giovedì 5 marzo 2015

Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e Luchino Visconti - A cura di Claudio Di Scalzo




 
Siccome appare fondamentale per le classi quarte, ma anche per le classi quinte, la lettura de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, unitamente alla visione del film che ne ricavò Luchino Visconti, viene proposta la vita dello scrittore - assieme ad un sintetico percorso letterario - e un breve saggio che unisce “lettura” del romanzo e della pellicola.(Claudio Di Scalzo)


TOMASI DI LAMPEDUSA: VITA E PERCORSO LETTERARIO

Nacque a Palermo il 23 dicembre del 1896 da un’antica famiglia nobiliare. Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa fu l’unico figlio maschio di Giulio Maria Tomasi e Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò. La primogenita ed unica sorella dello scrittore, Stefania, morì di difterite nel 1897 all’età di tre anni. La madre, donna di forte personalità, di spirito aperto e indipendente, esercitò una grande influenza su di lui, manifestando d’altra parte anche un’accentuata possessività nei suoi confronti. I rapporti con il padre, sicuramente più retrivo, furono invece piuttosto freddi. Alle lettere arrivò tardi, dopo un’esistenza fatta di viaggi all’estero e solitari, lunghi soggiorni nel palazzo paterno di Palermo e nella grande casa di campagna di Santa Margherita Belicea, la quale conteneva un teatro.
Fu proprio qui che Tomasi di Lampedusa assistette per la prima volta all’Amleto messo in scena da una compagnia di girovaghi. Sempre a Santa Maria Belicea apprese a leggere e scrivere, sia in italiano, grazie ad una maestra elementare (Donna Carmela), sia in francese, per le cure della madre. La nonna, dal suo canto, lo allietava con la lettura di Regina dei Carabi di Salgari. Nel 1911 si iscrisse al liceo classico che frequentò prima a Roma, poi a Palermo. Si iscrisse, in seguito, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, nel 1915, ma non conseguì mai la laurea, contrariamente a quanto è stato più volte affermato. Partecipò alle due ultime guerre mondiali e, fatto prigioniero nella prima, riuscì tuttavia a fuggire, traversando a piedi l’intera Europa. Ricoprì la carica di ufficiale effettivo sino al 1925, poi abbandonò l’esercito e si ritirò in Sicilia, allontanandosi da essa solo per compiere viaggi finalizzati alla conoscenza delle letterature straniere, in particolare della narrativa francese dell’Ottocento.
Nella biografia di Tomasi di Lampedusa un’importanza decisiva ha la partecipazione al congresso letterario di San Pellegrino del 1954, al seguito del cugino poeta Luigi Piccolo. In quell’occasione, Tomasi di Lampedusa conobbe Montale, Ravegnani, Bellonci, Bassani. Della sua biografia, cosa che sfogliando libri ed enciclopedie lascia alquanto delusi, non si hanno molte altre notizie, oltre a quelle già riportate; sappiamo che gran parte del tempo fu speso dal nobile scrittore in letture e meditazione. Taciturno e schivo, tendeva volentieri all’isolamento; diceva: «Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone».
In una recensione de Il Gattopardo apparsa nel 1959 su Comunità, Geno Pampaloni, famoso critico letterario scomparso il 17 gennaio 2001, spiegava come anche dalla prosa di Tomasi di Lampedusa si riuscisse ad intuire che: «Tutta la sua vita era stata un’avventura spirituale intensa e sorvegliata, una consapevole lettura del mondo e del nostro tempo».
Poco si sa circa l’origine e lo sviluppo dell’attività letteraria dell’autore siciliano, anche se si è accreditata l’ipotesi che, tornato a Palermo, egli si sia messo a scrivere quasi di getto Il Gattopardo.
Eugenio Montale usava definirlo come uno di quegli «scrittori di un unico libro» di cui è piena la nostra letteratura tra i memorialisti-narratori, specialmente dell’Ottocento. Il Gattopardo, in effetti, è l’opera cui è legata la vastissima fama dell’autore siciliano e rappresenta, inoltre, una sorta di lascito ereditario, essendo giunto sotto gli occhi di tutti nel 1958, quando Tomasi di Lampedusa, a causa di un carcinoma polmonare, era già morto da un anno, precisamente il 23 luglio del 1957: «Ancora una volta il destino era stato fedele all’uomo, che era schivo del clamore, del successo, della retorica: e glieli aveva risparmiati», (G. Pampaloni).
Il Gattopardo, vincitore del Premio Strega, fu anche oggetto dell’impegno di Luchino Visconti, che nel 1963 lo tradusse in film, lasciando interpretare a Burt Lancaster la parte del principe Fabrizio Salina.
Il dattiloscritto de Il Gattopardo fece il giro di diverse case editrici e fu respinto da lettori autorevoli come Vittorini. Se ne interessò invece Bassani che, recatosi in Sicilia, ormai morto l’autore, trovò un manoscritto dell’opera, altri scritti, testi di saggi e racconti, riuscendo così a ricostruire la complessa personalità di Tomasi di Lampedusa. L’attenzione della critica si concentrò inizialmente sulla tesi conservatrice dell’opera, che sembrava giustificare la convinzione dell’immobilità della storia. In realtà il fulcro del romanzo è da ricercare nel motivo decadente del presagio della morte e nell’antico tema dell’ineluttabile fluire del tempo.
Oltre al romanzo principale, sono apparsi postumi i Racconti (1961), leLezioni su Stendhal (1977) e Invito alle lettere francesi del Cinquecento(1979).
In un articolo apparso sulla terza pagina del Corriere della Sera del 6 dicembre 1996, il figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa rivelava la filosofia del principe. Studioso di musica e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Gioacchino Lanza Tomasi confessava: «Lampedusa era certamente un uomo di segreti».
Riferendosi al capolavoro del genitore diceva: «Lampedusa si identificava con il principe Salina»; ma la famosa battuta del «cambiare per non cambiare», pronunciata da Tancredi all’interno della vicenda, come spiegava ancora Lanza Tomasi, «non è la morale del romanzo, altrimenti Lampedusa l’avrebbe fatta pronunciare al principe. Lampedusa, invece, considerava la morale del cambiare per non cambiare schifosa e inaccettabile».
Si dice da sempre che il personaggio di Tancredi sia stato ispirato allo scrittore proprio da Lanza Tomasi, che rispondendo alle domande dell’intervistatore raccontava: «Nel 1953 Lampedusa sente di dover fare qualcosa per animare Palermo. E’ uomo di cultura mostruosa, ha letto tutto. E allora prende a frequentare un gruppo di giovani, conosciuti in casa del barone Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco. Bebbuzzo era un’originale figura di omosessuale, un aristocratico. In casa sua passavano gli intellettuali, da Bacchelli, a Berenson e Calvino. Da Bebbuzzo, Lampedusa conosce Francesco Orlando, Francesco Agnello, Antonio Pasqualino, me e la mia fidanzata di allora, Mirella Radice. Orlando diverrà suo discepolo, io verrò adottato».
Lanza Tomasi continuava spiegando: «Dipingono Lampedusa come un conservatore, ma non lo era. Votò monarchico al referendum del 1946. Poi credo votasse per la Dc. Ma conosceva Marx, studiava Lenin, Croce, Gramsci. E credeva nella rivoluzione francese. Celebrato come scrittore dell’aristocrazia, considerava la decapitazione di Luigi XVI “la testa meglio staccata della storia”. Era persuaso che la storia dovesse muoversi di tanto in tanto con delle scosse formidabili».
Lanza Tomasi definiva ancora Lampedusa come «un uomo d’azione» che: «Tentò la fuga dal campo di concentramento, viaggiò in Europa con la madre, si fidanzò due volte. Poi sposò la principessa baltica Licy Wolffstomersee in Lettonia, prima donna psicanalista d’Italia. Psicanalizzò Bebbuzzo, me e Orlando, ma Lampedusa declinò sempre, sorridendo scettico».
Entrando ancor di più nell’intimità di Lampedusa, Lanza Tomasi diceva: «Si levava al mattino presto, usciva di casa, comprava il Corriere e il Giornale di Sicilia e leggeva al caffè, lavorando. Seguiva la politica internazionale e si divertiva a segnare gli strafalcioni dialettali del Sicilia. Dalla politica e dalla letteratura traeva una lezione morale: come si agisce. E questo insegnava a noi ragazzi. La televisione non gli piaceva. Non volle comprarla e quando un televisore gigantesco apparve in casa dell’amato cugino Casimiro Piccolo, sentenziò: “Con quell’apparecchio sulle ruote non si può più conversare”. Disprezzando la provincia, l’immobilismo, Lampedusa ci spingeva a guardare altrove. Nessuno lavorava di quei nobili, non mio padre, non i Piccolo. Il solo Giovanni Grasso era dirigente ai cantieri navali ed era un caso. Si passava pigramente dai cocktail, dai miei genitori a palazzo Mazzarino, al calcolo dei bilanci in rovina. Lampedusa no: leggeva Moravia e gli piaceva, leggeva Pratolini. Disprezzava Patti, ma apprezzava Brancati. Diceva che Montale era secondo solo ad Eliot, nel Novecento».
Alla domanda del giornalista sul perché Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, scrivendo al figlio Giuseppe ormai cinquantenne, lo nominasse sempre al femminile come fosse una donna, Lanza Tomasi alzava la mano in diniego: «Qualche critico ha parlato di omosessualità, ma nei testi non ce n’è traccia».
Sui segreti di Tomasi di Lampedusa, che Lanza pareva conoscere ma non voler rivelare, forse rimarrà sempre il mistero o, ancora, il dubbio che siano più banali di quel che s’immagina.
Un'ultima frase, riportata nel libro di Enzo Biagi, Dizionario del Novecento, può darci l'idea dell’eredità lasciataci da questo personaggio straordinario che così bene aveva colto l’avversione della classe dirigente italica al cambiamento: «Bisogna sempre lasciare gli altri nei loro errori». Colpisce, di queste parole così eticamente ambigue, la radice culturale aristocratica, mediterranea e cattolica, che per noi “europei” di oggi è facile mettere a confronto con la posizione sensibilmente più assertiva e pragmatista espressa in altri paesi dell’Unione, protestanti, di tradizione più solidamente borghese e democratica. Una posizione che si sintetizza nelle parole di un grande personaggio della cultura continentale, contemporaneo del Tomasi: «Chi non ritiene che la conoscenza debba convertirsi in obbligo morale, diviene preda del principio di potenza, e ciò produce effetti dannosi, rovinosi non solo per gli altri, ma anche per lui stesso» (Carl Gustav Jung).


IL ROMANZO

Giuseppe Tomasi di Lampedusa iniziò il suo romanzo nel 1954. Non era uno scrittore di professione. E il suo intento era quello di scrivere su di un bisnonno che aveva vissuto al tempo dei Borboni e assistito all'arrivo di Garibaldi e poi dei Savoia. Così fra il 1956 e il 1957 scrive la storia che aveva elaborato. Spedisce i primi capitoli alla Mondadori che rifiuta il testo e poi alla Einaudi dove il giudizio negativo è espresso da Vittorini. Lo scrittore siciliano allora spedisce il libro, oramai terminato, alla Feltrinelli e grazie a Giorgio Bassani e alla lucidità (e al fiuto) dell'editore, il romanzo vede la luce nel 1958, vince lo Strega nel '59 e si avvia al suo destino di long seller. La vicenda è ambientata in Sicilia nei mesi della spedizione dei Mille e della successiva costituzione del Regno d'Italia. Protagonista è una famiglia patrizia, quella dei Salina, il cui capofamiglia, il principe Fabrizio, incarna in sé la lucida conoscenza del mondo e il disincanto e la disillusione che alberga negli aristocratici e più ampiamente in una “razza” antica come quella siciliana. Nella famiglia, oltre a quello della moglie Stella, spicca il personaggio di Concetta, sensibile creatura che è innamorata senza speranza di Tancredi, il nipote prediletto di Fabrizio. Quest'ultimo, fascinoso e esuberante, connubio perfetto di patrimoni sperperati e di generazioni al potere, aderisce con entusiasmo alla spedizione di Garibaldi e delle sue truppe, i celebrati Mille, e poi alla regolarizzazione sabauda. In questo trasformismo storicamente giustificato («È necessario che tutto cambi , perché niente cambi») Tancredi sposa la bella Angelica Sedara, figlia di Don Calogero, un intelligente arricchito che, con la dote che assegna ad Angelica, permette a Tancredi di vivere all'altezza del suo nome e di presentarsi alle prime elezioni per la Camera dei Deputati.
Fabrizio, a cui l'emissario del governo Sabaudo Chevalley offre la carica di Senatore del regno D'Italia, declinerà l'invito e suggerirà il nome di Calogero Sedara. I gattopardi come lui hanno compiuto il loro ciclo vitale: e in questa visione fatalistica, Fabrizio accomuna a sé il popolo siciliano e la sua classe aristocratica, destinata a morire per incapacità di adeguarsi ai nuovi tempi.
Il romanzo procede con due salti cronologici: il primo è riferito al 1883 quando, invocata e attesa, giunge la morte per il principe. Il secondo salto porta le vicende al 1910, quando le sorelle Salina, ultime eredi, assistono alla distruzione delle reliquie custodite nella cappella di famiglia, atto che suggella la fine dei Salina e di un'intera epoca.
Il Gattopardo è una commistione di romanzo storico e romanzo di memoria cui, meno scopertamente, si unisce a tratti anche la struttura di romanzo autobiografico. Tomasi Di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1958.





IL FILM

La trasposizione del romanzo (Luchino Visconti, 1963)
Esistono tre segmenti in cui, in base ai tempi della scrittura, è suddivisibile il romanzo: Luchino Visconti prende i primi due, corrispondenti ai capitoli I-IV e V, che vanno dal maggio 1860 al novembre 1862, e ne fa un capolavoro.
La fedeltà con cui segue il testo è assoluta; Visconti contraddice, così, quella sorta di regola aurea per la quale un bel film può derivare da una grande opera letteraria solo se le è infedele. Egli stesso sembrava averla avvallata con La Terra Trema. Ma è una regola che non vale più, quando vi sia perfetta coincidenza tra l'autore e il regista: stessa intelligenza, stessa sensibilità, stessa cultura, stesso mondo d'appartenenza. Visconti non deve uscire fuori da sé per girare Il Gattopardo: deve solo raccontare il suo mondo.
Il pessimismo del principe di salina, di Tomasi di Lampedusa, si fonde dunque con quello di Visconti dando vita a un'omogenea visione della realtà: disincantata e realistica. E, per ottenere questo, aderisce molto più ai fatti, riducendo al minimo la presenza dell'autore.
Così vengono eliminate la focalizzazione interna e la voce narrante; e sono, invece, ampliati i riferimenti storici: lo sbarco dei Mille, l'annessione della Sicilia al regno d'Italia, lo scontro tra l'esercito borbonico e gli ultimi garibaldini ad Aspromonte. Queste scelte di Visconti hanno anche un chiaro significato didascalico e in particolare per quel pubblico internazionale che non ha un'adeguata conoscenza della storia italiana. Ma sono anche da inserire in quella tensione realistica e in quel forte senso della storia che aveva caratterizzato la cinematografia precedente di Visconti.

Il sistema dei personaggi nel film
Ciascun film dispone i suoi personaggi secondo un sistema di opposizioni e di legami più o meno visibili. Un sistema che sovente trova nel protagonista il suo principale punto di riferimento. Non fa eccezione Il Gattopardo: infatti è soprattutto rispetto al principe di Salina che vanno spiegati tutti i comportamenti, i caratteri, le psicologie. Non a caso egli si fa narratore: durante il viaggio per la villeggiatura, per spiegare come mai i Salina hanno avuto un lasciapassare, interviene in prima persona con un flashback, la visita di un generale amico di Tancredi nella sua casa di Palermo. Il principe è il paradigma rispetto al quale i personaggi acquistano una fisionomia individuabile. Rispetto alla sua complessa dinamicità, alla sua capacità di dare una risposta razionale e meditata agli eventi, al prestigio silenzioso che accompagna la sua persona, si comprendono tutti gli altri personaggi. Lo sottolinea, già nella prima scena, lo stesso Visconti: mentre la famiglia sta pregando giungono schiamazzi inopportuni e insistenti; solo il principe, al centro della stanza, non si muove: ha l'autorevolezza dell'esempio e subito su di lui convergono tutti gli sguardi. Non vi è dubbio che sia il perno delle dinamiche di questo gruppo: quando chiude il libro delle preghiere e si alza, tutti lo imitano. Tranne Padre Pirrone che, fingendosi indifferente alle cose del mondo, se ne resta inginocchiato mostrando da subito la sua apatia. Il religioso che, per tutto il film, si muove controtempo e controcorrente rispetto a Fabrizio: anch'egli è un antagonista di Salina: nello studio mentre il principe lo invita a contemplare la bellezza della Sicilia egli non guarda il panorama, pulisce il cannochiale; quando arrivati a Donnafugata Fabrizio l'esorta a farsi un bagno lui si mette il profumo.
All'ombra del principe stanno una serie di personaggi appena accennati: la moglie, i figli Concetta e Francesco Paolo; al di fuori della famiglia Ciccio Tumeo e il cavaliere Chevalley.
Molto diversi i casi di Tancredi, Angelica e Calogero Sedara, che con Salina sono agenti dell'azione. Per ciascuno di essi Visconti mette in scena una presentazione individuale (e tutti e tre sono evocati mediante una nominazione anticipata che aumenta l'attesa dello spettatore).
Tancredi è l'amato nipote e lo “zione” nutre nei suoi confronti un'ammirazione sincera, un amore proiettivo e quasi narcisistico: egli compare sorridente nello specchio nel quale Fabrizio, radendosi, si guarda. Come a suggerire che il giovane subentrerà al vecchio, essendogli in tutto simile. Entrambi dinamici e intelligenti, sono vigorosi, sanno vivere e imporre la propria volontà, e cioè il proprio ordine. Come del resto Angelica che appare attraverso lo sguardo di Concetta e Tancredi: vedendola i due si immobilizzano e questo fatto da subito attribuisce alla giovane una qualità speciale. Salutando i suoi ospiti, assume un atteggiamento educatamente cortese e seduttivo, il che le assicura la benevolenza del principe e l'interesse di Tancredi. In seguito, fidanzatasi con Falconeri, vorrà rovesciare la consuetudine offrendosi a lui prima del matrimonio.
Quanto a Calogero Sedara, ha una duplice presentazione. Immediata quando si identifica nella sua funzione pubblica e quindi col nuovo ordine all'arrivo delle carrozze dei signori. Mediata dal commento ironico di Francesco Paolo, la sera («arriva Don Calogero… è in frac»).
Come gli altri, anche questi tre personaggi acquistano identità grazie al rapporto col principe: di somiglianza, Tancredi; di seduzione, Angelica; di confronto, Sedara. Ma ciascuno di loro provoca un terremoto nell'universo ordinato di Fabrizio. Il nipote schierandosi con i liberali scuote le persuasioni politiche dello zio; Sedara con il suo frac lo turba più della rivoluzione (ma gli fa comprendere di non avere più illusioni); Angelica gli fa risentire, con la sua prorompente bellezza, i tumulti giovanili e gli fa capire che appartengono al passato. Ciascuno dei tre, insomma aggredisce dal suo punto di vista e secondo la sua convenienza, quell'universo al centro del quale Salina ama pensarsi. Ciascuno diviene in tal modo espressione problematica e inquieta del motivo profondo del film, l'ansia della transizione e la consapevolezza della decadenza.





Il Gattopardo

Soggetto: dal romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi Di Lampedusa; sceneggiatura: Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli, Luchino Visconti; fotografia: Giuseppe Rotunno; musica: Nino Rota (e Valzer inedito di Giuseppe Verdi); montaggio: Mario Senandrei; interpreti: Claudia Cardinale, Alain Delon, Burt Lancaster, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Romolo Valli, Serge Reggiani; produzione: Goffredo Lombardo per la Titanus.
David di Donatello 1962-1963 per i migliori produttori; Palma d'oro al Festival di Cannes 1963; Nastro d'argento 1964 per la migliore fotografia a colori.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896-Roma 1957). Oltre al Gattopardo altre opere postume documentano l'impegno creativo e culturale dello scrittore: Racconti (1961), e i saggi critici Lezioni su Stendhal (1971).

Luchino Visconti (Milano 1906-Roma 1976). Debuttò con Ossessione (1943), segue La terra trema (1948); con Senso affronta il mondo dell'800; melodrammatiche o decadenti le scelte successive: Rocco e i suoi fratelli(1963), Vaghe stelle dell'Orsa" (1965); fra gli ultimi film si ricordano Morte a Venezia (1971), Ludwig (1971), Gruppo di famiglia in un interno (1974).

(CDS, 2006)



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