Lo SCRITTORE E L’IMPEGNO. In una intervista radiofonica rilasciata nel 1951 (adesso si legge in Sulla poesia, 1976) Montale parlava, tra le altre cose, del rapporto tra il mestiere di scrittore e l’impegno civile. Era un tema che Montale avrebbe trattato in diverse poesie.
UN MALESSERE INDIPENDENTE DALLA STORIA. In questa intervista Montale sosteneva che la poesia non si occupa di attualità, ma della condizione umana nel suo complesso, la quale è indipendente dalle circostanze storiche. Descriveva infatti la sua poesia come l’espressione di un sentimento di inadeguatezza nei confronti della realtà, di un malessere esistenziale indipendente dalla storia.
«L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo: significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio. Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent’anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso (...). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di questi fenomeni».
Dagli albori del secolo si discute
se la poesia sia dentro o fuori.
Dapprima vinse il dentro, poi contrattaccò duramente
il fuori e dopo anni si addivenne a un forfait
che non potrà durare perché il fuori
è armato fino ai denti
(da Quaderno di quattro anni, 1977)
LA POESIA NON È FATTA PER NESSUNO. Negli anni in cui era vivo il dibattito sull’autonomia della cultura,Montale esprimeva in questa poesia la sua diffidenza per le ideologie che pretendono l’impegno politico degli artisti.
Asor
Asor, nome gentile (il suo retrogrado
è il più bel fiore)
non ama il privatismo in poesia.
Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia
producesse un quid simile o un’affine
sostanza, il che purtroppo non accade.
La poesia non è fatta per nessuno,
non per altri e nemmeno per chi la scrive.
Perché nasce? Non nasce affatto e dunque
non è mai nata. Sta come una pietra
o un granello di sabbia. Finirà
con tutto il resto. Se sia tardi o presto
lo dirà l’escatologo, il funesto
mistagogo che è nato a un solo parto
col tempo – e lo detesta.
(in Diario del ‘72)
IL DIRITTO DI ESSERE DIVERSO. Se si nega all’artista il diritto di mantenere una posizione individuale si finisce per negare il diritto alla diversità, pretendendo di rendere tutti “normali”, conformi alle regole, fossero anche quelle del migliore dei sistemi politici:
«L’ipotesi di una società futura migliore della presente non è punto disprezzabile, ma è un ipotesi economica-politica (...). Credo altresì che non sono possibili previsioni sul posto che occuperà l’arte in una società migliore della nostra. Platone bandiva i poeti dalla Repubblica: in certi paesi di nostra conoscenza sono banditi i poeti che si occupano dei fatti loro (cioè della poesia) anziché dei fatti collettivi della loro società (...). È possibile concepire un mondo in cui il benessere e la normalità dei più lasci libero sfogo all’inadattamento e allo scompenso di infime minoranze. In ogni modo questa ottimistica prospettiva lascia aperto il dissidio fra l’individuo e la società. E altrettanto possibile l’ipotesi che il dissidio sia risolto manu militari (con forza),sopprimendo l’individuo inadattabile. Quello che appare invece improbabile e indimostrabile è l’automatico - o rapido- avvento di un’età dell’oro (nelle arti) non appena sia mutata la struttura sociale».
LA NORMALITA DEL MONDO MIGLIORE”. La diffidenza di Montale per la “normalità” di quel “mondo migliore” che dovrebbe costituire l’oggetto della poesia è il tema di La caccia:
Si dice che il poeta debba andare
a caccia dei suoi contenuti.
E si afferma altresì che le sue prede
debbono corrispondere a ciò che avviene nel mondo,
anzi a quel che sarebbe un mondo che fosse migliore.
Ma nel mondo peggiore si può impallinare
qualche altro cacciatore oppure un pollo
di batteria fuggito dalla gabbia.
Quanto al migliore non ci sarà bisogno
di poeti. Ruspanti saremo tutti.
(dal Diario del ‘72)
IL POETA NON PUÒ DARE INDICAZIONI. Nella prima delle sue raccolte, Ossi di seppia (1925),Montale esprimeva infatti la sfiducia nel potere della parola, nell’idea che il poeta possa intervenire sulla realtà o dare delle indicazioni:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
PARAFRASI E COMMENTO. Anche questa poesia, come I limoni, contiene una dichiarazione di poetica, soprattutto dal punto di vista formale.
Il poeta si rivolge all’uomo in genere. abituato per lunga consuetudine a ricevere messaggi dai poeti-vati e a considerarli maestri di vita, e gli dice che lui è tutt’altro che un poeta-vate: è soltanto un individuo isolato, come lo sono tutti gli uomini, e si sente smarrito in un mondo incomprensibile e indecifrabile. Rispetto agli altri, egli ha solo il coraggio di piegarsi con dignità al male di vivere, senza abbandonarsi a fantasie e a illusioni consolatorie, e senza assumere la posa del maestro o del vate.
Non chiederci (o uomo) la parola,ossia dei versi che valgano a squadrare, a plasmare rigorosamente da ogni parte il nostro animo informe, confuso e caotico, né tali che valgano a rivelare chiaramente, in modo inequivocabile (a lettere di fuoco) (la sua natura) e siano splendidi come il (fiore giallo del) croco, che spicca tutto solo in un prato polveroso.
La seconda strofa ha un tono esclamativo ambiguo, che può denotare meraviglia, invidia o commiserazione, verso chi, al contrario di lui, è privo di angosciosi interrogativi esistenziali e crede di avere delle certezze.
Ah, io ammiro (o invidio o commisero) l’uomo che è sicuro di sé, ha fiducia negli altri e in se stesso e non riflette sulla precarietà della vita umana, simboleggiata dalla sua ombra che la canicola imprime sopra un muro scalcinato.
(Perciò) non domandarci (o uomo) torna a ripetere il poeta - la formula magica che possa darti nuove certezze svelandoti i misteri della vita e dell’universo, ma solo qualche sillaba storta, dura, aspra, secca come un ramo (che è la più adeguata ad esprimere la nostra disperazione e la nostra desolazione).
Pertanto, solo una cosa oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (ossia gli aspetti negativi della nostra condizione umana e quelli altrettanto negativi della Storia).
L’INCOMUNICABILITÀ. Le parole non possono comunicare la pena segreta del vivere:
So l’ora in cui la faccia più impassibile
è traversata da una cruda smorfia:
s’è svelata per poco una pena invisibile.
Ciò non vede la gente nell’affollato corso.
Voi, mie parole, tradite invano il morso
secreto, il vento che nel cuore soffia.
La più vera ragione è di chi tace.
Il canto che singhiozza è un canto di pace.
(da Ossi di seppia)
L’IMPORTANZA DELLE DIFFICOLTÀ PER IL POETA. In un articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo” nel 1931 (adesso si legge in Sulla poesia, 1976) Montale scriveva che, a differenza di quanto pensavano i poeti liberisti, gli “ostacoli”, e gli “artifizi” (per esempio la rima)sono importanti per la poesia: “non si dà poesia senza artifizio”.
LE EMOZIONI TRASFORMATE IN OGGETTI. Il lavoro del poeta sulla sua materia, le parole, deve arrivare a rendere concrete le emozioni correlandole agli oggetti: «Il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma deve altresì lavorare una sua materia, verbale, fino a un certo segno, dare della propria intuizione quello che Eliot chiama un correlativo obiettivo. (nota: La poetica dell’objective correlative venne elaborata intorno al 1920 dal poeta angloamericano Thomas Stearns Eliot: si differenziava dal simbolismo per l’importanza che attribuiva alla fisicità degli oggetti e dunque all’intensità con cui sì impongono al lettore, evocando le sue emozioni). Solo quando è giunta a questo stadio la poesia esiste, e lascia un’eco, un’ossessione di sé».
L’IMPORTANZA DEGLI OGGETTI. In una intervista sull’ermetismo rilasciata nel 1940 (adesso si legge in Sulla poesia) Montale precisava questa idea, sostenendo che nel lavoro del «poeta nuovo» è importante la tendenza «verso l’oggetto, verso l’arte investita, incarnata nel mezzo espressivo, verso la passione diventata cosa».
IL MALE DI VIVERE. Un esempio di questa poetica è una poesia che fa parte della raccolta Ossi di seppia (1925),in cui l’emozione (l’angoscia, il male di vivere) viene collegata a una serie di oggetti:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua della sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
PARAFRASI E COMMENTO. Il poeta si rivolge all’uomo in genere, abituato per lunga consuetudine a ricevere messaggi dai poeti-vati e a considerarli maestri di vita, e gli dice
COSE E PAROLE. L’importanza per gli oggetti e la cura per le parole che li devono rendere concreti è una caratteristica importante della poesia di Montale (per l’attenzione alle cose e alle parole Pascoli è di fatto il poeta che ha aperto la strada alla poesia del Novecento).
La poesia “I limoni” (che apre la sua prima raccolta, Ossi di seppia) dichiara l’attenzione per le cose comuni e modeste e l’avversione per la pretesa che i poeti abbiano il riconoscimento sociale di una funzione pubblica e solenne (laureati) e per le parole scelte solo per la loro importanza letteraria e non per le cose che indicano.
Le cose semplici e concrete che, come i limoni, rappresentano emozioni vive (le sensazioni legate ai colori, agli odori, alle canzoni, alla luce e al calore del sole), danno l’impressione (che si rivela però immediatamente una «illusione») di poter svelare da un momento all’altro il «segreto» del mondo, della vita (si tratterebbe di scoprire qual è lo «sbaglio», visto il sentimento di inadeguatezza rispetto alla realtà da cui nasce la poesia di Montale).
I limoni
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni. discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra.
qui tocca a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara - avara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
PARAFRASI E COMMENTO: I Limoni. È una poesia particolarmente significativa per conoscere la poetica di Montale il quale qui dichiara di rifiutare perentoriamente la poesia aulica tradizionale, e di amare gli aspetti aspri e disarmonici della realtà, quelli che i poeti laureati giudicherebbero impoetici e non degnerebbero nemmeno di uno sguardo. Ed invece anche la cosa più modesta, per esempio la vista improvvisa del giallo dei limoni nel tedio di un giorno invernale, può offrire allo spirito un momento di gioia, l’intuizione di qualche verità.
La poesia si divide in due parti. La prima (vv. 1-21) ha carattere descrittivo e ritrae un tipo di paesaggio ligure aspro e accidentato, caro al poeta.
I poeti laureati –egli dice– quelli cioè ufficialmente riconosciuti meritevoli della gloria poetica (con riferimento soprattutto a D’Annunzio), se devono parlare di piante, amano citare quelle che hanno nomi poco usati, come i bossi, i ligustri e gli acanti.
Io, per quanto mi riguarda, amo le strade che sboccano nei fossi erbosi, dove in pozzanghere mezzo prosciugate i ragazzi afferrano qualche piccola anguilla: (amo anche) i sentieri che percorrono gli orli dei fossati (ciglioni), discendono tra i ciuffi delle canne, immettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
È preferibile (stare qui, di sera), se i canti assordanti (gazzarre,) degli uccelli cessano come assorbiti dall’azzurro (del cielo); allora più distinto si avverte il fruscio dei rami amici nell’aria che è quasi immobile, e (più distinta si avverte) la percezione dell’odore (della natura), che non si stacca dalla terra e fa scendere nell’animo, come una pioggia, una dolcezza ansiosa.
Qui (in questa atmosfera di pace) si placa, per miracolo, l’urto delle passioni quotidiane che sono sviate in altra direzione; qui (in questi paesaggi scabri) anche per noi poveri viene la nostra parte di ricchezza, offerta dall’odore dei limoni.
La seconda parte (vv. 22-fine) ha carattere riflessivo. Il poeta si sofferma a osservare gli aspetti della realtà per trovare il varco che lo porti a scoprire il mistero della natura. È un’illusione che dura poco, ma essa può rinnovarsi nei momenti più impensati, per esempio, quando, all’improvviso, nel gelo dell’inverno, da un cortile ci appaiono i gialli dei limoni, dandoci un momento di rara ebbrezza.
Nei silenzi di questi luoghi, in cui le cose si aprono (a noi) e sembrano volerci svelare la loro intima essenza, talora si spera di scoprire il varco attraverso il quale possiamo conoscere il mistero della natura. Il poeta si serve di quattro metafore a sottolineare l’ansia tormentosa della conoscenza: egli spera di scoprire lo sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, la rottura dell’equilibrio universale per un anello che non tiene più, il filo da dipanare che ci metta a contatto con la verità.
Lo sguardo scruta intorno, la mente analizza le cose, le mette in relazione tra loro (notandone le affinità), o le separa (notandone le differenze), mentre di sera si diffonde intorno il profumo (dei limoni). Questi sono i silenzi in cui in ogni ombra umana che si allontana sembra di vedere un essere divino, disturbato come infastidito da una realtà che non è alla sua altezza:.
Ma l’illusione (di essere quasi un essere divino) vien meno e il tempo ci riporta nelle città rumorose, dove l’azzurro (del ciclo) si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra i cornicioni dei palazzi (tra le cimase). La pioggia (dell’autunno), poi, stanca la terra (battendola in continuazione); quindi il tedio dell’inverno si addensa sulle case. la luce si affievolisce, l’anima si rattrista.
(Ma la stessa illusione può ripetersi) quando, nel gelo invernale, (all’improvviso) da un portone mal chiuso, tra gli alberi di un cortile, si mostrano a noi i gialli dei limoni. Allora il gelo del cuore si scioglie, ed i limoni, richiamando alla mente, per analogia del colore, le trombe doro del sole (cioè suoi fasci di luce gioiosa) ci donano l’ebbrezza di un momento di gioia, riversando su di noi lo scroscio delle loro canzoni.
Un’ultima considerazione. L’Ascoltami confidenziale con cui si apre la poesia (così come il Vedi), non deve far pensare ad una persona precisa bensì ad un fittizio interlocutore: a tutti noi lettori.
LA MUSICA DELLE PAROLE. Scrivendo, venti anni dopo, di questo suo primo libro, Montale diceva che non erano i contenuti il motivo che lo avevano spinto a comporre le sue poesie: i contenuti non rappresentavano una intenzione che precedeva la composizione («programmatica»), ma erano soltanto spiegazioni date dopo averle scritte («a posteriori»). Questo perché la sua attenzione si era concentrata non sul piano del contenuto, ma sul piano dell’espressione, sulla ricerca cioè delle parole, ed era stata orientata soprattutto sul loro valore musicale.
«Le intenzioni che oggi espongo sono tutte a posteriori. Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All’eloquenza della nostra vecchia lingua volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza» (in Intenzioni (Intervista immaginaria), 1946; adesso si legge in Sulla poesia).
LA RICERCA E L’INCOMUNICABILITÀ DELLA POESIA, L’ILLUSIONE DELLA REALTÀ. Al centro di un’altra poesia degli Ossi di seppia ritornano i temi della poesia come ricerca di conoscenza («la rottura di quel velo»); del suo limite fondamentale: l’incomunicabilità (contro l’idea che il poeta debba interpretare e dare indicazioni); e della realtà come illusione: il poeta è in grado di scoprire anche solo per un attimo la realtà («rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo»), ma non di comunicarla («me n’andrò zitto... / col mio segreto»); e la realtà è in effetti un «nulla» e la sua apparenza («alberi case colli») solo un «inganno»:
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me. Con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
(da Ossi di Seppia)
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