martedì 16 febbraio 2010

Ugo Foscolo: In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera.


In un opuscolo pubblicato nel 1803 il poeta presentava “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo”; “All’amica risanata” e dodici sonetti, scritti tra il 1797 e il 1803. Si tratta di opere che rientrano nell’orizzonte della poetica neoclassica, in cui ai grandi modelli contemporanei che ispiravano l’Ortis (Rousseau, Alfieri) si sostituiscono i modelli classici. I primi sonetti, otto, scritti tra il 1798 e il 1802, sono fitti di riferimenti letterari e di toni enfatici e retorici. I sonetti maggiori, quattro per la precisione, sono invece considerati tra i migliori della letteratura italiana. I titoli con cui sono noti (Alla musa, In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera) non si devono a Foscolo.

Commentiamo ed operiamo la parafrasi degli ultimi tre sonetti.

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo (“In morte del fratello Giovanni”) anticipa il motivo, approfondito poi nei Sepolcri, della corrispondenza di amorosi sensi fra i vivi e i defunti, attorno alla tomba.

Né più mai toccherò le sacre sponde (“A Zacinto”) è incentrato sul tema dell’esule, acui il detsino non può riservare altro che un sepolcro non confortato dal pianto perché si trova in terra straniera, lontano dai congiunti e dai compatrioti. Il dramma della “illacrimata sepoltura” è consolato dal ricordo d’infanzia di una terra che è anche la sede di una classicità idealizzata e rasserenante.

Forse perché della fatal quiete (“Alla sera") è basato sul motivo preromantico della notte come prefigurazione della morte che si risolve nel mesto conforto della provvisoria pace serale dello spirito.


IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI

Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, mi vedrai seduto
su la tua pietra , o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentili anni caduto.

La madre or sol, suo dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto:
ma io deluse a voi le palme tendo;
e se da lunge i miei tetti saluto,

sento gli avversi Numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l'ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.



In morte del fratello Giovanni”, dei sonetti «maggiori», è il più ricco di motivi sulla questione della Tomba e del destino ulisseo di Foscolo, dell’esilio, dell’amore e della gloria che non si realizzano. Infatti Zacinto sviluppa il motivo dell’esilio e dell’illacrimata sepoltura, e “Alla sera” propone la riflessione del poeta sulla sera, vista come simbolo della pace e della morte. Il Foscolo stesso dovette giudicare perfetto ed esemplare questo sonetto, perché lo riportò, solo fra tutti gli altri, nel Saggio sulla storia del sonetto italiano.

Il sonetto si può dividere in tre parti. Nella prima parte (vv. 1-4), Foscolo promette al fratello che, se un giorno cesserà il suo peregrinare esule di terra in tetra, verrà anche lui a piangere sulla sua tomba. Per ora, dice il poeta nella seconda parte (vv. 5-12), soltanto la madre, trascinando la sua vecchiaia, piange sulla tomba del fratello morto e parla a lui dell’altro figlio lontano (e cioè il poeta stesso) che invano spera di andare a vivere con lei, perché si sente perseguitato dallo stesso destino avverso e sente la stessa pena di vivere che ebbe il fratello, e lo stesso desiderio di quella pace che si gode soltanto nel grembo della morte.
Fallite le dolci speranze della giovinezza, (la libertà della patria, l’amore, l’eroismo, la virtù, la gloria, ecc.), non rimane al poeta che la speranza nella pace eterna della morte.
«Questo di tanta speme oggi mi resta!»

Il sonetto, iniziato col tema dell’esilio («Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo/ di gente in gente»), si conclude con il presentimento della morte in terra straniera.

Il poeta, nella terza parte, costituita dall’ultima coppia di versi, rivolge alle genti straniere la preghiera di restituire le sue ossa. dopo la morte, alla madre, perché la sua tomba possa avere almeno il conforto del pianto dell’amore materno.



A ZACINTO

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, e il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.



Il sonetto svolge due motivi strettamente congiunti: la rievocazione nostalgica della patria lontana ed il presentimento dell’illacrimata sepoltura.
Il primo motivo (vv. 1- 11) si estende per quasi tutto il sonetto.
Il poeta ha il presentimento di non rivedere più Zacinto, dove visse la fanciullezza. Il ricordo della patria lontana richiama alla mente del poeta la bellezza del suo mare, il mito di Venere nata dalla spuma del mare, la poesia di Omero che celebrò la bellezza di Zacinto e narrò le peregrinazioni di Ulisse, l’eroe perseguitato dal destino, che finalmente approdò e baciò la sua Itaca petrosa, un lembo di terra rocciosa, arida, povera, ma cara al suo cuore perché era la patria.

Il secondo motivo è lo sviluppo logico del primo e occupa gli ultimi tre versi del sonetto. Il ricordo di Ulisse fa ripiegare il poeta su se stesso e gli fa avvertire l’analogia del proprio destino con quello dell’eroe greco: anch’egli, infatti, si sente perseguitato da una sorte avversa e crudele, ma poi ha il presentimento della diversità della sua conclusione. L’Ulisse omerico riuscì finalmente un giorno a rivedere la patria, l’Ulisse moderno, il Foscolo stesso, ha il presentimento della morte in terra straniera, in assoluta solitudine, non confortata dal pianto dei congiunti e degli amici. Al mito classico dell’eroe pellegrino che prima o poi raggiunge la patria si sostituisce il mito, romantico, di colui che non riuscirà a trovare casa.



ALLA SERA

Forse perché della fatal quïete
tu sei l'immago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.



Ritroviamo qui la caratteristica dei sonetti maggiori del Foscolo: la tendenza a universalizzare i propri sentimenti, a trasformare cioè un’esperienza personale in un tema di meditazione sul comune destino di dolore degli uomini.

Il poeta, rivolgendosi alla sera, dice, nelle due quartine, che essa, con l’atmosfera di silenzio e di pace che diffonde intorno, gli è sempre cara in ogni stagione, perché gli suggerisce il pensiero della pace eterna della morte e l’idea del nulla eterno, in cui si dissolvono le passioni e gli affanni della vita umana.
Dalla pace della sera e dalla meditazione sul nulla eterno deriva (nelle due terzine) all’animo del poeta un senso di ristoro e di pace. Egli sente infatti placarsi e assopirsi momentaneamente il tumulto dei sentimenti e delle passioni, nel quale trascorre la vita. «Mentre guardo la tua pace», egli conclude, «dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge».

Il sonetto è d’intonazione preromantica, perché svolge il motivo dell’animazione romantica della natura, alla quale vengono attribuiti i sentimenti umani della letizia (liete sono le nubi estive, sereni i venti) o del dolore (inquiete sono le tenebre). Classica è, invece, al di là dell’uso di termini latineggianti (immago, aere, torme, cure), la linearità della struttura, la pacatezza dell’espressione, il dominio dei sentimenti.

Claudio Di Scalzo

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