elabora il concetto di anima bella , riprendendo un atteggiamento grecizzante verso la morale. Noi siamo abituati all'idea che un'anima possa essere buona o cattiva, ma Schiller asserisce che può anche essere bella. Questa sua presa di posizione è riconducibile ad un una netta contestazione della morale kantiana all'epoca imperante, secondo la quale non poteva essere moralmente valutata la bontà naturale. Una persona a cui venga spontaneo essere buono, secondo Kant, non è moralmente valutabile, dal momento che non risponde alla legge morale ma all'istinto. Nell'ottica kantiana è invece passibile di giudizio morale chi, in contrasto alla propria natura di essere fisico che tende alle passioni, si rivolge alla parte di sé razionale e in base a ciò sceglie, magari contrapponendosi alla propria natura. Schiller non è affatto d'accordo e, proprio per questo, introduce il concetto di anima bella, alludendo a quelle anime che aderiscono spontaneamente al dovere morale, senza doversi sforzare. E' un'anima 'bella' nel senso che, nella terminologia kantiana, presenta un'armonia spontanea, priva di costrizioni. Da qui scaturisce la convinzione schilleriana che per creare un'anima bella sia indispensabile un'educazione di tipo estetico: l'etica, cioè, viene vissuta secondo un'interpretazione estetica e in un tale ambito trova un suo spazio anche il gioco, peraltro già rivalutato da Rousseau nell' Emilio . La valenza educativa del gioco, spiega Schiller, risiede nel fatto che in esso si manifesta la spontaneità, caratteristica peculiare dell'anima bella, e si abbattono i dualismi, secondo la migliore tradizione romantica, dal momento che nel gioco la spontaneità naturale è completamente fusa con la dimensione intellettuale: intelletto e sensibilità, proprio come nell'arte, fanno nel gioco un tutt'uno. Schiller contrappone poi, anticipando il Leopardi, la poesia ingenua alla poesia sentimentale: sarà ingenua quella poesia che fa appello alla natura, sentimentale quella che si richiama alla cultura. La poesia antica (Omero) era ingenua, mentre quella moderna è sentimentale: è tipicamente romantica l'idea che in ogni aspetto vi sia sempre una prima fase spontanea e immediata e che essa ad un certo punto vada irrimidiabilmente e necessariamente perduta. Per quanto ci si sforzi di recuperarla, il recupero non sarà più immediato, bensì sarà mediato, non vi sarà cioè più quella situazione originaria ma ve ne sarà una nuova. Ciononostante il recupero è necessario perchè non potrebbe non avvenire ed è anche positivo perché, sebbene certo Romanticismo esalti la spontaneità e l'intuizione, vi sono anche Romantici convinti che lo smarrimento e la mediazione siano fattori positivi, in quanto si instaura un processo di arricchimento che porta ad avere di più di quanto si avesse all'inizio. La storia stessa, come abbiamo visto, è per i Romantici di stampo finalistico: tutte le epoche hanno la loro dignità, anche se il pieno sviluppo del valore è nell'età adulta. Allo stesso modo, il recupero del punto di partenza assume più valore rispetto al punto di partenza stesso perché arricchisce. Non a caso, in ambito musicale, le sinfonie dell'età romantica cominciano spesso con un motivo appena accennato, che viene poi perso per alcuni movimenti per poi ricomparire sul finale, arricchito rispetto all'inizio: è una riproduzione della filosofia romantico-hegeliana, secondo la quale vi è una dimensione originaria che viene smarrita (il mondo classico) per poi venire riacquisita a seguito di un processo di recupero che l'ha perfino arricchita. Secondo la prospettiva di noi moderni, un vaso rotto e reincollato è peggiore rispetto a prima che si rompesse; secondo molti Romantici (Hegel compreso), invece, è migliore perché arricchito. Vi saranno Romantici ottimisti che diranno che il mondo classico è perfetto e deve e può essere imitato; ci saranno Romantici pessimisti che, pur riconoscendo la grandezza del mondo classico e la necessità di imitarlo, sosterranno che sia impossibile farlo. Infine, vi sarà chi dirà che il mondo classico è andato perduto e deve essere recuperato e tale recupero lo arricchirà perfino. Del resto secondo i Romantici vale più la virtù dell'innocenza: quest'ultima, infatti, altro non è se non l'ingenuità primordiale, il non aver ancora avuto l'opportunità di sbagliare e, non a caso, il suo rappresentante è Adamo che, non appena ne avrà l'occasione, sbaglierà. La virtù, invece, permette di recuperare l'innocenza, ma è anche stata intaccata dall'esperienza negativa: si tratta dunque di un recupero mediato del punto di partenza partendo però non dall'ingenuità primordiale, ma da esperienze negative che si trasformano in positive ( ogni negativo è anche positivo ). E lo stesso vale per il recupero del mondo classico.

A cavallo tra Romanticismo e classicismo, tra poesia e filosofia troviamo la personalità di HÖLDERLIN. Tipicamente romantica è la sua concezione del poeta come vate, nata dalla convinzione che più il poeta del filosofo possa cogliere a fondo l'intima essenza della realtà, il panteismo e, soprattutto, la tragicità della realtà, nella convinzione che il positivo possa nascere solo dallo smarrimento totale: è nei momenti più tragici, afferma Hölderlin, che può nascere una speranza di redenzione. Un concetto romantico che si afferma sempre più è quello dell'ironia, della dissimulazione, l'autodiminuirsi come faceva Socrate di fronte ai suoi interlocutori (ironia socratica): l'ironia è il tipico atteggiamento dell'uomo romantico che, presa coscienza del carattere non infinito delle cose in cui vive e che lui stesso crea, si accorge della propria limitatezza.

Più poeta che filosofo, come Hölderlin, è anche NOVALIS, panteista ed estimatore del Medioevo. Uno dei suoi contributi più rilevanti sul versante della filosofia romantica è senz'altro il cosiddetto idealismo magico , secondo il quale il soggetto produce l'oggetto ma non in modo inconscio (come sosteneva Fichte), bensì in modo conscio. Novalis, e in questo si capisce come sia più poeta che filosofo, non si fa alcuno scrupolo ad affermare che il mondo è una produzione conscia del soggetto, in particolare del poeta, inteso quindi come produttore di mondi.

Inquadrato nel contesto romantico è pure SCHLEIERMACHER, che vede la religione come sentimento di dipendenza verso l'infinito da parte del finito (l'uomo). La definisce anche sentimento trascendentale, a sottolineare che si tratta di un sentimento costitutivo della natura umana, un sentimento che si manifesta in tutti gli uomini. Egli elabora, inoltre, il concetto di ermeneutica, ovvero la teoria generale della comprensione: nel tradurre i testi di Platone, infatti, elaborò una chiave interpretativa (che resse per 150 anni circa) secondo la quale si doveva interpretare Platone basandosi esclusivamente sugli scritti (secondo il motto luterano del sola scriptura), sebbene il filosofo greco avesse dato maggior peso alla parte orale. E fu proprio dall'interpretazione di Platone che a Schleiermacher balenò l'idea dell'ermeneutica, già peraltro attuata dai Padri della Chiesa nell'interpretazione dei Testi Sacri: essi tenevano infatti conto del fatto che la Bibbia, nel suo complesso, è data dalla sommatoria dei significati dei singoli libri e che, al tempo stesso, si devono leggere i singoli libri guardando al tutto, con la conseguenza che, se si esamina la questione in termini meccanicistici, ci si trova di fronte ad un apparente circolo vizioso. In realtà, quando esamino una parte della Bibbia, un senso generale ce l'ho già e leggendo i singoli libri non faccio altro che approfondire lo studio del tutto. L'ermeneutica è applicabile, oltre che all'interpretazione dei testi, anche all'interpretazione della realtà, poiché mi permette di comprendere meglio le singole parti conoscendo in termini generali il tutto e, al tempo stesso, mi consente di approfondire lo studio del tutto esaminando le singole parti. È un processo di forte sapore romantico, che rientra a tutti gli effetti nell'organicismo in quanto, in fin dei conti, a contare non sono le singole parti, ma il tutto.




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