giovedì 18 febbraio 2010

Giuseppe Ungaretti. Profilo e poesie commentate


Nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1888 da genitori lucchesi (Antonio e Maria Lunardini) emigrati in Egitto al tempo dei lavori per lo scavo del canale di Suez. Il padre era operaio e morì per un incidente sul lavoro quando lui aveva due anni. Studiò nelle migliori scuole di Alessandria e frequentò la Baracca Rossa, un circolo fondato da Enrico Pea, luogo di incontro di anarchici e socialisti. (Enrico Pea, 1881-1956, toscano irregolare e geniale, maniscalco, contadino, rigattiere, mozzo, commerciante di marmi, scrisse racconti e romanzi fra i più interessanti degli anni venti e dell’espressionismo italiano, tra cui il Romanzo di Moscardino, storia della crescita di un ragazzo all’ombra del nonno, straordinaria figura di folle). Aveva 24 anni nel 1912, quando lasciò l’Egitto per proseguire gli studi in Francia. Frequentò a Parigi i corsi del filosofo Henri Bergson e conobbe i maggiori artisti d’avanguardia tra i quali Apollinaire, Léger, Braque, Picasso, Modigliani. Ritornato in Italia, parte­cipò come semplice soldato alla Prima Guerra mondiale. Terminato il conflitto, si stabilì per qualche tempo a Roma, poi si trasferì in Brasile ad insegnare letteratura italiana e lì, per l’errore di un medico che aveva diagnosticato un’appendicite, gli morì per difterite il figlio di nove anni, Antonello.

Ritornato in Italia, Ungaretti insegnò per molti anni letteratura moderna all’Università di Roma. Morì a Milano nel 1970.

Ungaretti, conformemente alla poetica decadente e simbolista, concepisce la poesia come strumento di conoscenza della realtà. Egli ritiene che sia la conoscenza della realtà interiore della coscienza sia quella della realtà esteriore dell’universo non si raggiungono per via razionale, filosofica o scientifica, ma per via analogica; questa permette di scoprire, per improvvise folgorazioni e illuminazioni, le relazioni intercorrenti tra gli esseri, e attraverso una travagliata esperienza, perviene alla coscienza di sentirsi in armonia con l’universo, alla perce­zione dell’assoluto e alla fede in Dio.

Pertanto, la sua poesia contiene la storia dell’itinerario del poeta: dall’angoscia esistenziale, derivata dal senso del mistero e del dolore, alla fede rasserenatrice in Dio; dalla condizione di “uomo di pena” a quella di “uomo di fede”.

Questo spiega il titolo Vita di un uomo, che egli volle dare alla raccolta definitiva delle sue opere, e lo svolgimento stesso della sua lirica, quale si articola, in fasi diverse, nelle singole rac­colte.

Questa concezione della poesia intesa come ricerca dell’autenticità dell’essere richiedeva un’espressione ad essa adeguata. Ungaretti la individuò nella parola nuda, scabra, essenziale, ricondotta alla purezza e alla freschezza delle origini, quando l’uomo dava i nomi alle cose col senso immediato del suo intimo rapporto con esse.

La poesia di Ungaretti presenta dunque uno svolgimento di contenuti e di forme articolato nelle seguenti raccolte: Il porto sepolto (1916), Allegria d naufragi (1919), Sentimento del tempo (1933), Il dolore (1947), e i frammenti La terra promessa (1950), Un grido e paesaggi (1952), Taccuino del vecchio (1960).

La prima raccolta Il porto sepolto (1916) contiene le prime poesie scritte sul fronte di guerra in trincea, su pezzi di carta occasionali, conservati dal poeta nello zaino. Il titolo, anche se allude ad un porto reale nei pressi di Alessandria, ha soprattutto un significato simbolico: il porto sepolto è il mistero, l’assoluto, alla cui ricerca il poeta si pone con la speranza di approdarvi come in un porto di pace.

Successivamente, le liriche di Il porto sepolto confluiscono nella raccolta Allegria di naufragi (1919) che poi diventerà L’Allegria (1932). Anche questo titolo è allusivo: la guerra è come un naufragio della vita; i superstiti del naufragio sono presi da una sorta di ebbrezza per lo scampato pericolo e superano lo sgomento e il dolore con la fede e la speranza di un domani migliore.

Le due raccolte contengono in gran parte le impressioni della Prima Guerra mondiale: il sentimento dell’attaccamento alla vita, che spinge il poeta a scrivere lettere piene d’amore, quando è costretto a passare un’intera nottata vicino a un compagno massacrato (Veglia);il cuore impietrito dal dolore, divenuto simile alla pietra refrattaria del San Michele, indurita dal sole (Sono una creatura);il cuore ancora più straziato delle case sbricio­late dalla guerra, per la morte di tanti che gli corrispondevano (San Martino del Carso);il sen­timento della precarietà della vita: Si sta come / D’autunno / sugli alberi / le foglie (Soldati); il sentirsi docile fibra dell’universo, quando, durante un momento di pausa della guerra, il poeta si bagna nelle acque dell’Isonzo e ricorda altri fiumi (il Serchio, il Nilo, la Senna); infine il disperato anelito a un paese innocente (Girovago), di uomini degni, liberi e fraterni.

In contrasto con la retorica dannunziana e nazionalistica, Ungaretti sente la guerra non come un’occasione di eroismo o di esaltazione patriottica, ma come una fatalità ineluttabile che si abbatte sull’umile e povera gente d’Italia, la quale la subisce con virile rassegnazione, con sem­plicità di gesti e di parole, perché la guerra restituisce l’uomo alla condizione di creatura fragile e indifesa.

Ungaretti vuole esprimere questa condizione umana, che è anche la sua, di combattente diseroicizzato, e lo fa in poesie brevi, a volte brevissime, ridotte a semplici notazioni, ma estremamente dense di significato: poesie da meditare, non da declamare, contenenti impressioni fulminee, profonde. E per esprimere queste impressioni, frutto di una scelta etica di fronte alla guerra, che lo colloca dalla parte della sofferenza, il poeta rinuncia alla retorica, ai metri e ai versi tradizionali, avvalendosi di versi liberi, di parole sem­plici, essenziali, scavate, ricondotte alla loro primitiva purezza e freschezza.

Egli ricorre, inoltre, ai mezzi tecnici escogitati già dai simbolisti e dai futuristi: l’accosta­mento paratattico. l’abolizione della punteggiatura, l’impiego di spazi bianchi e di pause, i titoli suggestivi ed evocativi, l’uso dell’analogia e della sinestesia per congiungere velocemente sen­sazioni e sentimenti diversi.

Terminata la guerra, Ungaretti continua la sua meditazione sulla poesia e sulla condizione dell’uomo. La prima lo porta al recupero dell’en­decasillabo e del settenario. Tale scelta, tuttavia, non si riduce ad una pura esercitazione stilistica e metrica, ma risponde all’esigenza morale del poeta di comunicare agli uomini le sue arcane scoperte, di essere, insomma, il poeta “veggente”, teorizzato dai simbolisti e da Rimbaud.

Quanto alla meditazione sulla condizione dell’uomo, il titolo della nuova raccolta, Sentimento del tempo, è allusivo: significa sentimento del veloce scorrere del tempo, del rapido fluire delle cose, delle persone amate, che produce, per contrasto, la nostalgia del passato e un più tenace attaccamento alla vita. Ma accanto al fluire delle cose appare l’altro tema della raccolta, il sentimento di Dio, in cui si placa l’angoscia esistenziale del poeta.

Per giudizio unanime della critica le poesie contenute ne L’Allegria e nel Sentimento del tempo sono tra le più suggestive di Ungaretti.

Le poesie raccolte in Il dolore furono scritte dal 1940 al 1946 e trag­gono origine da due esperienze del poeta: la prima personale e individuale (la morte del figlio), l’altra universale, la tragedia della Seconda Guerra mondiale, che ispira al poeta un messaggio d’amore e di solidarietà tra gli uomini (Non gridate più...).

Le altre raccolte La terra promessa (1950), Un grido e paesaggi (1952) e il Taccuino del vec­chio (1960) trattano ancora i temi del dolore, del tempo, di Dio, ma la sincerità dell’ispira­zione è soverchiata da una compiaciuta letterarietà di forme.

Un cenno a parte merita La terra promessa, una raccolta di liriche che dovevano costituire un poema, un libretto d’opera che però non fu condotto a termine. Il tema era la storia del viaggio avventuroso di Enea. Del progetto restano solo alcuni frammenti, come i Cori che descrivono gli stati d’animo di Didone, e contengono le meditazioni sulla morte, sul tempo e sull’amore.

Alle poesie di Ungaretti si aggiungono anche le numerose traduzioni:da Shakespeare, Racine, Géngora, ecc.

Ungaretti, la cui fama fu dapprima ristretta negli ambienti della critica, è oggi considerato uno dei più grandi poeti contemporanei.

Egli è stato il dissolvitore del linguaggio poetico tradizionale e il creatore di un linguaggio poetico nuovo, meglio aderente al sentimento del poeta e alla disincantata vita moderna. Il recupero dell’endecasillabo e del settenario in Sentimento del tempo, dopo l’esperienza inno­vatrice dell’Allegria, dà un connotato preciso alla sua posizione che è quella di un “classicismo moderno”, di una “avanguardia nella tradizione”. Questo spiega il suo amore per il Petrarca e il Leopardi, da lui considerato come il punto d’avvio di ogni poetica.

In questa sintesi tra antico e modernoegli supera il disgregamento psicologico e formale dei simbolisti e dei futuristi e conserva un posto di rilievo nella storia della poesia contemporanea.

Parafrasi e commento di alcune poesie


Da L’Allegria


VEGLIA

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita


Qui la guerra è vista nella sua tragica ed assurda disumanità, in modo del tutto opposto alle celebrazioni retoriche dei futuristi, che la chiamarono “sola igiene del mondo” (Marinetti), di D’Annunzio e degli interventisti.

Veglia è scritta con la tecnica consueta di Ungaretti, volta alla ricerca della parola scarnificata, essenziale, pura o assoluta, immune cioè dalle incrostazioni del linguaggio convenzionale. Ungaretti stesso spiegò la ragione di tale ricerca. «Stando tra i morti», egli scrisse, «non c’era tempo: bisognava dire delle parole decise, assolute, ecco allora questa necessità di esprimersi con pochissime parole, di ripulirsi (liberarsi) della retorica, di non dire che quello che era necessario».

La poesia indica la ragione della veglia notturna del poeta.

Per un’intera notte buttato (come uno straccio) accanto ad un compagno massacrato, con la bocca deformata rivolta verso il plenilunio, e con le mani congestionate, impresse nel silenzio assorto della mia anima (col gesto disperato di aggrapparsi alla vita), ho scritto lettere d’amore (mosso da un incoercibile bisogno di affetto). Mai come in quel momento, (davanti all’orrore della morte violenta) ho sentito un più intenso attaccamento alla vita, un attaccamento, si badi, non egoistico, ma sentito come protesta contro la guerra, come proclamazione del diritto di tutti gli uomini alla vita.

Il plenilunio verso cui è rivolta la bocca del compagno massacrato, è il simbolo della dolcezza e della bellezza della vita.


FRATELLI

Mariano il 15 luglio 1916

Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante

involontaria rivolta

dell’uomo presente alla sua

fragilità

Fratelli


Anche questa poesia rispecchia, come tante altre, la visione tragica che della guerra ebbe il poeta.

Ungaretti non vede la guerra come una palestra di patriottismo o un’occasione di eroismo, ma, per la mostruosità della violenza e la presenza sempre incom­bente della morte, come un momento tragico, in cui l’uomo acquista coscienza della propria fragilità e precarietà, sente un inconscio impulso di rivolta e avverte il bisogno di unirsi agli altri, di avere vicino un cuore fraterno.

In una notte di guerra egli vede passare un reparto di soldati e, chiamandoli istinti­vamente “fratelli”, domanda di che reggimento sono.

La parola risuona (dolce) nella notte, tremante (di commozione), come una foglia appena nata, vibrante di nuova vita e di speranza.

Nell’aria spasimante, cioè tutta tesa dall’angoscia della guerra, la parola “fratelli” non è soltanto dolce e grata, ma è carica di un impulso d’inconscia ribellione contro la sorte che costringe gli uomini all’assurdità e ai rischi della guerra, nella piena coscienza della loro fragilità e precarietà.


C’ERA UNA VOLTA

Quota Centoquarantuno l’1 agosto 1916

Bosco Cappuccio

ha un declivio

di velluto verde

come una dolce poltrona

Appisolarmi là

solo

in un caffè remoto

con una luce fievole

come questa

di questa luna


Nell’arido pomeriggio carsico, in piena guerra, il poeta, per un improvviso mutamento di un tratto del paesaggio, trova uno spiraglio di evasione e di sogno.

Bosco Cappuccio è il nome del colle che ha offerto al poeta lo spunto per questa lirica. Egli nota che (contrariamente all’arido paesaggio dei dintorni) esso ha il declivio, cioè il terreno in pendio, coperto di erba verde, morbida e folta, come il velluto, che gli richiama alla mente la comodità di una riposante poltrona.

L’immagine della poltrona porta il poeta lontano. Egli non è più spiritualmente sul Carso straziato dalla violenza della guerra. ma (a Parigi), in un caffè remoto, appartato (dove gli sarebbe dolce) appisolarsi alla luce di una lampada fioca, come la luce della luna che imbianca Bosco Cappuccio.

Dato il momento e il luogo in cui si trova (la guerra, il Carso), il sogno appare tale in tutta la sua irrealtà, sicché l’appisolarsi nella quiete di un caffè, più che una speranza proiettata nel futuro dopoguerra, risulta un dolce ricordo del passato, quando, prima della guerra, il poeta viveva a Parigi ed era un assiduo frequenta­tore di caffè, dove incontrava letterati e artisti suoi amici. Per questo il titolo della lirica è C’era una volta:l’inizio consueto di tutte le favole.


SONO UNA CREATURA

Valloncello di Cima quattro il 5 agosto 1916

Come questa pietra

del S. Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata

Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede

La morte

si sconta

vivendo

Il monte San Michele, presso Gorizia, che ha ispirato a Ungaretti questa lirica de L’Allegria, fu teatro di aspri combattimenti durante la guerra. Il poeta, volendo esprimere la sua pena dinanzi agli orrori della guerra, sottolinea l’analogia tra la pietra della montagna e il suo animo impietrito dal dolore. E lo fa a ragion veduta, perché la guerra con la sua disumanità gli appare come una sofferenza cosmica, che accomuna gli uomini e gli elementi del creato.

La poesia si apre con un lungo paragone fatto di termini scabri, essenziali, for­temente cadenzati, che denotano l’estrema aridità e durezza del paesaggio per meglio evidenziare il secondo termine del paragone, costituito dall’animo impie­trito del poeta.

Come questa pietra del San Michele, così fredda, così dura, così arida, così inerte, così totalmente priva di un minimo segno di vita, (proprio) come questa pietra è il mio dolore (di creatura sensibile) che (però) non si vede (perché è tutto chiuso nel mio animo e non ha né il dono delle lacrime, che sono sempre uno sfogo, né quello della morte, che comun­que è sempre una liberazione).

Il privilegio di essere scampato alla morte si sconta, si paga, vivendo in un cupo dolore.


I FIUMI

Cotici il 16 agosto 1916

Mi tengo a quest’albero mutilato

abbandonato in questa dolina

che ha il languore

di un circo

prima e dopo lo spettacolo

e guardo

il passaggio quieto

delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso

in un urna d’acqua

e come una reliquia

ho riposato

L’Isonzo scorrendo

mi levigava

come un suo sasso

Ho tirato su

le mie quattr’ossa

e me ne sono andato

come un acrobata

sull’acqua

Mi sono accoccolato

vicino ai miei panni

sudici di guerra

e come un beduino

mi sono chinato a ricevere

il sole

Questo è l’Isonzo

e qui meglio

mi sono riconosciuto

una docile fibra

dell’universo

Il mio supplizio

è quando

non mi credo

in armonia

Ma quelle occulte

mani

che m’intridono

mi regalano

la rara

felicità

Ho ripassato

le epoche

della mia vita

Questi sono

i miei fiumi

Questo è il Serchio

al quale hanno attinto

duemil’anni forse

di gente mia campagnola

e mio padre e mia madre

Questo è il Nilo

che mi ha visto

nascere e crescere

e ardere d’inconsapevolezza

nelle estese pianure

Questa è la Senna

e in quel suo torbido

mi sono rimescolato

e mi sono riconosciuto

Questi sono i miei fiumi

contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia

che in ognuno

mi traspare

ora ch’è notte

che la mia vita mi pare

una corolla

di tenebre


(In un giorno di calma sul fronte) me ne sto vicino ad un albero mutilato, spezzato dalle granate, tutto solo (aperto, però, alla contemplazione della natura) in una dolina (cavità naturale del terreno carsico) che ha l’aspetto desolato (il languore) di un circo prima e dopo lo spettacolo, e guardo il passaggio tranquillo delle nuvole sulla luna.

Questa mattina mi sono bagnato in una pozza (dell’Isonzo), simile ad un’urna e in essa mi sono disteso, come una reliquia (col mio corpo sopravvissuto alla furia della battaglia).

Ero così abbandonato e compenetrato nella natura del fiume, che l’Isonzo, scorrendo su di me, mi levigava,come se fossi un suo sasso.

Poi ho tirato su le mie quattr’ossa, il mio fragile corpo, e sono uscito dal fiume (cam­minando sull’acqua) con la cauta sicurezza di un acrobata; quindi mi sono accoccolato (mi son posto, cioè, a sedere sulle calcagna) vicino ai miei panni sporchi del fango della trincea, e mi sono piegato come un beduino per ricevere il sole.

Nelle acque dell’Isonzo (a contatto della natura) mi sono sentito meglio (che in altri momenti), un elemento docile (fibra) dell’universo (in perfetta consonanza con esso). La mia pena sorge quando (come fra gli orrori della guerra) non mi sento in armonia col creato.

Ma le acque dell’Isonzo, come mani invisibili, mi compenetrano e mi donano la felicità, rara (in guerra) di sentirmi in intima comunione non solo con la natura, ma anche col mio passato.

Perciò ho rievocato le epoche della mia vita, scandite dalle acque di altri fiumi (il Ser­chio, il Nilo, la Senna).

Il Serchio è il fiume della terra di origine (Lucca) della mia famiglia di gente campa­gnola, di mio padre e di mia madre.

Il Nilo è il fiume che mi ha visto nascere e crescere e abbandonarmi agli ardori istintivi, inconsapevoli, della giovinezza, nelle vaste pianure dell’Egitto.

La Senna,infine, è il fiume della mia maturazione spirituale e artistica, perché nelle acque limacciose, torbide della Senna (simbolo dei fermenti culturali e artistici di Parigi) io mi rimescolai e acquistai la consapevolezza di me stesso.

Mentre questa mattina ero immerso nell’Isonzo, ho rievocato questi altri fiumi, ognuno dei quali rappresenta una fase importante della mia vita. Dai ricordi di essi mi deriva una soave nostalgia, un dolce rimpianto ora che è scesa la notte; e la mia vita (esposta ai rischi della guerra, nella sua fragilità e precarietà) è simile a un fiore tremante nell’oscurità della notte (una corolla di tenebre).

Così la poesia, iniziata con un senso di sollievo e di refrigerio in una giornata di calma, simboleggiata dal quieto passaggio delle nuvole sulla luna e dalla visione del poeta immerso nelle acque dell’Isonzo, si chiude con l’immagine delle tenebre della notte, che, per chi è esposto ai rischi di guerra, sono un presagio di dolore e di morte.


SAN MARTINO DEL CARSO

Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

Ma nel cuore

nessuna croce manca

E’ il mio cuore

il paese più straziato


Il tema di San Martino del Carso è ancora quello della guerra, vista come uno stru­mento di distruzione, di morte e di straziante dolore.

Con un procedimento analogo a quello di altre liriche de L’Allegria,il poeta trae lo spunto da un dato realistico-oggettivo, le macerie, cioè, di San Martino, un paesino quasi completamente distrutto dai tiri dell’artiglieria; quindi, ripiegan­dosi su se stesso, scopre un’analogia tra il paese devastato ed il suo spirito stra­ziato per la morte di tanti compagni travolti dalla furia devastatrice della guerra.

Dopo i tiri dell’artiglieria, delle case di San Martino del Carso non è rimasto che qual­che frammento di muro.

Di tanti compagni, legati a me da reciproco affetto e dal comune pericolo, non è rimasto neppure tanto, cioè neppure un brandello del loro corpo.

Ma essi vivono tutti nel mio cuore, dove, come in un cimitero, per ognuno di essi vi è una croce. Perciò di tutti i paesi straziati dalla guerra, il mio cuore è il paese più straziato.

In questa brevissima lirica, il tema è ancora la guerra, vista nella sua tragica vicenda di dolore e di morte.

Il poeta, che ha visto morire tanti compagni durante i combattimenti, ha voluto rappresentare l’estrema precarietà della vita dei soldati veramente sospesa a un esile filo, evidenziandola con un paragone efficacissimo.

I soldati (nella loro condizione di esseri esposti quotidianamente ai rischi della guerra) sono simili alle foglie d’autunno sugli alberi, le quali al più lieve soffio di vento si staccano dai rami e cadono per marcire nel terreno.

L’analogia è espressa in pochi versi, brevi, essenziali, dal tono epigrammatico, per fare meglio risaltare l’inesorabile destino di morte che grava su ogni combat­tente.


da Sentimento del Tempo

LA MADRE

1930

E il cuore quando d’un ultimo battito

Avrà fatto cadere il muro d’ombra,

Per condurmi, Madre, sino al Signore,

Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio,decisa,

Sarai una statua davanti all’Eterno,

Come già ti vedeva

Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,

Come quando spirasti

Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,

Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,

E avrai negli occhi un rapido sospiro.


La poesia fa parte della raccolta Sentimento del tempo. Qui Ungaretti abbandona i modi sperimentali de l’Allegria, e si volge alla ricerca della poesia “pura”, concentrata in improvvise folgorazioni e con il recupero dei versi tradizionali, specialmente l’endecasillabo e il settenario così cari al Leopardi. Nei contenuti si apre al colloquio con gli uomini e ai temi di più vasta umanità.

La poesia fu scritta per la morte della madre nel 1930 e fonde insieme in circo­lare unità il passato e il futuro del poeta, il mondo terreno e quello dell’eternità.

Comincia con la congiunzione copulativa e, quasi a indicare la continuazione di un discorso iniziato tra sé e sé, come a dire: “è vero che la morte oggi ci ha sepa­rati, ma un giorno torneremo a rivederci per stare sempre insieme”.

E quando lì mio cuore, coi suo ultimo battito, avrà fiatto cadere il muro d’ombra (avrà, cioè, squarciato il velo del mistero che separa il mondo terreno da quello dell’al di là), tu, come una volta (quando ero bambino) mi darai la mano per condurmi davanti al Signore (ed essere da lui giudicato).

In ginocchio, ben ferma (nel proposito di ottenere per me il perdono delle colpe) starai immobile come una statua davanti all’Eterno, come quando Egli ti vedeva (pregare, con la stessa devozione) mentre eri ancora in vita.

Alzerai tremante per l’ansietà le vecchie braccia, come quando spirasti (chiedendo a Dio la mia salvezza) con un’umile offerta di te.

E solo quando Egli mi avrà perdonato, liberata dall’ansietà per la mia salvezza, ti verrà il desiderio di guardarmi.

Ricorderai di avermi tanto atteso e (finalmente) avrai negli occhi una luce di sollievo, di gioia e di amore (un rapido sospiro)


Da Il dolore

NON GRIDATE PIU’

Cessate d’uccidere i morti,

Non gridate più, non gridate

Se li volete ancora udire,

Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore

Del crescere dell’erba,

Lieta dove non passa l’uomo.


È una poesia di profondo impegno morale e civile, ispirata al poeta dalla “Guerra fredda”. Così erano chiamati i contrasti scoppiati, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra le nazioni occidentali e i paesi del blocco comunista, separati dalla “Cortina di ferro” - come la chiamò Winston Churchillin un discorso tenuto a Fulton, nel Missouri. nel marzo 1946 - costituita da una linea ideale tra Stettino (Polonia) e Trieste, che separava i due mondi contrapposti. I contrasti furono a volte di tale gravità da far temere lo scoppio di una Terza guerra mondiale.

Quei contrasti non si verificarono soltanto nei rapporti internazionali, ma anche nell’interno di alcuni Stati, come l’Italia, determinando lotte, spesso anche cruente, ispirate dalle contrapposte ideologie. Fu allora che si levarono le voci di alcuni poeti a condannare la violenza e ad esortare gli uomini alla pacificazione dei animi in nome delle sofferenze e dei lutti recenti. In quell’occasione perfino i poeti ermetici ed i loro epigoni, come Quasimodo, Gatto, Sereni, Luzi, sentirono il dovere di uscire dal proprio narcisistico isolamento e di far sentire il loro giù di dolore per gli odi e le passioni che dividevano ancora gli uomini sopravvissuti all’inumano conflitto.

Non gridate più è la poesia con cui Ungaretti, con brevità e semplicità di parole, fece sentire la propria voce, esortando gli uomini a porre fine ai rancori e a raccogliersi in religioso silenzio, per ascoltare il messaggio di pace, di speranza e civiltà, che saliva dalle tombe in cui giacevano tutte le vittime della guerra. Non ascoltare la fievole voce dei morti era come ucciderli un’altra volta, perché significava che il loro sacrificio era stato vano ed inutile.

Finitela di uccidere (una seconda volta) i morti (con le vostre risse e i vostri clamori) non gridate più, non gridate, se volete ancora ascoltare il loro messaggio (di pace, di corcordia e di amore), se sperate di non perire, di salvare voi stessi e i valori della civiltà umana.

(I morti) hanno una voce fievole, impercettibile; essi non fanno più rumore dell’erba che cresce fitta e rigogliosa, dove regna il silenzio ed essa non viene calpestata dall’uomo.

Perciò - è la conclusione (non Scritta) a cui vuole giungere il poeta - solo raccogliendovi in religioso e riverente silenzio, potete ascoltare il messaggio dei morti, valorizzare il loro sacrificio e salvare voi stessi, la vostra dignità di uomini civili.

I critici, a proposito di questa poesia di Ungaretti, ritengono che il poeta abbia svolto un motivo affine a quello della foscoliana corrispondenza d’amorosi sensi (nei Sepolcri), ossia di un dialogo ideale tra i vivi e i morti.

Tuttavia è stato giustamente osservato che si tratta solo di un’affinità generica, perché le motivazioni del dialogo ideale tra i vivi e i morti sono ben diverse, dovute alla diversità delle epoche storiche a cui si riferiscono i due poeti.

Il Foscolo volendo scuotere gli italiani del suo tempo dal loro torpore spirituale e indurli a combattere per la liberazione della patria, fu mosso da un intento patriottico quando scrisse che le tombe dei grandi spingono gli animi forti a com­piere imprese magnanime e gloriose. Ungaretti, invece, volendo esortare gli italiani del suo tempo a deporre gli odi e a vivere in pace tra loro, fu mosso da un intento squisitamente morale e civile, e pertanto affidò ai morti non il compito di spingere gli uomini a compiere imprese gloriose e magnanime, ma quello di indurre gli ita­liani a non azzuffarsi più tra loro, a meditare sulla disumanità e la follia delle guerre, a godere i frutti della pace e della convivenza civile. Quella del Foscolo è dunque una esortazione energica e battagliera. mirando ad accendere negli uomini a passione e l’ideale patriottico; quella di Ungaretti, invece, è pacata e mira a far ragionare gli uomini sugli effetti nefasti dell’odio e delle guerre che affliggono e disonorano l’umanità.

In breve: Foscolo, facendo leva sulla corrispondenza d’amorosi sensi tra i vivi e i morti parla al sentimento degli Italiani, Ungaretti alla loro ragione.

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