TESINA
Gabriele D’Annunzio
Vita con commento dei romanzi
Gabriele D'Annunzio divenne un
personaggio di primo piano nella nostra storia nazionale per la sua azione
favorevole all’intervento italiano nella prima guerra mondiale: Il celebre
discorso La sagra dei mille, pronunciato sullo scoglio di Quarto il 5 maggio
1915, fu come una scintilla che percorse tutta l’Italia ed infiammò i giovani
alla lotta. Quando l’Italia entrò in guerra, D’Annunzio aveva 52 anni, ma
partecipò alla lotta prima fra i Lancieri di Novara, poi in marina e quindi in
aviazione. Compì molte imprese eccezionali, dalla beffa di Buccari al volo su
Vienna. Alla fine della guerra non fu soddisfatto della cessione di Fiume alla
Jugoslavia e perciò occupò la città dalmata costituendovi un governo.
D’Annunzio, il geniale
D’Annunzio, D’Annunzio che tutto faceva invece di sognarlo, fu idolatrato dalla
borghesia che sognava di imitarlo ma o non era capace o non poteva (gli affari,
gli interessi, la famiglia, la mamma, il perbenismo). Fautore di un progetto
aristocratico sia per la vita che per l’arte, D’Annunzio disprezzò le masse e
coprì di parole di spregio e di derisione la borghesia bottegaia. Nondimeno era
adorato.
Nell’Italia umbertina e
giolittiana del buon senso il dannunzianesimo eccitava morbosamente la fantasia
di quanti non avevano la forza morale (o dovrei dire immorale?), l’intelligenza
e la vitalità per diventare essi stessi Gabrielid’annunzio.
LA VITA
Nasce a Pescara il 12 marzo
1863. Nel 1874 viene iscritto al collegio Cicognini di Prato, dove resta sino
al completamento degli studi liceali nel 1881; nel 1879 pubblica una raccolta
di versi, Primo vere, che esce in seconda edizione l'anno seguente.
1881-1891: periodo romano
Trasferitosi a Roma nel 1881,
alla conclusione degli studi liceali, pubblicò dei racconti di cornice verista,
Le novelle della Pescara , ambientate in un Abruzzo primitivo e prorompente di
umori sensuali, che danno inizio a un periodo detto appunto il periodo romano,
denso di interessi mondani e culturali. Tutto proteso alla conquista della
notorietà e della gloria, frequentò i salotti più raffinati ed ebbe amori tanto
travolgenti quanto effimeri; tentò l’avventura politica, ottenendo l’elezione
al Parlamento e scrisse moltissimo sia in prosa che in poesia.
Pubblica le raccolte poetiche
Canto novo (1882) e Intermezzo (1883). Lo “scandalo” della sua relazione con la
duchessina Maria Hardouin di Gallese si conclude con il matrimonio. Nel 1889
pubblica Il piacere, la testimonianza più cospicua dell’estetismo italiano.
1891–94: periodo napoletano
La relazione con Barbara
Leoni, iniziata all'incirca nel 1886, sta già per finire agli inizi degli anni
Novanta: non se ne avvantaggia comunque il rapporto coniugale da cui sono nati
tre figli. Si trasferisce a Napoli: collabora al "Corriere di Napoli"
diretto da E. Scarfoglio e M. Serao; inizia una relazione con Maria Anguissola,
principessa Gravina, da cui ha due figli, che finisce nel 1897 quando inizia la
frequentazione con Eleonora Duse.
Pubblica:
il romanzo L'innocente (1892)
la raccolta di liriche Elegie
romane (1892)
le liriche del Poema
paradisiaco (1893, il titolo della raccolta fu “imposto” a D'Annunzio
dall'editore; il poeta, in quel momento in urto con il pubblico voleva
titolarla: Margaritae ante porcos, Perle ai porci, dove è chiaro chi
fossero i “porci” e cosa le “perle”)
il romanzo Trionfo della morte
(1894).
Nell'estate del 1895 compie un
viaggio in Grecia e nel 1897 partecipa alle elezioni riuscendo eletto deputato,
con un programma "al di là della destra e della sinistra", che
sostanzialmente è di chiara impostazione nazionalistica.
1898–1910: periodo de “La
Capponcina”
Negli ultimi anni del secolo
D’Annunzio si stabilì a Settignano in Toscana, nella villa della Capponcina,
dove condusse una vita talmente dispendiosa che, caricatosi di debiti
nonostante i cospicui guadagni ottenuti con le sue opere, nel 1909 fu costretto
a fuggire in Francia, in “volontario esilio”, come egli disse con sconfinata
impudenza. “La Capponcina”, che ha lussuosamente arredato, è poco lontana dalla
villa della Duse, la quale nel 1899 è interpreta l'opera teatrale La Gioconda
che ottiene notevole successo.
Nel 1900 il suo romanzo Il
fuoco fa scandalo per le rivelazioni sugli amori con la Duse.
Produce varie opere teatrali:
La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio, La nave e coltiva anche altre
relazioni amorose..
1910–15: periodo francese
Vive, lussuosamente, a Parigi,
circondato da ammiratori e da amanti. Dalla Francia seguiva attentamente le
vicende italiane. Allo scoppio della guerra di Libia scrisse le Canzoni delle
gesta d’oltremare che inneggiavano alle mire espansionistiche italiane.
Scrisse, in francese: Le
martyre de Saint Sébastien, e la Pisanelle.
1915-1920: gli anni della
guerra
Nel 1915 ritorna in Italia e
partecipa attivamente alla propaganda interventista col discorso a Quarto per
la Sagra dei Mille. Durante la guerra, alla quale partecipò come volontario,
ottenne varie medaglie d’oro e d’argento per le sue imprese spericolate. In
seguito a un incidente occorsogli durante un atterraggio di fortuna, perse un
occhio. Costretto all’immobilità per un certo periodo, scrisse il NOTTURNO, una
serie di prose ritenute tra le cose di D’Annunzio più sincere e più intense.
Nel settembre, a capo di
volontari e di forze regolari, occupa militarmente Fiume in opposizione al
governo italiano: la abbandonerà di fronte all'intervento dell'esercito
italiano nel dicembre del 1920.
1921–38: gli ultimi anni
Si stabilisce sul Lago di
Garda, a Gardone Riviera, in una magnifica villa prospiciente il lago di Garda.
Di qui salutò con grande favore l’avvento del fascismo ma Mussolini, mentre da
una parte lo ricolmò di favori e di onori, dall’altra lo tenne alla larga dalla
politica. D’Annunzio trascorse gli ultimi anni in un isolamento tanto splendido
quanto intimamente vuoto. Nel 1937 viene nominato presidente dell'Accademia
d'Italia; muore il 1° marzo 1938 per emorragia celebrale.
A quest’ultimo periodo risale
il Libro segreto, che insieme al Notturno oggi gode di molta
attenzione da parte dei critici.
Da Notturno o
“Ccommentario delle tenebre”
Usciamo. Mastichiamo la
nebbia.
La città è piena di fantasmi.
Gli uomini camminano senza
rumore, fasciati di caligene.
I canali fumigano.
De i ponti non si vede se non
l'orlo di pietra bianca per ciascun gradino.
Qualche canto d'ubriaco,
qualche vocio, qualche schiamazzo.
I fanali azzurri nella fumea.
Il grido delle vedette aeree
arrochhito dalla nebbia.
Una città di sogno, una città
d'oltre mondo, una città bagnata dal Lete
o dall'Averno.
I fantasmi passano, sfiorano,
si dileguano.
Non so se io abbia più sete
d'acqua o più sete di musica o più sete di libertà.
Sento il sole dietro le
imposte. Sento che c'è un'afa di marzo chiara e languida
sul canale. Sento che è bassa
marea.
La primavera entra in me come
un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, in una
sonnnolenza rotta di sussulti
e di tremori.
Ascolto.
Lo sciacquio alla riva del
battello che passa.
I colpi sordi dell'onda contro
pietre grommose.
Le grida rauche dei gabbiani,
i loro scrosci chiocci, le loro risa stridenti,
le loro pause galleggianti.
Il battito di un motore marino.
Il chiocciolìo sciocco del
merlo.
Il ronzio lugubre d'una mosca
che si leva e si posa.
Il ticchettio del pendolo che
lega tutti gli intervalli.
La gocciola che cade nella
vasca da bagno.
Il gemito del remo nello
scalmo.
Le voci umane nel traghetto.
Il rastrello su la ghiaia del
giardino.
Il pianto d'un bimbo non
racconsolato.
La voce di donna che parla e
non s'intende.
Un'altra voce che dice:
"A che ora? a che ora?"
Notturno è una raccolta
di meditazioni e ricordi, in forma di prosa lirica, redatta nel 1916 durante il
periodo di immobilità e di cecità. L’opera è caratterizzata da un momento di
intimità e di ripiegamento su se stesso (dell'“Orbo veggente” come si definì)
Nella prima parte del libro
predomina il ricordo dell’amico e compagno di armi Giuseppe Miraglia, morto
ancora giovane nel dicembre del 1915, cui farà seguito il sentimento denso di
commozione affettuosa per la madre inferma e stanca, che morì di lì a poco, nel
gennaio del 1917.
Tra pagine di esaltazione
eroica, in cui il poeta lamenta l’inganno che la morte gli ha teso, lasciandolo
in vita al posto dei suoi più giovani compagni, tra quelle di dolente rimpianto
per gli amici scomparsi, troviamo appuntate le sensazioni del poeta, le sue
osservazioni sulla vita e sull’arte e preziosissime riflessioni.
OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE
E “IL PIACERE”
Canto novo, raccolta di
liriche pubblicata nel 1882. La natura è rappresentata nel suo tripudio di
luci, colori, odori e con essa il giovane poeta stabilisce un “rapporto di tipo
solare” proteso al godimento e alla fusione con essa.
Il piacere, il più noto dei
romanzi di D'annunzio.
Ne è protagonista Andrea
Sperelli. Raffinato e gelido; cultore solo di un bello aristocratico;
spregiatore del grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare
sommerge miseramente, Andrea Sperelli è l'ultimo rampollo di un'antica famiglia
nobile e ne continua anche la tradizione: è un raffinato, predilige gli studi
insoliti, è un esteta. Tutta la sua vita è improntata su questi criteri come
pure la vita amorosa.
Il romanzo si apre nel giorno
di S.Silvestro. Andrea Sperelli, il protagonista, attende, nel suo appartamento
la visita di Elena Muti, la donna che è stata sua amante, ma che non vede da
quasi un anno. L’arrivo di Elena è preceduto da una rievocazione dell’ultimo
incontro fra i due e, come in un gioco di scatole cinesi, dal ricordo della
loro storia d’amore che in quel giorno lontano Andrea aveva rievocato.
L’incontro porta però ad una nuova separazione ed Elena, che ora è sposata, se
ne va piangente, lasciando l’amante nella prostrazione più profonda.
I capitoli che seguono
ripropongono in modo più dettagliato ed impersonale il primo incontro tra i due
e la loro storia d’amore, terminata quando la donna (già vedova del duca di
Scerni) aveva preferito sposare il ricchissimo Lord Heathfield, e la tumultuosa
serie di avventure erotico-sentimentali alle quali Sperelli si era abbandonato
dopo il loro addio. Il primo libro termina con la descrizione di un duello in
cui Andrea è coinvolto a causa di un'altra donna e che termina con il suo
ferimento.
Durante la convalescenza, in
una sorta di purificazione e di rinascita spirituale, Andrea Sperelli scopre la
profonda perfezione dell’arte e medita di "trovare una forma di Poema
moderno", "una lirica veramente moderna nel contenuto ma vestita di
tutte le antiche eleganze". E’ in questo momento di elevazione
intellettuale e di distacco dalle passioni tumultuose che egli incontra Maria
Ferres, moglie di un ministro guatemalteco, ed inizia fra i due un amore
platonico, poi rievocato, attimo per attimo, nel diario di Maria che occupa un’ampia
sezione del secondo libro e che termina con l’esplicito riconoscimento, da
parte della donna, del suo amore per Andrea.
A questo punto si chiude la
lunga parentesi retrospettiva e la narrazione riprende dal quel giorno di San
Silvestro in cui Elena ed Andrea si rincontrano. Tutta la parte finale è
costituita da una sorte di tormentato contrappunto tra l’amore sensuale per la
Muti, che illude e tradisce Andrea tenendolo però avvinto a sé, e l’amore più
puro e spirituale del protagonista per Maria. Sarà però la passione dei sensi a
prevalere e, proprio quando Andrea sembra aver conquistato definitivamente il
cuore della Ferres che gli si concede, egli pronuncerà, fra le braccia della
sua nuova amante il nome di Elena.
Poema paradisiaco, raccolta di
liriche composte dal 1891 e pubblicate nel 1893. Il titolo, derivato dal
latino, equivale letteralmente a “poema dei giardini”. Si rileva qui la
tematica decadente, ma segnata di rievocazione nostalgica, con aspirazioni
epidermiche a una sorta di purezza e di spiritualizzazione delle passioni, che
si traducono in un linguaggio e in una versificazione sapientissimi, accordati
su toni dimessi, come di colloquio e di confessione.
L'Innocente, romanzo
pubblicato nel 1892, che non tiene nascosti gli influssi della lettura del
russo Dostoevskij. È una narrazione in prima persona ed è incentrato sulle
vicende del "multanime" Tullio Hermil e della moglie Giuliana. A lei,
malata, Tullio si dedica in modo particolare con una sorta di volontaristica
pratica di "bontà", malgrado sia attratto e legato all'amante Teresa
Raffo. Ma proprio quando si libera da questo legame, crede di scoprire gli
indizi di una relazione della moglie con lo scrittore Filippo Arborio poi
confermati dalla notizia che Giuliana è incinta. Nei due coniugi spunta un
progetto delittuoso: sopprimere il nascituro, testimonianza di una fugace
colpa, ostacolo alla realizzazione del loro "sublime" amore. È Tullio
che, esponendo al freddo invernale il bambino, l'"innocente", compie
il delitto.
Trionfo della morte, romanzo
del 1894, terzo del "Ciclo della rosa". L'opera, articolata in sei
"libri", ha una struttura narrativa debole. È incentrata sul rapporto
contraddittorio e ambiguo di Giorgio Aurispa con l'amante Ippolita Sanzio e su
questo tema di fondo si innestano o si sovrappongono altri motivi e argomenti.
Giorgio, in una confusa contaminazione tra superomismo e velleità mistiche,
aspira a realizzare una vita nuova, una perfezione di vita spirituale che si
fondi sull'autodominio e sull'autosufficienza, e vive il rapporto con l'amante
come limitazione, come ostacolo.
IL CICLO DEI ROMANZI
Sull'esempio dei romanzi
ciclici dell'ottocento di Honorè de Balzac (La commedia umana), di Zola (i
Rougon-Macquart), di Verga (I vinti), D'Annunzio si propose di scrivere un
ciclo di romanzi, suddiviso in tre trilogie, ciascuna denominata da un fiore (la
rosa, il giglio, il melograno), simbolo delle tappe evolutive del suo spirito
dalla schiavitù delle passioni alla vittoria su di esse, giacchè i protagonisti
dei romanzi non sono che la proiezione sul piano narrativo dello stesso
D'Annunzio.
I romanzi della rosa, fiore
simbolo della voluttà, della passione invincibile:
Il Piacere (1889) L'innocente (1892) Il
trionfo della morte (1894)
I romanzi del giglio, fiore
simbolo del superuomo, della passione che si purifica. La seconda trilogia
doveva ispirarsi al superuomo di Nietzsche. Il superuomo non è più schiavo
delle passioni ma si serve di esse per realizzare pienamente la propria volontà
di potenza. In verità Nietzsche non auspicava l'avvento di un uomo superiore
agli altri, al quale, in grazia delle qualità eccezionali, fosse tutto
permesso, ma l'avvento di un'umanità rinnovata la quale, per poter sviluppare
tutte le sue potenzialità, doveva liberarsi da ogni soggezione alla
trascendenza e alla morale tradizionale, fatta di ipocrisie e finzioni.
D'Annunzio ignorò o finse di ignorare il significato profondo del niccianesino
e lo adottò al suo temperamento sensuale, facendo del superuomo l'individuo
d'eccezione, destinato a dominare sugli altri. Nel superuomo nicciano, così
come lo immaginò D'Annunzio, s'intravede piuttosto il profilo dei grandi
dittatori sanguinari e deliranti del nostro secolo, col loro macabro seguito di
tragedie e di guerre.
Della seconda trilogia,
D'Annunzio scrisse solo il primo, Le vergini delle rocce (1896). Claudio
Cantelmo, aristocratico e imperialista, seguace delle dottrine del superuomo,
concepisce il disegno di unirsi in matrimonio con una delle principesse (Massimilla,
Anatolia, Violante) di un'antica famiglia borbonica del regno delle due
Sicilie, i Capece-Montaga, ridottasi a vivere nell'ultimo dei suoi feudi,
Trigento, "paese di rocce". Scopo del matrimonio è procreare il
futuro sovrano, al quale un giorno il popolo, disgustato della demagogia e
dalla corruzione della vita politica, offrirà la corona regale.
I romanzi del melograno, pomo
dai molti granelli, simbolo dei frutti che possono derivare dal dominio delle
passioni. Dei tre romanzi previsti, D'Annunzio scrisse solo il primo, Il fuoco
(1900).
Il fuoco (così intitolato
perché inteso come simbolo della creatività dell'artefice), narra, sullo sfondo
di Venezia, la storia dell'amore di Stelio Éffrena per la Foscarina. E' un
romanzo scopertamente autobiografico, perché vi è adombrata la storia
dell'amore del poeta per l'attrice Eleonora Duse.
Stelio è un poeta che sogna
una nuova forma di arte drammatica, che risulti dall'intima fusione della
parola, del colore, del suono, dell'azione. E' la stessa poetica di Wagner, che
del romanzo è un personaggio. La Foscarina dovrebbe essere l'interprete di
questo nuovo dramma; ma Stelio s'innamora della giovinetta Donatella Arvale. La
Foscarina se ne accorge e ne è gelosa, ma dopo, rassegnata, cede il posto alla
rivale e si accomiata da Stelio.
Laudi del cielo del mare della
terra e degli eroi
L'opera poetica più notevole e
famosa. Doveva essere di cinque libri, quante sono le Pleiadi, invece è solo di
quattro.
Il primo libro, “Maia”, è
composto nel 1903 e il sottotitolo (Laus vitae) ne chiarisce i motivi
ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia vitale, un naturalismo
pagano impreziosito o sopraffatto dai riferimenti classici e mitologici.
Il secondo libro, “Elettra”,
composto tra il 1899 e il 1902 celebra gli eroi della patria e dell'arte; nella
terza parte sono cantate 25 “città del silenzio” e nella quarta parte è il
famoso Canto augurale per la Nazione eletta che infiammò di entusiasmo i
nazionalisti italiani.
Il terzo libro, “Alcyone”,
pubblicato con il primo, contiene il meglio di D'Annunzio come poeta.
Il quarto libro, “Merope”,
raccoglie canti celebrativi della conquista della Libia.
IL MITO DI D'ANNUNZIO
D'Annunzio rappresentò nella
vita italiana, con i suoi atteggiamenti, innanzitutto un fatto di costume,
incarnò i desideri di evasione dalla monotonia quotidiana di ceti intellettuali
e borghesi insoddisfatti della realtà della vita nazionale nei decenni
post-risorgimentali. Per questo gran parte della sua vastissima opera, creata
per esaltare e sostenere il mito che di sé aveva costruito, appare oggi
superata e priva di attualità.
Ebbe tuttavia almeno due
meriti: sul piano culturale, si avvicinò di volta in volta ad autori ed
atteggiamenti del decadentismo europeo contribuendo a diffonderne la conoscenza
in Italia ed a sprovincializzare la nostra cultura. Sul piano più intimamente
poetico, accanto all'esteriorità di molti atteggiamenti esibizionistici seppe
almeno cogliere ed esprimere la comunione dei sensi e dell'anima con la
molteplicità della vita naturale, creando quella dimensione "panica",
di immedesimazione quasi fisica e sensuale basata sulle immediate sensazioni,
che in particolare nella raccolta Alcyone segna il nascere di un atteggiamento
nuovo per la nostra poesia.
Per esprimere questo
atteggiamento raffinato e sensuale D'Annunzio si servì di un linguaggio
ostentatamente insolito ed artistico, basato sul recupero di preziose voci
arcaiche e sull'invenzione di neologismi capaci di stupire e meravigliare; creò
così un "culto della parola" ricercata soprattutto per clamorose
risonanze musicali (anch'egli si affidò molto alle onomatopee) che spesso è
solo espediente retorico, ma che sa anche diventare talora esperienza
linguistica originale e contribuisce, anche se in misura minore del Pascoli, ad
avviare il nuovo linguaggio poetico del '900 verso le svolte successive.
L'ANNO MORIVA ASSAI DOLCEMENTE (libro
1, cap. 1)
È l'inizio del romanzo:
l'ultimo giorno dell'anno che muore dolcemente con un sole che spande “non so che
tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile” sulla Roma elegante e
aristocratica di fine 800. Dopo la rapida carrellata l'attenzione si delimita
alle stanze di Palazzi Zuccari dove Andrea Sperelli attende una visita di
Elena, ma l'incontro è subito differito da una analessi che sposta l'azione a
due anni prima, al momento della partenza di Elena.
L'anno moriva, assai
dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato,
mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano
popolose come nelle domeniche di maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza
di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due
piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via
Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a
poco a poco del profumo ch'esalavan né vasi i fiori freschi. Le rose folte e
larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da
una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a
similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro
Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in
eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi
spiritualizzarsi e meglio dare immagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava
nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una
special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e al piccola
tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante
ornate di storiette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile
grazia, ove sotto l figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri
d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a
melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva
i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L'orologio della Trinità de'
Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora. Andrea Sperelli si levò dal
divano dov'era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni
passi nell'appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo
richuiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia
dell'aspettazione lo pungeva così acutamente ch'egli aveva bisogno di muoversi,
di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso
il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente
un nuovo pezzo il ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillavano rotolarono
fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in
tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi
fumigarono.
Allora scorse nello spirito
dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo
amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora d'intimità.
Ella aveva molt'arte
nell'accumular gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con
ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar le faville. Il suo
corpo sul tappeto, nell'atto un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per
l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, da tutte le
pieghe, da tutti i cavi, soffuso d'un pallor d'ombra che richiamava al pensiero
la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche,
le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arboreicome nelle statue di
Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta
l'opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. Nella stanza
quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe' vetri lottavano
qualche tempo. L'odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero.
Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa.
Aveva l'abitudine, un po' crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori
ch'eran ne' vasi, alla fine d'ogni convegno d'amore. Quando tornava nella
stanza, dopo essersi vestita, mettendosi i guanti o chiudendo un fermaglio
sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia
dell'atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando
prima un piede e poi l'altro perché l'amante chino legasse i nastri della
scarpa ancora disciolti.
Il luogo non era quasi in
nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i
ricordi in folla e le immagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente.
Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz'ora,
certo, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la
faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose
avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del grande commiato
fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori
della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella
memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti
di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio
momentaneo gli si apriva d'innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei
paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili di lontano per un
irradiamento che si prolunga dalle loro forme.
CHI È ANDREA SPERELLI (libro
I, cap. 2)
Sotto il grigio diluvio
democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche
a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in
cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione
familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte.
A questa classe, ch'io
chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell'amabile
vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L'urbanità, l'atticismo,
l'amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la
curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella
casa degli Sperelli qualità ereditarie. [ ... ]
Il conte Andrea
Sperelli–Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli
era, in verità, l'ideal tipo del giovine signore italiano nel XIX secolo, il
legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l'ultimo
discendente d'una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto
impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi,
parve prodigiosa. Egli alternò, fino a' venti anni, le lunghe letture coi
lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria
educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e costrizioni di
pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d'arte, il culto
passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizii, l'avidità
del piacere.
Questo padre, cresciuto in
mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere;
aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa
inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era
avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli
aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s'era
diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con
lui per tutta l'Europa.
L'educazione d'Andrea era
dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in
conspetto delle realtà umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto
dall'alta cultura ma anche dall'esperimento: e in lui la curiosità diveniva più
acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di
sé; poiché la grande forza sensitiva, ond'egli era dotato, non si stancava mai
di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l'espansion di quella sua forza era
la distruzione in lui di un'altra forza, della forza morale, che il padre
stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita
era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo
piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva
sempre più d'intorno inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra
le altre, questa massima fondamentale: “Bisogna fare la propria vita, come si
fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita d'un uomo d'intelletto sia opera di
lui. La superiorità vera è tutta qui”. Anche, il padre ammoniva: “Bisogna
conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell'ebbrezza. La regola
dell'uomo d'intelletto, eccola: – Habere, non haberi”. Anche, diceva: “Il
rimpianto è il vano pascolo d'uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto
evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con
nuove imaginazioni”. Ma queste massime volontarie, che per l'ambiguità loro
potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto
in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era
debolissima.
Un altro seme paterno aveva
perfidamente fruttificato nell'animo di Andrea: il seme del sofisma. "Il
sofisma " diceva quell'incauto educatore " è in fondo ad ogni piacere
e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad
acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza
della vita sta nell'oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui
per l'uomo d'intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici
della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell'antichità. I sofisti
fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.
Un tal seme trovò nell'ingegno
malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna
non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente
alla conoscenza ch'egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a
non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio. Dopo la morte immatura
del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d'una fortuna
considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de' suoi
gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze,
con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore:
non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi, non la Roma degli Archi, delle
Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli
avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la
Piazza di Spagna, l'Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La
magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l'attraeva assai
più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere
un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello
Farnese, una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come
quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro Albani, dove i bussi
profondi, il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della
Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero
un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa
d'Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla
domanda: " Che vorreste voi essere? >, egli aveva scritto "
Principe romano ".
Giunto a Roma in sul finir di
settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de'
Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l'ombra dell'obelisco di Pio
VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli
addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa
alcuni giorni d'invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una
primavera de' morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d'oro
come una città dell'Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i
cieli che si specchiano ne' mari australi.
Quel languore dell'aria e
della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realtà e divenire
immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso
inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di
nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima,
delle abitudini, degli usi. L'anima converte in fenomeni psichici le
impressioni dell'organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma
secondo la sua natura gli incidenti del sonno.
Certo egli ora entrava in un
novello stadio. – Avrebbe alfin trovato la donna e l'opera capaci
d'impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? – Non aveva dentro di
sé la sicurezza della forza né il presentimento della gloria o della felicità.
Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancòra prodotto nessuna opera
notevole. Avido d'amore e di piacere, non aveva ancóra interamente amato né
aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava
ancóra ben distinta in cima de' pensieri l'imagine. Aborrendo dal dolore per
natura e per educazione, era vulnerabile in ogni parte, accessibile al dolore
in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni
contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà,
abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva
sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico appunto, sottilissimo e
potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio;
così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze
contrarie chiusa ne' limiti d'un certo equilibrio. Gli uomini d'intelletto,
educati al culto della Bellezza conservano sempre, anche nelle peggiori
depravazioni, una specie di ordine. La concezion della Bellezza è, dirò così,
l'asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.
In questa presentazione di
Andrea Sperelli si possono cogliere gli aspetti piú tipici dell'"eroe
decadente". Per molti aspetti simile al Dorian Gray dì Oscar Wilde o al
Des Esseintes di Huysmans, il protagonista del romanzo rivela un distacco aristocratico
e snobistico dalle masse, una raffinata curiosità estetica, una predilezione
per le cose insolite. La sua regola di vita è tutta basata su una forma di
esasperato estetismo: "il senso estetico aveva sostituito il senso
morale" e l'asse intorno al quale "gravitano" tutte le sue
passioni è soltanto "la concezione della Bellezza". Il paragone fra
due epoche storiche, o meglio fra due periodi artistici del passato (la Roma
dei Cesari e la Roma dei Papi) chiarisce il gusto tutto decadente di Andrea
Sperelli e la prospettiva dalla quale vengono presentati gli ambienti in cui si
svolge l'azione del romanzo. La città di Roma non è mai colta nel suo vivere
quotidiano e nella complessità del suo tessuto sociale, ma come raccolta di
opere d'arte. Anche quando l'azione si sposterà da Roma alla villa al mare di
Schifanoja gli ambienti delimiteranno ancora una zona privilegiata,
"quella aristocratica di Andrea Sperelli e delle persone che lo
circondano, unica zona che può essere attentamente osservata, anzi contemplata,
e descritta, e che sola sembra avere diritto all'esistenza. Tutto il resto non
esiste o si intravede come contrappunto negativo, come una realtà degradata che
di tanto in tanto colpisce spiacevolmente per i suoi sfacciati suoni o per la
sua brutalità" (Fazio Alberti, 1978)
I MORTI DI DOGALI E LA TERZA
AMANTE IDEALE (Libro III, cap. 3)
Il concerto incominciò con un
Quartetto del Mendelssohn. La sala era già quasi interamente occupata.
L'uditorio componevasi, in massima parte, di dame straniere; ed era un uditorio
biondo, pieno di modestia negli abiti, pieno di raccoglimento nelle attitudini,
silenzioso e religioso come in un luogo pio. L'onda della musica passava su
teste immobili, coperte di cappelli scuri, dilatandosi in una luce aurea, in
una luce che fluiva dall'alto, temperata dalle tendine gialle, schiarita dalle
pareti bianche e nude. E la vecchia sala dei Filarmonici, disadorna, dove
appena rimaneva su l'egual candore qualche traccia d'un fregio e dove le misere
portiere azzurre stavan per cadere, offriva imagine d'un luogo che fosse
rimasto chiuso per un secolo e fosse stato riaperto proprio in quel giorno. Ma
quel color di vecchiezza, quell'aria di povertà, quella nudità delle pareti
aggiungevano non so che strano sapore allo squisito diletto dell'udizione; e il
diletto pareva più segreto, più alto, più puro là dentro, per ragion d'un
contrasto. Era il 2 di febbraio, un mercoledì: in Montecitorio, il Parlamento
dispu tava per il fatto di Dogali; le vie e le piazze prossime rigurgitavano di
popolo e di soldati.
I ricordi musicali di
Schifanoja sorsero nello spirito de' due amanti; un riflesso di quell'autunno
illuminò i loro pensieri. Al suono del Minuetto mendelssohniano si svolgeva la
visione della villa maritima, della sala profumata dai giardini sottoposti,
dove negli intercolunnii del vestibolo si levavano le cime dei cipressi, si
scorgevano le vele di fiamma su un lembo di mare sereno.
Di tratto in tratto Andrea,
chinandosi un poco verso la senese, le chiedeva piano: – Che pensate?
Ella rispondeva con un sorriso
così tenue ch'egli appena giungeva a coglierlo.
– Vi ricordate del 23
settembre? – ella disse.
Andrea non aveva ben distinto
nella memoria quel ricordo, ma assentì col capo. L'Andante calmo e solenne,
dominato da un'alta melodia patetica, dopo estesi sviluppi aveva uno scoppio di
dolore. Il Finale insisteva in una certa monotonia ritmica, piena di
stanchezza.
Ella disse:
– Ora viene il vostro
Bach.
E ambedue, quando la musica
ricominciò, provarono un bisogno istintivo di riavvicinarsi. I loro gomiti si
sfioravano. Alla fine d'ogni tempo, Andrea si chinava verso di lei per legger
nel programma ch'ella teneva spiegato fra le mani; e, nell'atto, le premeva il
braccio, sentiva l'odore delle viole, le comunicava un brivido di delizia. L'Adagio
aveva una elevazion di canto così possente, saliva con tal volo alle sommità
dell'estasi, con tal piena sicurezza allargavasi nell'Infinito, che parve la
voce d'una creatura sopraumana la quale effondesse nel ritmo il giubilo d'una
sua conquista immortale. Tutti gli spiriti erano trascinati dall'onda
irresistibile. Quando la musica cessò, lo stesso fremito degli strumenti durò
qualche minuto nell'uditorio. Un susurro corse da un capo all'altro della sala.
L'applauso irruppe, dopo l'indugio, più vivo.
I due si guardarono, con gli
occhi alterati, come se si distaccassero dopo un amplesso d'insostenibile
piacere. La musica continuava; la luce della sala diveniva più discreta; un
tepor dilettoso addolciva l'aria; intiepidite, le violette di Donna Maria esalavano
un profumo più forte. Andrea aveva quasi l'illusione d'essere solo con lei,
poiché non vedeva d'innanzi a sé persone ch'egli conoscesse.
Ma s'ingannava. In un
intervallo, volgendosi, vide Elena Muti diritta in fondo alla sala,
accompagnata dalla principessa di Ferentino. Sùbito, il suo sguardo incontrò
quel di lei. Da lontano, egli salutò. Gli parve di scorgere su le labbra di
Elena un sorriso singolare.
– Chi salutate? – chiese
Donna Maria, anche volgendosi. – Chi sono quelle signore?
– Lady Heathfield e la
principessa di Ferentino.
Ella credé sentire nella voce
di lui un turbamento.
– Qual è la Ferentino?
– La bionda.
– L'altra è molto bella.
Andrea tacque.
– Ma è una inglese? –
ella soggiunse.
– No; è una romana; è la
vedova del duca di Scerni, passata a Lord Heathfield in seconde nozze.
– E' molto bella.
Andrea domandò, con premura:
– Ora, che soneranno?
– Il Quartetto del
Brahms, in do minore.
– Lo conoscete?
– No.
– Il secondo tempo è
meraviglioso.
Per celare la sua
inquietudine, egli parlava.
– Quando vi vedrò,
ancóra?
– Non so.
– Domani?
Ella titubò. Pareva che le
fosse discesa pel volto una lieve ombra. Rispose:
– Domani, se ci sarà
sole, verrò con Delfina su la piazza di Spagna, verso mezzogiorno.
– E se il sole mancasse?
– Sabato sera, andrò
dalla contessa Starnina...
La musica ricominciava. Il
primo tempo esprimeva un lottar cupo e virile, pieno di vigore. La Romanza
esprimeva un ricordarsi desioso ma assai triste, e quindi un sollevarsi lento,
incerto, debole, verso un'alba assai lontana. Una chiara frase melodica si svolgeva
con profonde modulazioni. Era un sentimento assai diverso da quel che animava
l'Adagio del Bach; era più umano, più terreno, più elegiaco. Passava in quella
musica un soffio di Ludovico Beethoven.
Andrea fu invaso da una così
terribile ansia che temé di tradirsi. Tutta la dolcezza di prima gli si
convertì in amarezza. Egli non aveva la conscienza esatta di questo suo nuovo
sofferire; non sapeva raccogliersi né dominarsi; ondeggiava perduto fra la
duplice attrazion feminile e il fascino della musica, da nessuna delle tre
forze penetrato; provava, dentro, un'impressione indefinibile, come d'un vuoto
in cui risonassero di continuo grandi urti con un'eco dolorosa; e il suo
pensiero si spezzava in mille frammenti, si sconnetteva, si disfaceva; e le due
imagini feminili si sovrapponevano, si confondevano, si distruggevano a
vicenda, senza ch'egli potesse giungere a separarle, senza ch'egli potesse
giungere a definire il suo sentimento verso l'una, il suo sentimento verso
l'altra. E a fior di questa torbida sofferenza interiore si muoveva
l'inquietudine prodotta dalla immediata realità, dalle preoccupazioni, dirò
così, pratiche. Non gli sfuggiva un leggero cambiamento nell'attitudine di
Donna Maria verso di lui; e credeva sentire lo sguardo di Elena assiduo e
fisso; e non giungeva a trovare un modo di contenersi, non sapeva se dovesse
accompagnar Donna Maria nell'uscir dalla sala o se dovesse avvicinarsi a Elena,
né sapeva se quel caso gli avrebbe giovato o nociuto presso l'una e l'altra.
– Io vado – disse Donna
Maria levandosi, dopo la Romanza. – Non aspettate la fine?
– No; debbo essere a casa
per le cinque. –Ricordatevi, domattina...
Ella gli tese la mano. Forse
pel calore dell'aria chiusa, una lieve fiamma le avvivava la pallidezza. Un
mantello di velluto, d'un color cupo di piombo, orlato d'una larga zona di
chinchilla, le copriva tutta la persona; e tra la pelliccia cinerea le violette
morivano squisitamente. Nell'uscire, ella camminava con sovrana eleganza,
mentre qualcuna delle signore sedute volgevasi a guardarla. E per la prima
volta Andrea vide in lei, nella donna spirituale, nella pura madonna senese, la
dama di mondo.
Il Quartetto entrava nel terzo
tempo. Poiché la luce diurna diminuiva, furono alzate le tendine gialle, come
in una chiesa. Altre signore abbandonarono la sala. Sorgeva qua e là qualche
bisbiglio. Cominciavano nell'uditorio la stanchezza e la disattenzione, che son
proprie della fine d'ogni concerto. Per uno di quei singolari fenomeni
d'elasticità e di volubilità repentini, Andrea provò un senso di sollievo,
quasi gaio. Egli perse ogni preoccupazion sentimentale e passionale, d'un
tratto; e l'avventura di piacere apparve sola alla sua vanità, alla sua
viziosità, lucidamente. Egli pensò che Donna Maria, concedendogli quei convegni
innocui, già aveva messo il piede su la dolce china in fondo a cui è il peccato
inevitabile anche per le anime più vigili: pensò che forse un po' di gelosia
avrebbe potuto spingere Elena a ricadergli nelle braccia, e che quindi forse
l'una avventura avrebbe aiutata l'altra; pensò che forse appunto un vago
timore, un presentimento geloso avevano affrettato l'assenso di Donna Maria al
prossimo convegno. Egli era dunque su la via di una duplice conquista; e
sorrise notando che in ambedue le imprese la difficoltà si presentava sotto un
medesimo aspetto. Egli doveva convertire in amanti due sorelle, cioè due che
volevano presso di lui far profession di sorelle. Altre simiglianze fra i due
casi egli notò, sorridendo. – Quella voce! Com'erano strani nella voce di Donna
Maria gli accenti d'Elena! – Gli balenò un pensiero folle. – Quella voce poteva
esser per lui l'elemento d'un'opera d'imaginazione: in virtù d'una tale
affinità egli poteva fondere le due bellezze per possederne una terza
imaginaria, più complessa, più perfetta, più vera perché ideale...
Il terzo tempo, eseguito con
impeccabile stile, finiva tra gli applausi. Andrea si levò; si avvicinò a
Elena.
- Oh, Ugenta, dove siete stato
fino ad ora? – gli disse la principessa di Ferentino.
– Au pays du Tendre?
– E quell'incognita? –
gli disse Elena, con un'aria leggera, odorando un mazzo di viole tirato fuori
dal manicotto di martora.
– E' una grande amica di
mia cugina: Donna Maria Ferres y Capdevila, moglie del nuovo ministro di
Guatemala – rispose Andrea, senza turbarsi. – Una bella creatura, assai fine.
Era da Francesca, a Schifanoja, in settembre.
– E Francesca? –
interruppe Elena. – Non sapete quando tornerà?
– Ho notizie sue, da San
Remo, recenti. Ferdinando migliora. Ma temo ch'ella dovrà trattenersi là
qualche altro mese, forse più. Che peccato!
Il Quartetto entrava
nell'ultimo tempo, molto breve. Elena e la Ferentino avevano occupato due sedie,
in fondo, lungo la parete, sotto il pallido specchio dove si rifletteva la sala
malinconica. Elena ascoltava, con la testa china, facendo scorrere tra le sue
mani le estremità d'un lucido boa di martora.
– Accompagnateci – ella
disse, quando il concerto fu finito, allo Sperelli.
Montando in carrozza, dopo la
Ferentino, ella disse:
– Montate anche voi.
Lasciamo Eva al palazzo Fiano. Vi poso poi dove volete.
– Grazie.
Lo Sperelli accettò. Uscendo
nel Corso, la carrozza fu costretta a procedere con lentezza perché tutta la
via era ingombra di gente in tumulto. Dalla piazza di Montecitorio, dalla
piazza Colonna venivano clamori e si propagavano come uno strepito di flutti,
aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli squilli delle trombe militari.
La sedizione ingrossava, nella sera cinerea e fredda; l'orrore della strage
lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa, agitando gran fasci di fogli,
fendevano la calca; emergeva distinto su i clamori il nome d'Africa.
Per quattrocento bruti, morti
brutalmente! – mormorò Andrea, ritirandosi dopo aver osservato allo sportello.
– Ma che dite? – esclamò
la Ferentino.
Su l'angolo del palazzo Chigi
il tumulto sembrava una zuffa. La carrozza fu costretta a fermarsi. Elena si
chinò per guardare; il suo volto fuor dell'ombra illuminandosi al riflesso del
fanale e alla luce del crepuscolo apparve d'una bianchezza quasi funeraria,
d'una bianchezza gelida e un po' livida, che risvegliò in Andrea il ricordo
vago d'una testa veduta – non sapeva più quando, non sapeva più dove – in una
galleria, in una cappella.
– Eccoci – disse la
principessa, poiché la carrozza era giunta finalmente al palazzo Fiano. – Addio
dunque. Ci ritroveremo stasera dall'Angelieri. Addio, Ugenta. Venite domani a
colazione da me? Troverete anche Elena, e la Viti e mio cugino.
– L'ora?
– Mezz'ora dopo
mezzogiorno.
– Va bene. Grazie.
La principessa discese. Il
servo aspettava un ordine.
– Dove volete ch'io vi
porti? – domandò Elena allo Sperelli che le si era già seduto accanto, nel
posto dell'amica.
– Far, far away...
– Su via, dite: a casa
vostra?
E senza aspettare altra
risposta, ella ordinò:
– Trinità de' Monti,
palazzo Zuccari.
Il servo richiuse lo
sportello. La carrozza si mosse al trotto, voltò per la via Frattina, lasciando
dietro di sé la folla, le grida, i romori.
– Oh, Elena, dopo
tanto... – proruppe Andrea, chinandosi a guardare la desiderata che s'era
raccolta nell'ombra, in fondo, come schiva d'un contatto.
Il chiaror d'una vetrina, al
passaggio, traversò l'ombra; ed egli vide che Elena sorrideva, bianca, d'un
sorriso attirante.
Sempre così sorridendo, ella
si tolse dal collo con un gesto agile il lungo boa di martora e lo gittò
intorno al collo di lui, in guisa d'un laccio. Pareva facesse per gioco. Ma con
quel morbido laccio, profumato del profumo medesimo che Andrea aveva sentito
nella volpe azzurra, ella attirò il giovine; gli offerse le labbra, senza
parlare.
Ambedue le bocche si
ricordarono delle antiche mescolanze, di quelle congiunzioni terribili e soavi
che duravano fino all'ambascia e davano al cuore la sensazione illusoria come
d'un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Per prolungare il sorso,
contenevano il respiro. La carrozza dalla via dei Due Macelli salì per la via
del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò al palazzo Zuccari.
Rapidamente, Elena respinse il
giovine. Gli disse, con la voce un po' velata:
– Discendi. Addio.
– Quando verrai?
– Chi sa!
Il servo aprì lo sportello.
Andrea discese. La carrozza voltò di nuovo, per riprendere la via Sistina.
Andrea, tutto ancor vibrante, con gli occhi ancor fluttuanti in una nebbia
torpida, guardava se apparisse dietro il vetro il volto di Elena; ma non vide
nulla. La carrozza si allontanò.
Risalendo le scale, egli
pensava: – Alfine, ella si converte! – Gli rimaneva nel capo quasi un vapore
d'ebrezza, gli rimaneva nella bocca il gusto del bacio, gli rimaneva nella
pupilla il balen del sorriso con cui Elena gli aveva gittato al collo quella
specie di serpe rilucente e aulente. – E Donna Maria? – Egli, certo, doveva
alla senese l'inaspettata voluttà. Senz'alcun dubbio, in fondo all'atto strano
e fantastico di Elena era un principio di gelosia. Temendo forse ch'egli le
sfuggisse, ella aveva voluto legarlo, adescarlo, accendergli di nuovo la sete.
– Mi ama? Non mi ama? – E che importava a lui saperlo? Che gli giovava? Ormai
l'incanto era rotto. Nessun prodigio mai avrebbe potuto risuscitare sol una
minima parte della felicità morta. Conveniva a lui occuparsi della carne che
era ancóra divina.
Si compiacque a lungo nel
considerar l'avventura. Si compiacque, in ispecie, della maniera elegante e
singolare con cui Elena aveva dato sapore al capriccio. E l'imagine del boa
suscitò l'imagine della treccia di Donna Maria, suscitò in confuso tutti gli
amorosi sogni da lui sognati intorno a quella vasta capellatura vergine che un
tempo faceva languir d'amore le educande nel monastero fiorentino. Di nuovo,
egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la duplicità del godimento; travide la
terza Amante ideale.
Entrava in una disposizione di
spirito riflessiva. Vestendosi per il pranzo, ripensava: – Ieri, una grande
scena di passione, quasi con lacrime; oggi una piccola scena muta di
sensualità. E a me pareva ieri d'essere sincero nel sentimento, come io era
dianzi sincero nella sensazione. Inoltre, oggi stesso, un'ora prima del bacio
d'Elena, io avevo avuto un alto momento lirico accanto a Donna Maria. Di tutto
questo non riman traccia. Domani certo, ricomincerò. Io sono camaleontico,
chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità
riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una
parola: NUNC. Sia fatta la volontà della legge.
Rise di sé medesimo. E da
quell'ora ebbe principio la nuova fase della sua miseria morale.
Il brano è caratterizzato dal
netto contrasto tra quello che succede all'esterno (manifestazioni davanti al
Parlamento in seguito ai fatti di Dogali dove pochi giorni prima sono stati
uccisi più di cinquecento soldati italiani) e il mondo di Andrea Sperelli. Il
contrasto tra l'esterno della folla manifestante e l'interno della sala dei
Filarmonici dove Andrea Sperelli è ad un concerto insieme a Maria Ferres, rende
" più segreto, più alto, più puro " il godimento dell'esteta e quando
in strada la folla costringe la carrozza a rallentare Andrea Sperelli è solo
infastidito dalla " plebe " che fa tanto clamore " per
quattrocento bruti, morti brutalmente ". La distanza tra i due mondi è
ulteriormente accentuata dalle pagine seguenti dove Andrea continua, chiusa la
fastidiosa parentesi, a meditare su Elena e su Maria e intravede la possibilità
della " terza amante Ideale " che unisca in sé la sensualità
raffinata di Elena e la pura spiritualità di Maria.
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